Nausea. Rabbia. Dolore. Guidare attraverso le piantagioni di Papua – la provincia più orientale dell’Indonesia – in compagnia dei miei amici del popolo marind-anim, mi ha fatto capire la rovina e la disciplinata monotonia delle monocolture industriali meglio di qualunque ripresa ad alta risoluzione fatta da un drone o di qualsiasi patinata rivista ambientalista.
Eravamo circondati da una distesa infinita di palme da olio. Una processione di camion rombava all’orizzonte, trascinando carichi di tronchi abbattuti fra nuvole di polvere rossa. L’impianto di lavorazione dell’olio di palma, che si stagliava su un terreno rialzato, sputava fumo e vapore senza sosta, giorno e notte. Incendi appiccati illegalmente consumavano la foresta, avvolgendo il paesaggio in una foschia asfissiante.
Curvi accanto alla strada, alcuni giovani lavoratori della piantagione ci osservavano con sguardo spento. Il paraquat, un diserbante altamente tossico, gocciolava dai recipienti arrugginiti legati alla schiena delle donne e colava sulla loro pelle nuda. Vietato in molti paesi per i suoi effetti potenzialmente letali sugli esseri umani, è un veleno contro il quale non esiste un antidoto. Ho pensato ai bambini che non sarebbero mai nati.
I miei amici, accovacciati sul pianale dell’autocarro con i volti coperti di polvere, guardavano scorrere il paesaggio e piangevano. I più piccoli avevano conati di vomito per il fetore degli scarichi del frantoio mentre percorrevamo le strade sterrate senza mai fermarci, in modo da non attirare l’attenzione dei militari assunti per sorvegliare le piantagioni.
Mucchi di frutti di palma erano disseminati ai bordi della strada, putrescenti cumuli rosso sangue e antracite coperti di spine acuminate. Bulldozer e motoseghe si facevano largo tra le chiazze di vegetazione rimasta. Stagliandosi contro il sole annebbiato, gli elicotteri volavano sopra di noi, diffondendo un velo lattiginoso di pesticidi.
In un veicolo simile, alla fine di luglio del 2015, Paulus Mahuze (tutti i nomi nell’articolo sono stati cambiati), un capo clan marind-anim del villaggio di Khalaoyam, nella reggenza di Merauke, mi raccontò come l’olio di palma era arrivato nella sua terra. Nell’agosto 2010 una delegazione di rappresentanti del governo di Jakarta, guidati dall’allora ministro dell’agricoltura Suswono, aveva partecipato a una cerimonia d’inaugurazione in un villaggio vicino. Stavano lanciando il Merauke integrated food and energy estate (Mifee), un progetto da cinque miliardi di dollari per promuovere l’autosufficienza alimentare e fare dell’Indonesia un esportatore netto di prodotti agricoli. Gli abitanti di tutta la regione erano stati invitati all’evento, compresi quelli dei villaggi marind lungo il tratto superiore del fiume Bian.
Paulus mi descrisse la cerimonia: “Era una giornata calda. C’era abu (polvere) dappertutto, sollevata dai convogli del governo e dai camion militari. La polvere ci bruciava gli occhi e faceva piangere i bambini. Il governo aveva portato i capi delle aziende di sawit (olio di palma) dal pusat (il centro, cioè Jakarta). Ci dettero degli spaghetti istantanei, penne, bottiglie d’acqua. Ci regalarono anche delle sigarette di lusso. Parlarono un sacco del Mifee. Mifee qua, Mifee là… ma noi non capivamo cos’era questo Mifee. Non sapevamo cos’era l’olio di palma, perché la palma da olio nelle nostre foreste non c’è. Poi i funzionari del governo e i capi delle aziende se ne andarono. Non sarebbero mai tornati al villaggio. Ci promisero denaro e posti di lavoro. Dissero che il Mifee ci avrebbe dato da mangiare. Io credevo che avrebbero piantato yam, verdura e alberi da frutto. Invece piantarono palme da olio. Piantarono palme da olio dovunque era possibile. Trasformarono l’intera foresta in palme da olio. Abbatterono tutte le palme da sago per piantare palme da olio. Da allora è tutto abu-abu (grigio, nel senso di incerto)”.
A maggio del 2011 il governo indonesiano aveva assegnato circa due milioni di ettari di terra nel Merauke a 36 grandi aziende nazionali e internazionali per lo sviluppo di piantagioni di palma da olio, legname e canna da zucchero. Vaste aree di foresta erano state disboscate o bruciate. Grandi corsi d’acqua erano stati deviati per irrigare le nuove monocolture. Oggi il villaggio di Paulus, insieme ad altri lungo il tratto superiore del fiume Bian, è circondato da piantagioni di palma da olio che coprono molte centinaia di migliaia di ettari dove un tempo c’erano foreste. Ora decine di altre aziende stanno chiedendo licenze. L’industria agroalimentare continua a espandersi implacabilmente in tutta la regione.
Le spine sono affilate come baionette. E i frutti sono come proiettili. Duri. Tondi. Neri. A volte rossi, come il sangue
Animali di plastica
Ho visitato per la prima volta l’alto Bian nel 2011. Stavo facendo ricerche sul campo per conto di alcune ong e istituzioni ecclesiastiche per documentare l’impatto sociale e ambientale delle piantagioni di palma da olio nella regione di Merauke. Avevo scoperto che i progetti agroindustriali venivano ideati e attuati senza il consenso delle comunità marind-anim locali. La collusione tra militari e aziende era ovunque. Anche quando gli abitanti erano consultati, i progetti gli venivano presentati come un fatto compiuto, e nessuno dava informazioni sufficienti sui potenziali rischi per la sicurezza alimentare ed economica. Le piantagioni di palme erano descritte come fondamentali per gli interessi nazionali, la crescita economica della regione e lo “sviluppo” dei papua, che sarebbero diventati cittadini moderni e civili. Eppure le opportunità di lavoro per i marind-anim della zona erano limitate, perché le aziende preferivano portare la loro forza lavoro o assumere immigrati. Gli abitanti dei villaggi denunciavano anche la mancata realizzazione di progetti di responsabilità sociale d’impresa, il drammatico inquinamento dell’acqua, la perdita della biodiversità e la deforestazione con incendi illegali.
La coltura di palma da olio nel Merauke è un esempio di quella che l’antropologa Tania Li definisce “la dinamica espropriatrice” dell’espansione agroindustriale, un processo basato sulla violenza strutturale sotto forma di privazione della terra, aumento della povertà ed emigrazione forzata. Le piantagioni rappresentano un classico caso di land-grabbing, l’acquisto di terra su larga scala da parte delle multinazionali dell’agricoltura, intensificato dalla crisi alimentare, energetica e finanziaria del 2008. Quello che stava succedendo nel Merauke non è molto diverso da ciò che avevo visto in altre zone dell’arcipelago indonesiano, in particolare a Sumatra e nel Kalimantan. Ma era vissuto in modo diverso.
Ero colpita da come i marind della regione dell’alto Bian elaboravano l’arrivo della palma da olio. Le storie che sentivo non parlavano di mercati globali, interessi aziendali o sicurezza alimentare. E non erano incentrate sulla questione della proprietà e dei diritti dei popoli indigeni. Nelle riflessioni degli abitanti dei villaggi abbondavano dichiarazioni criptiche sulla loro attuale condizione, che erano invariabilmente precedute dall’espressione “da quando è arrivata la palma da olio”. La palma da olio, mi diceva la gente, era un totem moderno che aveva fatto fermare il tempo. La foresta era diventata un mondo di linee dritte infestato da un essere rapace e straniero. Casuari e coccodrilli si trasformavano in plastica e piangevano come esseri umani vedendo scomparire i loro habitat. Di notte, la palma da olio entrava nei sogni delle persone e consumava la loro carne e i loro fluidi. La pelle degli animali e delle piante si stava seccando perché la palma da olio succhiava l’umidità della terra e divorava la foresta.
Per i marind-anim l’espansione della palma da olio non poteva essere inquadrata come un problema sociale o ecologico. E non poteva neppure essere affrontata solo dal punto di vista dei diritti umani o della giustizia ambientale. Era un fenomeno che stava cambiando radicalmente il loro senso dello spazio, del tempo e dell’identità – i loro corpi, le loro storie, perfino i loro sogni. Ed era una crisi esistenziale che non si limitava agli esseri umani, perché non risparmiava nessun ambito della vita e nessuna specie. Nelle loro campagne contro la palma da olio, le ong prendevano di mira il governo indonesiano, le grandi aziende internazionali e gli investitori. Le comunità colpite invece sembravano più interessate alla palma da olio in quanto tale: da dove viene, cosa vuole, cos’ha di diverso dalle specie locali e soprattutto perché è così distruttiva.
Nella radura
All’inizio del 2018 ero accampata nella foresta con un gruppo di abitanti del villaggio di Bayau dopo una giornata di caccia e pesca. La cenere degli incendi nelle vicine piantagioni impregnava l’aria. Bambini e cani erano sdraiati intorno al fuoco in un caldo groviglio di corpi e respiri. Le conversazioni a bassa voce si mescolavano al crepitio della brace morente, finché il richiamo malinconico di un gufo non ci ha fatto addormentare. Nel cuore della notte sono stata svegliata da un pianto terrorizzato e da un paio di mani che mi stringevano il braccio. Rosalina, 14 anni, ha nascosto la testa nel mio petto piangendo: “Ho fatto un sogno”. Aveva il viso madido di sudore. Il suo corpo, indebolito da un recente attacco di malaria, era scosso dai tremiti. L’ho stretta tra le braccia e ho strofinato la guancia contro la sua per consolarla. Alla fine si è calmata e ha cominciato a raccontarmi il suo sogno.
Parlava lentamente, esitando: “Nel sogno morivo. Io e altre persone della famiglia, e altre ancora che non conosco. Era notte fonda e ci trovavamo nella piantagione. Eravamo tutti in ginocchio in un grande cerchio in mezzo a una radura circondata da palme da olio. Avevamo la testa curva e le mani legate dietro la schiena. C’era tanto silenzio. Non si sentivano né uccelli né vento. Io sapevo che mio padre era accanto a me, anche senza guardarlo. Non so chi erano gli altri perché avevano dei sacchi di plastica sulla testa, legati al collo con una corda. Nessuno parlava. Faceva un caldo secco. Avevo le labbra screpolate come se non avessi bevuto acqua da giorni. Non avevo più umidità in corpo, e la mia pelle era spaccata. A un certo punto mi sono trasformata in un uccello e mi sono appollaiata su una palma da olio, guardando le persone inginocchiate nella radura. In altri momenti ero un anim (essere umano) nel cerchio e mi vedevo come un uccello sull’albero. Continuavo a trasformarmi da uccello ad anim e viceversa, senza sosta. Mi girava la testa. Per molto tempo non è successo niente. Poi ho visto che non tutte le palme da olio intorno a noi erano palme da olio: alcune erano dei militari. Il colore delle palme di notte è come quello delle divise dei soldati, nero e verde. E le spine sono affilate come le loro baionette. E i frutti sono come proiettili. Duri. Tondi. Neri. A volte rossi, come il sangue. Guardando in basso quando ero un uccello, vedevo i soldati tra le palme da olio appostati dietro il gruppo. C’era un grande silenzio nella piantagione. Nessuno si muoveva. Erano così immobili che non capivo se stessero respirando. Poi ho sentito uno sparo nel buio. Il corpo di mio padre è crollato accanto a me. Giaceva con il volto per terra e dalla nuca scorreva del sangue nero. Poi anche la persona accanto è caduta a terra. E poi un’altra. Le palme ci sparavano e i corpi cadevano. O forse erano i soldati a sparare. Ma tutti restavano immobili. Io sono stata uccisa per ultima. Non sono volata via. Vedevo la mia pelle di anim al suolo, sanguinante. Sono rimasta lì a lungo, ma non ho mai visto sorgere il sole. Era come se il tempo si fosse fermato”.
Restai sveglia tutta la notte. All’alba le persone del gruppo cominciarono ad alzarsi. I cani leccavano le facce dei bambini per svegliarli. Solo Rosalina restava immersa in un sonno profondo. Raccontai dell’incubo a Evelina, la madre. Lei sospirò e disse: “È stata mangiata dalla palma da olio. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Tutti gli altri in famiglia sono stati mangiati”. Le parole di Evelina furono interrotte dall’esplosione di una pianta di bambù in fiamme. Un acre odore di fumo ci aggredì le narici. Il disboscamento era ricominciato. Il padre di Rosalina, Oscar, spense il fuoco con i piedi e disse: “È ora di andare. La palma da olio non smette mai di mangiare. È sempre affamata di terra. Questo posto è cambiato, il tempo si è fermato. Gli anim sono diventati di plastica e i casuari mangiano noodle istantanei. La palma da olio mangia la terra, l’acqua e il tempo. Di notte, quando dormiamo, viene a mangiare anche noi. Da quando è arrivata i sogni sono diversi. La palma da olio non smette mai di mangiare. Perciò dobbiamo andarcene”.
Lezioni di racconto
Nei 18 mesi che ho passato nell’alto Bian tra il 2011 e il 2019 ho sentito spesso di sogni ossessivi come quello di Rosalina nella foresta. Sono sogni misteriosi e distopici. I corpi umani vengono sfigurati dai frutti della palma da olio, che proliferano sotto la pelle come tumori. Le spine taglienti come rasoi crescono tra tendini e muscoli, perforando la pelle come frecce. Le donne “mangiate dalla palma da olio” partoriscono con dolori terribili e danno alla luce frutti mostruosamente deformi e spinosi, o “figli della palma da olio”. I defunti appaiono accanto a soldati, bulldozer, alberi bruciati, fiumi inquinati e palme da olio. In sogno, i nativi vedono e vivono ripetutamente la propria morte dalla prospettiva di varie creature della foresta la cui esistenza è minacciata dall’espansione agroindustriale.
Le persone della comunità viaggiano su e giù lungo il fiume e da un villaggio all’altro quasi ogni giorno per condividere le loro esperienze notturne con amici e parenti. Le mie lezioni di inglese si trasformarono in lezioni di racconto dei sogni. Alcuni bambini li descrivevano a parole, mentre altri preferivano disegnare i fiumi neri, gli alberi abbattuti, le palme spinose e le chiazze di sangue che avevano visto durante la notte. Quando la campanella suonava, cancellavo le parole cupe che avevo annotato sulla lavagna e le sostituivo con insignificanti nomi di colori, animali e cose da mangiare.
Nei villaggi il calare della sera era atteso con apprensione. La gente parlava bisbigliando per ore dei tormenti che la notte avrebbe potuto portare, e a chi. All’alba i racconti dei sogni si propagavano di casa in casa e i protagonisti rivelavano i fatti e le morti strazianti che avevano visto nel sonno. Mentre gli operatori delle ong giravano per il villaggio con il cellulare in cerca di un segnale, gli abitanti si riunivano e si raccontavano i sogni sottovoce accanto a fuochi morenti, i bimbi addormentati stretti al seno delle madri nella penombra, il bagliore della brace che illuminava gli occhi degli uomini. Alcuni sogni venivano raccontati a distanza di intere settimane, altri la stessa notte. Alcuni erano brevi – frammenti di luoghi e avvenimenti semidimenticati – mentre altri formavano arazzi di sogni diversi intrecciati insieme.
◆ Dopo una serie di proteste contro il costo della vita, il 22 aprile 2022 l’Indonesia ha annunciato il blocco totale delle esportazioni di olio di palma, di cui è la principale produttrice globale. I prezzi degli oli vegetali, già in aumento da mesi a causa di vari problemi di produzione, hanno registrato un’impennata quando le aziende di tutto il mondo hanno dovuto cercare un’alternativa alle importazioni di olio di girasole dall’Ucraina, interrotte dall’invasione russa. Secondo le organizzazioni ambientaliste l’aumento della domanda globale di olio di palma e di soia potrebbe favorire la deforestazione nei paesi tropicali. Reuters
La mia partecipazione alle sedute di condivisione dei sogni è diventata più frequente quando anch’io sono stata “mangiata dalla palma da olio”, un evento che ha fatto pensare a molti miei compagni che fossi veramente entrata a far parte della loro comunità. Di giorno la palma da olio mangiava la terra, mentre i bulldozer abbattevano un ettaro di foresta dopo l’altro. Di notte consumava nel sonno i corpi degli uomini, delle donne e dei bambini, perseguitati dalle sue spettrali apparizioni. Nessuno sembrava immune.
Semi di sogni
Un tardo pomeriggio ero seduta sulla riva del fiume con Ignatius, un anziano del villaggio di Khalaoyam. Gli ho letto una pagina scaricata dal sito della Korindo, l’azienda indonesiano-coreana che gestisce le concessioni di palma da olio accanto al suo villaggio. Per due volte, Ignatius mi ha chiesto di tradurgli lo slogan della testata: “Piantiamo i semi di sogni che andranno lontano”. Poi ha detto lentamente: “Sogni, dicono. Semi di sogni. Sogni di palma da olio. Ci sono tanti sogni di questi tempi. Sogni aziendali. Sogni governativi. Ma i sogni possono uccidere. La gente muore ogni notte, mangiata dalla palma da olio. Non ci sono mai stati tanti sogni. Non ci sono mai state tante morti”.
Ignatius è rimasto in silenzio. Il sole stava calando e le nuvole erano diventate rosso cremisi. Un airone solitario ha attraversato il cielo mentre il gracidio intermittente dei rospi si levava dalle fitte canne lungo la riva. Ignatius ha guardato scomparire l’ultima striscia dorata sorridendo tristemente. La sua mano si è abbandonata nella mia. Nella luce del crepuscolo sembrava più piccolo e magro. L’enorme cicatrice che l’attacco di un cinghiale selvatico aveva lasciato sulla sua clavicola sinistra era un grumo scuro e profondo su quel corpo minuto. Per un attimo mi è sembrato di vedere del sangue fresco.
Mentre tornavamo al villaggio, ho chiesto a Ignatius se credeva che i marind-anim un giorno sarebbero riusciti a fermare l’avanzata della palma da olio e la distruzione della foresta. Lui ha risposto: “Sogni, sogni… A volte è difficile vedere una speranza. Il governo e le aziende sono potenti. Le palme da olio sono le loro armi. Non sai mai chi sarà il prossimo a essere mangiato. Ma finché i marind-anim continuano a condividere i loro sogni c’è speranza. Sognando insieme, forse sapremo trovare dei modi per vivere insieme. Per ora non c’è un futuro, solo sogni da raccontare”. ◆ gc
Sophie Chao insegna antropologia all’università di Sydney. Questo articolo è tratto dal suo libro In the shadow of the palms (Duke university press 2022).
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Questo articolo è uscito sul numero 1458 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati