Gli alberi sono tutti allineati, alla stessa distanza l’uno dall’altro. Punteggiano la collina in modo uniforme, con una precisione geometrica che stona con le aree più lontane coperte da una vegetazione fitta. “Stanno disboscando ettari di foresta per coltivare un frutto che finisce dall’altra parte del mondo”, dice Néstor Jaime Ocampo, indicando le coltivazioni che si estendono a perdita d’occhio.
Siamo nel Quindío, il dipartimento più piccolo della Colombia, incastonato nella cordigliera centrale, tra Cali e Medellín. Le sue montagne sono meta di turisti ed escursionisti, che arrivano per fare trekking e ammirare l’albero simbolo del paese, la palma da cera, unico al mondo perché cresce a più di duemila metri di altitudine. Ma oggi al centro dell’attenzione c’è una coltivazione che si sta diffondendo in modo vertiginoso: l’avocado.
“Fino a dieci anni fa non c’era traccia di queste piantagioni”, racconta Ocampo, che ha passato buona parte dei suoi 72 anni a lottare contro i disboscamenti della multinazionale della carta Smurfit Kappa. Ora ha un nuovo nemico: i produttori di avocado che stanno spopolando in queste zone della Colombia.
La crescita delle piantagioni è impressionante, trainata dall’aumento del consumo di questo frutto in occidente, in particolare in Europa. A guardare i dati dell’Eurostat, la Colombia è passata dalle cinquecento tonnellate esportate verso l’Unione europea nel 2013 alle 85mila nel 2021. Nel giro di pochissimo tempo il paese si è imposto come secondo produttore mondiale, dietro al Messico, e come secondo esportatore verso l’Europa, dopo il Perù. Il boom è stato facilitato da una serie di fattori: la collocazione geografica ai tropici, che consente di avere frutti praticamente tutto l’anno; l’affaccio sui due oceani e la vicinanza del canale di Panamá, che permette di ridurre i tempi di trasporto via nave; infine, ma non in ordine d’importanza, un contesto tradizionalmente aperto agli investimenti esteri. Oggi un avocado su sette che sbarca nei supermercati europei viene dalla Colombia. E tutto lascia pensare che questa cifra aumenterà. Secondo uno studio realizzato dal centro di ricerca Cso Italy in Italia gli acquisti di questo frutto sono cresciuti di otto volte dal 2012 al 2021. “Negli ultimi cinque anni i volumi di avocado che le famiglie italiane portano nelle loro case sono più che triplicati, addirittura quadruplicati in termini di spesa”, dice la responsabile dello studio, Daria Lodi.
Ma se i consumatori occidentali apprezzano i diversi piatti in cui è presente il frutto, dal guacamole al poké, questo sviluppo ha delle conseguenze nei luoghi di produzione, concentrati prevalentemente in America Latina. In Cile, alle prese con una siccità permanente, l’avocado è finito nel mirino delle Nazioni Unite perché sta prosciugando le riserve idriche. L’ex inviato speciale dell’Onu per il diritto all’acqua, Léo Heller, ha chiesto al governo di Santiago di chiarire la sua posizione rispetto alla coltivazione intensiva del frutto nella regione centrale di Valparaíso, dove scarseggia l’acqua potabile a causa delle piantagioni. In Messico “l’oro verde” è diventato oggetto di una lotta tra i narcotrafficanti, interessati a un giro d’affari che vale circa tre miliardi di dollari all’anno. Nello stato di Michoacán, dov’è concentrata la produzione, i cartelli della droga impongono ai coltivatori di pagare una tassa e combattono tra di loro e con l’esercito per controllare tutte le fasi della filiera.
In Colombia per il momento i cartelli non sembrano interessati direttamente alla produzione. Si limitano a usare le navi container piene di frutti diretti in Europa per le loro attività tradizionali, sperimentando metodi sempre più creativi: nel 2020 la polizia antidroga ha intercettato nel porto di Santa Marta un carico in cui la cocaina era nascosta negli avocado, a cui era stato tolto il nocciolo.
Ma anche qui, secondo quanto denunciano ambientalisti, politici locali e attivisti, la crescita senza controllo sta avendo ripercussioni sull’ambiente e sul tessuto sociale delle zone rurali. L’area in cui si sta sviluppando la produzione è prevalentemente occupata dal bosque andino, un ecosistema tropicale di grande biodiversità ma estremamente fragile che ha un ruolo importante nella mitigazione del riscaldamento globale. “Queste multinazionali stanno modificando per sempre ambienti unici”, afferma Ocampo. “E stanno facendo una vera e propria corsa alla terra per cacciare i piccoli coltivatori e realizzare monocolture industriali”.
Panorama omogeneo
Lo sa bene Carlos Mario Muñoz, un agricoltore sulla quarantina che ha un appezzamento di sette ettari sulle montagne intorno a Pijao, nel sud del Quindío, dove coltiva banane, caffè, pomodori e qualche ortaggio. All’ombra del patio della piccola casa in cui vive con la moglie e la figlia di quindici anni, racconta di quando, un paio di anni fa, alcuni uomini gli hanno proposto di comprare la proprietà.
“Mi hanno offerto 150 milioni di pesos (circa trentamila euro), ma ho rifiutato perché mi sembrava poco”. Muñoz è uno dei pochi agricoltori della zona a non aver venduto. Basta uno sguardo intorno per avere la prova di quello che dice: circondato da alberi di avocado, il suo appezzamento somiglia al villaggio di Asterix assediato dalle legioni romane.
L’agricoltore non critica chi ha deciso di vendere: lo farebbe anche lui se gli offrissero una cifra che considera giusta. Da quando sono arrivati gli avocado, dice, molte cose sono cambiate. Pijao è al centro dell’eje cafetero, la zona tradizionalmente coltivata a caffè inserita nel 2011 nella lista dei patrimoni dell’umanità Unesco. Ma la produzione di caffè da queste parti è in calo continuo, perché le crisi degli ultimi vent’anni lo hanno reso meno redditizio. Così i proprietari stanno vendendo, lasciando lo spazio alle grandi coltivazioni, gestite per lo più da aziende cilene e peruviane. E insieme al paesaggio sta cambiando anche la composizione sociale. In questa zona un tempo popolata di piccoli coltivatori non si vede quasi nessuno: le monocolture di avocado non richiedono la presenza sul posto di lavoratori, ma solo manodopera impiegata a giornata. “Stiamo assistendo a un processo di gentrificazione delle campagne, che spinge i contadini ad abbandonare le terre in favore del grande capitale”, dice Ocampo.
Impunità
A pochi chilometri dal campo di Muñoz, inerpicandosi lungo una strada di terra e sassi che sbuca improvvisamente su una radura, si arriva a una piccola costruzione in mezzo alle colline. È una delle scuole rurali aperte decenni fa dallo stato per dare un’istruzione ai figli dei contadini. Anche qui i versanti dei rilievi circostanti sono un’unica distesa di alberi rigonfi di frutti verdi. I bimbi fanno lezione in una grande aula con le finestre spalancate. Riuniti intorno a due tavoli, sono in totale sette, tutti di età diverse.
“Solo pochi anni fa qui c’erano più di venti alunni”, dice l’insegnante, che preferisce l’anonimato “per non avere problemi con il ministero”. La scuola è rimasta chiusa un anno e ha riaperto da poco grazie alla custode, che si è trasferita qui con i suoi quattro figli. “Questi territori si stanno spopolando”, dice la maestra. “Ci sono solo avocado. Non c’è più vita. Per non parlare di come sono coltivati: quando spruzzano i pesticidi, dobbiamo chiudere le finestre e barricarci dentro”.
Muñoz conferma e descrive i danni che lui stesso ha subìto: “Avevamo sette arnie per produrre miele. A un certo punto abbiamo trovato tutte le api morte. È stato impressionante”. L’uomo non ha dubbi sulle cause della strage: “Sono stati i diserbanti a uccidere gli insetti”.
“Abbiamo perso quarantamila alveari nel Quindío”, afferma il deputato regionale Luis Carlos Serna. “Le api sono sentinelle ambientali. Se muoiono in massa, vuol dire che sta succedendo qualcosa di molto grave”. Serna, biologo di formazione, ha condotto degli studi sulle acque della regione, con risultati che definisce sconvolgenti. “Abbiamo trovato prodotti chimici che sono banditi in Colombia dagli anni cinquanta”, dice nel suo ufficio ad Armenia, capoluogo del Quindío. “Il problema è che non c’è un reale monitoraggio dello stato della riserva idrica. Per lavarsi, cucinare e bere i contadini adoperano l’acqua per uso agricolo”. Serna racconta che nei suoi giri per le campagne chiede sempre alle persone se abbiano avuto problemi di salute. “Tutti mi dicono che sono aumentati i casi di mal di testa, febbre e vomito, manifestazioni tipiche dell’intossicazione da prodotti agrochimici”.
Secondo lui, le aziende produttrici di avocado agiscono nella totale impunità: “Usano sostanze chimiche proibite, stando attente a non lasciare residui quando i frutti devono essere esportati”. Per avere un prodotto perfetto si usano molti pesticidi. Poi, al momento opportuno, i trattamenti sono interrotti per evitare che rimangano tracce sugli avocado da esportare. “A noi restano le falde inquinate, all’estero vanno i frutti perfetti”.
Serna sostiene che le grandi aziende non rispettano le normative, deviano i fiumi per avere l’acqua necessaria alle coltivazioni, costruiscono senza permesso strade per far transitare i mezzi per la raccolta, piantano alberi dove non si potrebbe. Di recente la Corporación autónoma regional del Quindío, l’ente che vigila sul rispetto delle norme ambientali, ha aperto tredici indagini su possibili infrazioni. A Pijao un’azienda ha dovuto sradicare 810 alberi piantati in un’area protetta. Più a nord, nella cittadina di Salento, un’altra ha ricevuto una multa di 63 milioni di pesos (dodicimila euro) per aver usato acqua senza autorizzazione e piantato alberi in un’area proibita. “Ma cosa sono queste multe irrisorie per delle aziende che investono milioni di dollari?”, si chiede Serna. “La legge vieta la monocoltura nelle riserve forestali che coprono gran parte del Quindío”, aggiunge. “Ma questi gruppi sanno che il massimo inconveniente a cui vanno incontro è una sanzione amministrativa”.
“Sono casi isolati, fatti da aziende che all’inizio non conoscevano bene le normative colombiane”, ribatte Diego Aristizábal, presidente della Federazione nazionale di produttori di avocado. Poi sottolinea che il settore crea ricchezza e posti di lavoro, garantendo un’alternativa a un’agricoltura in affanno dopo la crisi del caffè: “Noi produttori siamo i primi a tutelare l’ambiente. È nel nostro interesse: se le sue condizioni peggiorano non possiamo lavorare”. Secondo Aristizábal, le aziende di avocado hanno protocolli più stringenti di quelle che producono caffè, banane o altre colture. “Il mercato ci chiede sostenibilità e noi siamo felici di garantirla”, aggiunge.
Ogni nostra scelta alimentare produce effetti che neanche immaginiamo
“Il consumo del frutto sta crescendo e gli ettari oggi coltivati non basteranno a soddisfare la domanda mondiale”, continua Aristizábal. Sulle accuse di chi sostiene che le piantagioni stanno causando la scomparsa del bosco andino, il suo giudizio è netto: “Esagerano. Gran parte delle coltivazioni sono su territori già deforestati e usati per il pascolo, o dove si coltivava caffè”.
Ma com’è successo che un territorio abbastanza remoto come il Quindío, difficile da raggiungere e lontano dal mare, abbia suscitato un interesse così forte delle multinazionali straniere? L’arrivo dei grandi marchi è stato sostenuto e incentivato da specifiche politiche pubbliche. La camera di commercio locale ha creato un apposito ente, chiamato Invest in Armenia, con il compito di attrarre aziende straniere o colombiane di altri dipartimenti. “Dal 2016 abbiamo facilitato investimenti nel settore dell’avocado per un valore di 47 milioni di dollari”, dice il direttore dell’ente Juan Sebastián Pérez, che sostiene di promuovere investimenti sostenibili dal punto di vista ambientale. Ma alla domanda sulle procedure d’infrazione aperte per violazione delle norme, risponde che non è un affare di sua competenza. “Noi aiutiamo le aziende che portano sviluppo e posti di lavoro”. Poi aggiunge: “Ci sono anche un paio di imprenditori europei interessati a venire, anche se non posso dare dettagli perché l’accordo si sta ancora discutendo”.
Esiste il pericolo concreto che tutte le terre dell’eje cafetero finiscano in mano straniera? Il direttore di Invest in Armenia lo esclude: “Sono talmente tanti i proprietari che sarebbe impossibile un accaparramento su larga scala”. Serna invece è convinto che il processo abbia già superato il livello di guardia: “Insieme a una senatrice stiamo scrivendo un progetto di legge secondo cui la proprietà delle terra in mano straniera non può superare il 10 per cento in ogni dipartimento, anche se nel Quindío lo abbiamo superato”, dice.
Questo progetto ha poche possibilità di essere approvato. Gran parte della classe politica e imprenditoriale del paese considera gli investimenti esteri una benedizione, soprattutto in agricoltura. Lo stesso Gustavo Petro, il primo presidente di sinistra della Colombia, ha detto che spera di sostituire “il petrolio con l’avocado” come fonte primaria di guadagni del paese. Serna fa parte di Colombia humana, lo stesso partito del presidente, ma su questo tema sono molto lontani: “Ho spiegato a Petro che questo modello è sbagliato. Lui pensa che sarà l’agricoltura industriale a salvare le campagne colombiane”.
A opporsi sono due diversi modelli agricoli: l’avocado è l’espressione di un sistema di produzione intensivo, basato sulla monocoltura e grandi investimenti di partenza. I piccoli produttori non hanno né i mezzi né i soldi per entrare attivamente in questo mercato. Anzi, da questo sistema finiscono per essere schiacciati, perché aumentando la pressione sulla terra ne sono automaticamente cacciati. Il risultato, secondo Serna, è solo uno: “Stanno privatizzando l’ambiente, imponendo un’idea di sviluppo basato su una coltura puramente da esportazione. Così stiamo sacrificando la nostra sovranità alimentare”.
Due storie simili
L’avocado non è estraneo alla cultura della Colombia. È presente in gran parte dei piatti tipici nazionali, tanto che il ministero dell’agricoltura stima un consumo pro capite di 6,3 chili all’anno (in Europa è di 1,33 chili all’anno e negli Stati Uniti di 3,8). Ma in queste piantagioni si è imposta una nuova varietà, ancora poco conosciuta a livello locale perché fino a dieci anni fa non esisteva: l’hass. Con la sua tipica scorza rugosa e le sue dimensioni piccole, l’avocado hass è il più comune nei supermercati europei e statunitensi. E occupa in modo crescente le colline della Colombia.
Questo frutto è il protagonista di una storia di successo cominciata per caso. Negli anni venti del novecento Rudolph Hass, un postino di Los Angeles, negli Stati Uniti, mise nel suo giardino delle piantine di avocado, tentando di fare degli innesti per rafforzare la varietà più comune del frutto, chiamata fuerte. In una pianta l’innesto non funzionò e il coltivatore fu quasi tentato di abbatterla. Invece la lasciò crescere. Nel giro di due anni l’albero cominciò a produrre frutti diversi da quelli a cui tutti erano abituati, con una scorza più rugosa e spessa. Il figlio di Hass li assaggiò e disse al padre che erano più saporiti di quelli tradizionali. L’uomo decise di brevettare questa varietà con il suo nome. Oggi il 95 per cento degli avocado in commercio appartiene a questa tipologia, apprezzata non solo per il sapore, ma anche per la forma ridotta che si adatta al trasporto e per il fatto che diventa nera quando raggiunge la maturazione, fornendo un’indicazione esteriore al consumatore.
Per molti versi la storia dell’avocado hass è simile a quella della banana cavendish: anche se è una delle centinaia di varietà presenti al mondo, oggi ha il monopolio quasi assoluto del mercato internazionale. Seguirà lo stesso modello che ha portato alla creazione delle repubbliche bananiere del Centroamerica, con le terre organizzate in latifondi controllati da aziende straniere e i contadini locali costretti a diventare braccianti a giornata? L’avocado diventerà lo strumento di un nuovo movimento di concentrazione delle terre in un paese in cui le prospettive aperte da una possibile pace con i gruppi armati attivi negli ultimi sessant’anni potrebbero attirare in massa investitori stranieri?
Prodotto superfluo
Nel suo ufficio a Medellín, Jorge Enrique Restrepo ridimensiona i termini della questione: “Stiamo parlando di qualche decina di migliaia di ettari concentrati in una zona precisa del paese”, dice. Dirige la Corpohass, l’azienda che riunisce i produttori e gli esportatori di avocado, e può essere considerato uno dei massimi esperti del settore. Con l’aiuto di una grande mappa, Restrepo descrive la diffusione delle piantagioni e il funzionamento della filiera: i frutti sono prodotti in un’area che si estende tra i 1.500 e i 2.500 metri sul livello del mare, lungo la cordigliera centrale. Dalle piantagioni le casse piene di avocado sono portate nei centri di raccolta o direttamente nelle empacadoras, delle fabbriche di confezionamento in cui i singoli frutti sono selezionati a seconda delle diverse esigenze dei compratori. Qui sono poi caricati sui camion frigorifero che vanno verso i porti. “La grande maggioranza delle casse, diretta ai mercati europei, parte da Cartagena o da Santa Marta”, spiega Restrepo.
Dopo quindici o venti giorni, le navi container arrivano al porto di Rotterdam, nei Paesi Bassi, che fa da centro di smistamento per buona parte del continente. Per tutto questo periodo, da quando arriva nella fabbrica di confezionamento fino al supermercato, il frutto è tenuto a una temperatura di massimo cinque gradi per bloccarne la maturazione. Quando raggiunge gli scaffali per la vendita, a diecimila chilometri di distanza da dove è coltivato, può essere passato anche un mese dal momento del raccolto.
Quando gli chiedo se in prospettiva la produzione di avocado può spingere le multinazionali straniere ad accaparrarsi le terre coltivabili, Restrepo minimizza. “Quest’enfasi sugli investimenti esteri mi sembra pretestuosa”, afferma. “In Colombia gli stranieri sono sempre stati benvenuti, il nostro mercato è il mondo intero”. Poi sottolinea che le principali produzioni agricole del paese sono destinate all’esportazione, come le banane e il caffè. E che la Colombia può avere un ruolo fondamentale nell’occupare un mercato in crescita. “A differenza di Cile e Perù, dove c’è poca acqua, noi ne abbiamo in abbondanza. Qui ci sono le terre, le risorse e la manodopera. Possiamo solo crescere”, dice.
Restrepo parla di potenzialità enormi, ma ammette che ci sono dei problemi. “Senza le infrastrutture si può fare poco: se il raccolto non raggiunge in tempo le empacadoras, non si può usare. In diverse aree rurali della Colombia le strade sono pessime e le piantagioni sono spesso in zone impervie. E poi ci sono le leggi che vietano di coltivare in aree protette”. Restrepo si riferisce in particolare alla cosiddetta ley segunda, la legge approvata nel 1959 per tutelare le riserve forestali. “Quella norma è modellata sulla Colombia di sessant’anni fa. Bisognerebbe rivederla alla luce delle esigenze attuali”. Qui sta il nocciolo della questione e dello scontro tra produttori e ambientalisti, che trova nel Quindío la sua massima espressione, ma che esiste anche in altre zone del Sudamerica. È giusto mantenere intatte quelle aree, fondamentali per il mondo intero? O sarebbe meglio sfruttarle economicamente, con l’idea che porteranno ricchezza e benefici a tutto il paese? È possibile sostituire il petrolio con l’avocado, come sostiene il presidente Petro, senza colpire le zone protette, o bisogna sacrificare l’ambiente sull’altare della redditività agricola?
Il dilemma di fondo è lo stesso che si vede in gran parte dei grandi stati agricoli diventati fornitori globali: quello tra tutela dell’ambiente e crescita di un’economia legata alle esportazioni. Se per i prodotti alimentari di base, come i cereali, è difficile immaginare un’alternativa, perché sono fondamentali nella dieta della popolazione mondiale, per l’avocado il discorso è un po’ diverso. Si tratta di un alimento tutto sommato superfluo. La crescita esponenziale dei consumi nel nord del mondo sottintende una domanda rimasta in sospeso: è opportuno mangiare frutti che arrivano dall’altra parte del pianeta, con un enorme consumo di energia per il trasporto e la conservazione, una rilevante produzione di emissioni di anidride carbonica e un cambiamento sostanziale degli ecosistemi e degli equilibri agricoli nei paesi di produzione?
Gradualmente ma inesorabilmente l’avocado sta colonizzando gran parte delle terre colombiane situate alla giusta altitudine, tra i 1.500 e i 2.500 metri. Questo sviluppo sarà una maledizione per il paese, come sostengono alcuni, o una manna per il settore agricolo, come sottolinea Restrepo e come sembra pensare lo stesso presidente Petro?
Di certo l’avocado è al centro di uno scontro sempre più acceso, che riguarda il futuro non solo della Colombia ma del mondo intero. E ci racconta come ogni nostra scelta alimentare produca effetti che neanche lontanamente immaginiamo. ◆
Questoarticoloè stato realizzato con il contributo dell’associazione Mani tese all’interno del progetto Food wave, finanziato dalla Commissione europea e coordinato dal comune di Milano. Per maggiori informazioni si può consultare il sito foodwave.eu. Stefano Liberti è un giornalista italiano. Il suo ultimo libro è Terra bruciata (Rizzoli 2020).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1515 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati