Youssef ricorda come fosse ieri il giorno in cui si è imbarcato per l’Italia. “Ho ricevuto la chiamata di un amico. Mi ha detto che era prevista una partenza di lì a poco. Non ci ho pensato due volte. Ho preso le mie medicine, messo quattro vestiti in una borsa e, senza dire nulla ai miei genitori, sono andato al porto. La mattina dopo ero a Lampedusa”.
Era la fine del luglio 2021. All’epoca il ragazzo, affetto da una forma di diabete giovanile, aveva quindici anni e voleva partire, più che altro per spirito di emulazione. Originario delle isole Kerkennah, un arcipelago tunisino lontano circa centoquaranta chilometri da Lampedusa, Youssef vedeva da anni i tunisini della terraferma passare dall’isola per raggiungere l’Italia in modo irregolare. “Così ho pensato: parto anch’io e mi costruisco un futuro, visto che qui le prospettive non sono buone”, racconta.
Oggi ha 17 anni e vive in un centro d’accoglienza per minori a Siracusa. La mattina va a scuola e la sera fa il lavapiatti in un ristorante. Un po’ dei soldi che guadagna li manda a casa, dove il padre li mette da parte per lui. Ha già comprato un pezzo di terra a Ramla, il centro principale delle Kerkennah, in cui vive la sua famiglia: “Voglio costruire una casa. Ma non per viverci: per me la Tunisia è un posto dove tornare per le vacanze”.
Anagraficamente Youssef è un adolescente, ma sembra un uomo maturo. Ha progetti chiari per il futuro: vuole rimanere in Italia. Ha una fidanzata a Sfax, conosciuta su Instagram dopo la partenza, che vuole sposare, “ma non subito, tra qualche anno”. È l’unica che gli ha fatto compagnia, soprattutto all’inizio, quando era completamente solo. Perché i primi mesi sono stati tutt’altro che semplici: “Quando sono arrivato a Lampedusa ho passato dieci giorni al centro d’accoglienza, che era sovraffollato. Eravamo migliaia”.
Youssef ricorda i materassi ovunque, “i bagni rotti e schifosissimi”, e quella notte in cui ha rischiato di morire perché ha avuto un calo glicemico e nessuno gli dava retta. “Ho avuto più paura in quel momento che durante il viaggio in mare. Cercavo di spiegare che sono diabetico, ma all’epoca non parlavo l’italiano e non c’era nessuno che capiva l’arabo”. Alla fine è riuscito a spiegarsi ed è stato salvato.
Qualche giorno dopo sentire il suo nome dal megafono nel cortile è stata una liberazione. Finalmente lo trasferivano. “Ci hanno scortati al porto e ci siamo imbarcati per Agrigento”. Ma l’odissea non era finita. C’era ancora la pandemia e tutti gli immigrati dovevano essere messi in quarantena. Così è stato trasferito in un centro in cui ha trascorso quasi un mese. “Era meglio di Lampedusa, ma non potevamo uscire”. Allo scadere del periodo, i responsabili della cooperativa che gestisce la struttura per minori non accompagnati di Siracusa sono andati a prenderlo in auto. E la sua nuova vita ha avuto ufficialmente inizio.
Mentre cammina a Ortigia, il centro storico di Siracusa dove ormai si muove come uno del posto, ogni tanto Youssef ha un sussulto di malinconia: “Lo so che ho rinunciato a un pezzo di adolescenza e al divertimento. Che forse sono cresciuto troppo in fretta. Ma sapevo che era importante partire prima di essere maggiorenne, per non essere espulso e avere il tempo di ambientarmi”.
Nuova ossessione
Youssef è uno dei 20.089 minori stranieri non accompagnati in Italia, secondo i dati della direzione generale dell’immigrazione aggiornati al 31 dicembre 2022. Tra loro ci sono 1.800 tunisini. Con una crescita importante negli ultimi anni: nel 2021 erano 1.560 e nel 2020 1.084. “Sul barchino eravamo cinque minorenni e otto maggiorenni: partiamo da ragazzi perché sappiamo che ci sono più garanzie una volta arrivati in Italia”, racconta, riempiendo di concretezza i freddi dati del ministero.
“Oggi in Tunisia tutti vogliono emigrare, anche i più giovani. È diventata una specie di ossessione”, osserva Mohamed Jouili, professore di sociologia all’università di Tunisi ed ex direttore generale dell’osservatorio nazionale sulla gioventù. “La migrazione irregolare, che una volta era considerata un fallimento, è diventata simbolo di riscatto, se non di superiorità. È un cambiamento radicale, in cui ognuno cerca una via di salvezza individuale da una società che non offre prospettive”. Alla radice di questa ossessione sembrano esserci ragioni molto concrete, che si ritrovano nella storia di Youssef e del posto da cui proviene.
Dall’altra parte del Mediterraneo, Chergui è una distesa desolata di palme e sabbia. È la principale delle isole Kerkennah. Arrivarci con un traghetto da Sfax è come fare un viaggio a ritroso nel tempo: dalle strade caotiche e trafficate della cittadina sulla costa si piomba in una calma irreale. La nave è semivuota, le vie dei principali centri sono quasi deserte. Il silenzio è interrotto solo da un vento battente che muove le chiome delle palme. Lungo le rive si vedono gruppi di donne coperte da capo a piedi, con una sacca a tracolla, che frugano nella sabbia a caccia di molluschi.
Il porto di Atalya è nell’estremità orientale dell’isola, quella più vicina a Lampedusa. Da qui si è imbarcato Youssef. Ed è qui che troviamo suo padre Adnan, 54 anni, la barba incolta e il volto scavato dalle lunghe ore sotto il sole. Di giorno fa il benzinaio. Appena stacca, va al porto ed esce a pescare. Fa il doppio lavoro per sfamare la sua numerosa famiglia: oltre a Youssef ha altri quattro figli, due maschi e due femmine. Seduto sul bordo della barca, ripercorre quel giorno d’estate di due anni fa in cui il figlio si è imbarcato senza dirglielo: “Non vedendolo tornare, ho cominciato a cercarlo per tutta l’isola. Ho chiamato i suoi amici. Poi sono tornato a casa, ho aperto il frigo e ho visto che non c’era l’insulina, e che dall’armadio mancavano i suoi vestiti. Così ho capito”.
Oggi i due si sentono su WhatsApp tutti i giorni. Il padre non sembra biasimare il figlio per essere partito senza preavviso. Anzi, in un certo senso è contento che sia dall’altra parte del Mediterraneo: “Qui la situazione è critica, meglio cercare fortuna altrove”.
Il mare condiviso
Youssef non è l’unico ragazzo delle Kerkennah a essere partito: negli ultimi tempi, i più giovani stanno andando via in massa. Conoscono il mare perché sono figli di pescatori e sanno quando possono salpare senza rischi. “Il giorno in cui siamo partiti, il mare era una tavola. Si sapeva da giorni che quella era una data perfetta e infatti sono salpate almeno dieci imbarcazioni da Atalya”, sottolinea Youssef.
Basta muoversi tra i moli del principale porto di pescherecci di Chergui per toccare con mano la frenesia migratoria. A parlare non è tanto la presenza di barche o intermediari, che agiscono nell’ombra, ma un’assenza: non ci sono ragazzi. L’età media dei pescatori è alta: la maggior parte appartiene alla generazione del padre di Youssef. Tutti o quasi hanno un figlio partito per l’Europa. I numeri raccontano un esodo inarrestabile: in trent’anni l’arcipelago è passato da ventiduemila a dodicimila abitanti. L’isola si sta svuotando. Per una ragione semplice: la pesca non funziona più.
“Una volta alle Kerkennah c’erano così tanti pesci che non uscivamo in mare a cercarli. Venivano da soli a impigliarsi nelle reti”. Ramdhame Megdiche, 61 anni, ha cominciato a uscire in barca con il padre quando ne aveva dodici. In questo mezzo secolo ha visto il mare cambiare, i pesci spostarsi, l’isola trasformarsi.
“Anche il nostro metodo tradizionale, in cui si pesca da fermi, è entrato in crisi”, racconta Megdiche. Parla della charfia, da secoli tradizione e vanto di queste zone. Il sistema consiste nel dividere il mare in porzioni, date in usufrutto dallo stato ai pescatori, che le usano come se fossero appezzamenti di terra. Gli spazi in concessione sono delimitati da recinti fatti con foglie di palma, all’interno dei quali si costruiscono, sempre con il fogliame, dei percorsi che, sfruttando le correnti, indirizzano i pesci verso delle camere di cattura. Due volte al giorno i pescatori vanno a controllare cosa è finito nelle loro nasse. Se gli esemplari sono troppo piccoli, li liberano in mare. Altrimenti li portano a riva.
Non è un sistema rigido, ma si adatta alle correnti, ai fondali e alle condizioni idrografiche: le reti sono smontate ogni anno al solstizio d’estate e poi rimontate all’equinozio di autunno. Questo periodo di “fermo biologico” di tre mesi permette al mare di rigenerarsi e alla comunità di ritrovarsi. La fabbricazione delle nuove reti e delle camere di cattura è un rito collettivo, in cui questa tecnica è trasmessa di padre in figlio.
Usata a quanto pare fin dall’epoca dei fenici, la charfia esiste nelle condizioni attuali dal seicento, con le famiglie che si passano l’usufrutto di generazione in generazione. Quando non sono più usate, le aree sono vendute in aste pubbliche in cui il loro valore dipende dalla lontananza dalla costa, dalla pescosità della zona e dal tipo di fondale. Perché i pescatori delle Kerkennah conoscono il loro mare a palmo a palmo.
La charfia è un esempio unico di pesca sostenibile, e nel 2020 l’Unesco l’ha inserita nella lista del patrimonio immateriale dell’umanità. Il paradosso è che il riconoscimento è arrivato nel momento in cui la charfia non funziona più, e non riesce più a garantire quel livello di reddito che ha permesso a generazioni di pescatori di vivere bene. Basta un giro in barca con Megdiche per capirlo. A una quindicina di minuti di navigazione dal porto, alcune foglie di palma che spuntano dall’acqua indicano i limiti dell’area di sua competenza. Avvicinandosi a un punto preciso, il pescatore tira su le nasse. “Daesh, daesh, sempre e solo daesh”, impreca, masticando la sigaretta che ha sempre tra le labbra. Nella trappola ci sono decine di granchi dalle chele blu. Ribattezzati dai pescatori con l’acronimo arabo del gruppo Stato islamico, sono l’ultimo grande flagello con cui devono fare i conti. Il soprannome calza a pennello: come i combattenti jihadisti, questi crostacei invasivi fanno tabula rasa ovunque passano. Nella nassa non c’è spazio per altri pesci: giusto una seppiolina mezza morta perché attaccata dai granchi e un’orata così piccola che è ributtata a mare. “Fino a sette anni fa non li avevamo mai visti. Ora non peschiamo altro”, osserva Megdiche sconsolato. Poi mette i crostacei in una scatola e torna a riva. Allo sbarco li consegna a una fabbrica di confezionamento, aperta di recente nel porto di Atalya. Da lì sono esportati in Asia, dove li considerano una leccornia. Ma ai pescatori sono pagati due dinari al chilo, sessanta centesimi di euro. “Alla fine della giornata non ci hai pagato nemmeno la nafta”.
“Una volta prendevamo di tutto: orate, spigole, gamberi, polpi. Oggi non c’è quasi più niente”, dice Megdiche arricciando il naso. Com’è successo che le acque più pescose di tutto il Mediterraneo sono diventate così poco generose? I pescatori accusano la pesca a strascico, che ha distrutto i fondali e impedito la riproduzione delle specie. Megdiche punta il dito contro le trivellazioni petrolifere, a poca distanza della costa, che in più di un’occasione hanno sversato maree nere nell’acqua, compromettendo gli ecosistemi. In una situazione già critica, il progressivo riscaldamento delle acque ha facilitato il proliferare di specie invasive come il granchio blu, arrivato per caso con qualche cargo proveniente dal Messico o dal sud degli Stati Uniti.
◆ Nel 2023 la Tunisia è diventata il primo paese per numero di migranti che dal Nordafrica cercano di raggiungere l’Europa, superando la Libia. Ad aprile varie imbarcazioni si sono trovate in gravi difficoltà lungo le coste tunisine, con un bilancio complessivo di più di cinquanta morti e dispersi. L’ultimo naufragio è stato registrato il 18 aprile alle isole Kerkennah: quattro persone sono state portate in salvo, altre quindici sono disperse. Il 23 aprile nelle stesse acque sono stati trovati circa trenta corpi di naufraghi. Dal 1 gennaio, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, più di 522 persone sono morte lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Infomigrants
I tunisini più giovani hanno abbandonato la pesca e scelto altre strade. Le Kerkennah sono diventate uno dei principali punti d’imbarco per l’Europa. I figli dei pescatori sfruttano la conoscenza del mare per emigrare o per portare altri tunisini a Lampedusa. “Qui non ci sono scafisti, i ragazzi partono all’avventura. Il traffico di esseri umani ha come basi Zarzis o Sfax, sulla costa”, puntualizzano al porto.
In compenso, spesso arrivano dei cadaveri. In più di un’occasione i pescatori hanno trovato corpi di naufraghi alla deriva o impigliati nei recinti di palme. “In quel caso chiamiamo i gendarmi e aspettiamo”, dice Megdiche, senza tradire emozioni. Il suo distacco ostentato sembra frutto della delusione. Anche nella sua famiglia c’è un harraga, come sono chiamati quelli che “bruciano le frontiere”. Suo figlio, 31 anni, è partito qualche tempo fa e non è più tornato. Vive in Francia e “fa cose non del tutto lecite”, dice Megdiche con un’amarezza mista a vergogna. “Ma non riesco a rimproverarlo. Cosa doveva fare?”. Nelle parole e nella rassegnazione dei pescatori si misura il cambiamento epocale di una comunità che per secoli ha vissuto di pesca e che oggi vede i figli scegliere l’esilio.
“Per i giovani che partono non è giusto usare la definizione di immigrati irregolari. Sono rifugiati ambientali”, sottolinea il geografo Habib Ayeb, dell’università Paris 8-Saint Denis. “Partono perché le condizioni dell’ambiente in cui vivono, che gli garantivano la sussistenza, sono irrimediabilmente cambiate. La pesca non fa più guadagnare, e neanche l’agricoltura. Tutti i ragazzi che arrivano a Lampedusa vengono da quegli ambienti compromessi”.
I pescatori rimasti alle Kerkennah si arrangiano come possono. Rivedono le loro tecniche: sempre più spesso le reti usate per la charfia sono di plastica e non di palma. Non si smontano più d’estate, ma rimangono lì, sorta di monumento a un’epoca scomparsa. A mezza bocca qualcuno ammette di pescare a strascico.
“Così finiscono per tradire se stessi. Se oggi l’Unesco esaminasse nuovamente il dossier, probabilmente ritirerebbe il riconoscimento”, s’infiamma Amel Jrad, direttrice generale del Centro internazionale delle tecnologie dell’ambiente di Tunisi e originaria dell’arcipelago. “I pescatori hanno perso il ruolo di custodi del mare, anche perché, al di là del titolo Unesco, non si valorizza la pesca fatta con questo metodo”. Jrad parla della necessità di una filiera più trasparente, in cui i consumatori tunisini ed europei sappiano che l’orata o il polpo che stanno mangiando sono stati pescati con la charfia. “La pesca sostenibile è un elemento di pregio. Raccontarla e valorizzarla potrebbe ridare speranza ai pescatori in crisi”.
Ma è possibile invertire una tendenza che sembra inarrestabile? Non è troppo tardi? Youssef guarda le barche nel porticciolo di Ortigia. Ha un pizzico di nostalgia per le giornate passate in mare con il padre. “Ma quello non può essere un lavoro, al massimo un passatempo estivo. Il mio futuro è qui, in Europa, dove posso costruirmi una vita”, dice guardando al di là del mare, verso quella riva sud che per lui non è più casa, e che a poco a poco gli sta diventando estranea. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1509 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati