La seconda montagna più alta del mondo è così remota e difficile da scalare che non ha mai avuto un nome comunemente accettato. Ancora oggi si usa soprattutto quello che le è stato assegnato da un topografo a metà ottocento: K2. La sua insidiosità fa parte del folclore. Il famoso alpinista George Bell definì il K2 “una montagna selvatica che cerca di ucciderti”. Ogni quattro persone che raggiungono la cima e ridiscendono, una muore.

Quando Maya ha deciso di affrontare il K2, nel 2014, la sua famiglia pensava che fosse impazzita. Aveva guidato altri scalatori sulle vette più alte dell’Himalaya per più di dieci anni, era una delle poche donne a farlo tra gli sherpa, una popolazione nativa della catena montuosa. Era stata la prima nepalese a raggiungere diverse cime ed era salita due volte sull’Everest, la montagna più alta del mondo. Dopo aver scoperto di aspettare una bambina, che sarebbe nata nel 2010, aveva smesso di lavorare. Ma, come mi confessa in un bar di Kathmandu, la capitale del Nepal, “quando cominci a scalare, diventi dipendente”.

Dopo mesi di preparativi, Maya e altre due sherpa hanno scalato il K2, il 26 luglio 2014. Sedici ore di arrampicata – compresa quella sul famigerato Collo di bottiglia, un sottile burrone di ghiaccio, neve e roccia che in certi punti ha una pendenza di 80 gradi  – per essere le prime nepalesi ad arrivare in cima. “Volevo dimostrare che si può scalare anche dopo aver partorito. Volevo dare l’esempio alle donne e alle madri. Volevo mettermi alla prova”, mi dice.

Da piccola Maya aveva scoperto che le guide di trekking e arrampicata guadagnavano abbastanza per sfuggire alla povertà che spesso affligge le comunità montane. A 21 anni era diventata una guida. Oggi, a 46, è la presidente dell’Everest summiteers association, che preme sul governo per garantire alle guide una retribuzione migliore e un sistema di sostegno più solido. Gli sherpa sono particolarmente preoccupati per il cambiamento climatico, che minaccia il loro sostentamento.

Uno sherpa mi spiega che l’Hillary step, una nota rientranza della parete rocciosa sotto la cima dell’Everest, “un tempo era fatta di ghiaccio solido, ma ora è in gran parte roccia”, questo rende più difficile trovare un appiglio. “Fa sempre più caldo”, conferma Maya, “e i pericoli della montagna aumentano”.

Negli ultimi decenni il tasso di mortalità tra chi affrontava l’Everest era intorno all’1 per cento. Ma il 2023 è stata una delle stagioni peggiori mai registrate, con diciotto vittime confermate. Dall’inizio del novecento fino al 2011 era stata raggiunta la doppia cifra solo in tre stagioni, mentre in cinque degli ultimi dieci anni sono morti ogni volta più di dieci scalatori. Anche tenendo conto del costante aumento di turisti che scalano l’Everest, questi numeri preoccupano gli sherpa. Secondo la Nepal mountaineering association (Nma ) negli ultimi quindici anni il numero delle guide alpine registrate è diminuito di un quinto, arrivando a poco meno di 13mila persone (la maggior parte, ma non tutti, sono sherpa). Anche se è un lavoro ben pagato per gli standard nepalesi, alcuni lo hanno abbandonato preferendo i settori dell’edilizia e dell’ospitalità o se ne sono andati. La maggior parte degli sherpa incoraggia i figli a frequentare l’università e a scegliere altre carriere. Se l’esodo continuerà, spiega Dipendra Gurung della Nma, “il futuro dell’alpinismo in Nepal è a rischio ”.

Questi cambiamenti sono confermati da Roos Dawa, la figlia tredicenne di Maya. “Sono orgogliosa che sia una scalatrice”, mi dice tra un boccone di cheesecake e l’altro. “Ma sarei orgogliosa anche se facesse altro”. E infila la mano in quella della madre. “Perché è pericoloso. Quando si arrampica mi preoccupo per lei”. A Roos piace dipingere le montagne, ma non le interessa scalarle. Vuole diventare architetta.

Maya è una dei circa 150mila sherpa che vivono in Nepal. Grazie alle mutazioni genetiche dovute a secoli di vita ad altitudini mozzafiato, gli sherpa assorbono l’ossigeno in modo più efficiente rispetto alla maggior parte delle persone. Anche se solo poche migliaia di loro sono alpinisti professionisti, sono tutti scalatori così abili che sherpa è diventato sinonimo di chi lavora sulle montagne ad alta quota. Ormai è chiamato sherpa chiunque lavori come aiutante degli scalatori durante le spedizioni: assicura corde e percorsi su terreni pericolosi, trasporta carichi pesanti, allestisce e smonta gli accampamenti, serve i pasti e fornisce assistenza medica di base.

Gente dell’est

Gli sherpa si trasferirono in Nepal dal Tibet orientale (il loro nome in tibetano significa “gente dell’est”) più di cinquecento anni fa. Alla ricerca di un beyul, una valle nascosta che il fondatore del buddismo tibetano aveva reso sacra trasformandola in un rifugio dal mondo corrotto, trovarono le terre disabitate e spazzate dal vento di Solu-Khumbu. Verso la fine dell’ottocento lavoravano come portatori in varie zone dell’Himalaya, ma non sulle vette del Khumbu, considerate la dimora della divinità e, oltre una certa altitudine, vietate agli umani.

I primi assalti britannici all’Everest all’inizio del novecento lasciarono perplessi gli sherpa. Molti di quelli impiegati nella sfortunata spedizione di George Mallory del 1924 credevano che gli inglesi fossero cacciatori di tesori. Ma alla fine di quel decennio, si resero conto che l’alpinismo offriva un’opportunità di lavoro che si poteva conciliare con la loro religione. Arrivarono a credere che se intraprendevano quelle scalate pericolose la dea che vive sull’Everest gli avrebbe donato ricchezza e fortuna. Ancora oggi all’inizio di ogni spedizione le squadre sherpa eseguono una puja, una cerimonia sacra, per ottenere la sua benedizione.

Gli sherpa riescono a partecipare al massimo a due spedizioni all’anno

Con il maggior coinvolgimento degli sherpa nella nuova affascinante industria, aumentò anche il loro malcontento per le paghe e le condizioni di lavoro. Prima che la spedizione britannica sull’Everest del 1953 partisse da Kathmandu, gli sherpa che l’accompagnavano, costretti a dormire sul pavimento di un garage, per protesta urinarono davanti all’ambasciata britannica. Le guide cominciarono a organizzarsi e ottennero più potere contrattuale su come venivano condotte le spedizioni degli stranieri.  Nel 1972 scioperarono per l’inadeguatezza dell’equipaggiamento e, per convincerle a lasciare il campo base, il capo della spedizione tedesca fu costretto a noleggiare un elicottero per Kathmandu, prendere l’aereo per l’Europa e tornare con un equipaggiamento più adeguato.

La maggior parte degli sherpa non ha mai visto riconosciute le proprie imprese. Alcuni, come Tenzing Norgay, che insieme a Edmund Hillary fu uno dei primi a raggiungere la vetta dell’Everest, diventarono delle celebrità. Ma Tenzing era spesso descritto dai mezzi d’informazione occidentali come il compagno indigeno leale e laborioso di Hillary, più che come un elemento determinante per il successo della spedizione.

Nonostante questo, gli sherpa hanno continuato a essere attratti da questo lavoro, redditizio e affascinante. Oggi un singolo viaggio sull’Everest può fruttare circa seimila dollari, quasi cinque volte il reddito medio annuo pro capite dei nepalesi (per fare un paragone, un soldato semplice dell’esercito può guadagnare tra i 2.500 e i tremila dollari all’anno). Gli sherpa che vanno abitualmente sull’Everest riescono a partecipare a due spedizioni all’anno, ognuna delle quali dura un paio di mesi, perché prima dell’arrivo dei clienti devono preparare campi e percorsi. Alcuni hanno ottenuto l’attrezzatura da sponsor noti, ma è impossibile separare il lavoro dalle catastrofi che si nascondono dietro ogni valico. Secondo l’Himalayan database, il registro dell’alpinismo sull’Himalaya nepalese, delle circa 962 vittime della montagna dal 1922 a oggi, almeno 250 erano sherpa.

La temuta cascata del Khumbu, un fiume viscoso di ghiaccio e neve, che devono attraversare tutte le spedizioni dirette alla vetta dell’Everest dal versante nepalese, serpeggia sopra il campo base. Ogni giorno si sposta di circa un metro lungo il fianco della montagna, trasformandosi improvvisamente in un labirinto di crepacci. Enormi seracchi (masse di ghiaccio traballante grandi come un palazzo) minacciano di crollare senza preavviso. Attraversare la cascata richiede velocità, grinta e fortuna, in particolare per gli sherpa e i “dottori delle cascate di ghiaccio”, gli esperti, quasi tutti sherpa, responsabili di guidare gli scalatori attraverso le voragini.

Il 18 aprile 2014 un gruppo di sherpa che stava preparando i percorsi prima dell’apertura della stagione è stato sfortunato: un seracco da 14mila tonnellate si è sgretolato ed è esploso. Blocchi grandi come camion hanno seppellito vive sedici persone, di cui tredici sherpa, e ne hanno ferite gravemente almeno una decina. Le famiglie degli sherpa morti avrebbero dovuto ricevere diecimila dollari ciascuna dall’assicurazione obbligatoria sulla vita, ma alcune dicono di non aver avuto tutti i soldi che gli spettavano. I parenti hanno ottenuto altri 400 dollari per le spese funerarie, una cifra giudicata ridicola.

Nel 2014 i lavoratori della montagna si sono radunati al campo base dell’Everest per protestare. Chiedevano al governo, che regola il settore, di aumentare i risarcimenti per chi muore sul lavoro e di garantire la retribuzione completa se le spedizioni vengono annullate. Volevano anche avere voce in capitolo su come spendere i ricavi generati dal turismo. Centinaia di sherpa sono entrati in sciopero, facendo cancellare la stagione. Alla fine alcune delle richieste sono state accettate, e il risarcimento è salito a 15mila dollari. Ma molti sherpa giudicano la somma inadeguata. “È troppo poco per morire!”, mi ha detto Maya.

Lauti guadagni

Il governo nepalese guadagna milioni di dollari con il turismo. Ogni straniero che vuole scalare l’Everest deve pagare undicimila dollari per un permesso, oltre a varie tasse. Si stima che solo i permessi valgano circa tre milioni di dollari all’anno. Le agenzie turistiche, che di solito fanno pagare tra i 75mila e i centomila dollari a persona, si occupano del comfort degli scalatori amatoriali. Una promette “telefonate, connessione a internet, ricarica della batteria, servizio lavanderia, bevande alcoliche, bottiglie e bibite in lattina, caffè speciali e prodotti da forno”, più “bombole di ossigeno illimitate per ciascuno e quattro bombole per ogni guida”. A trasportare tutto questo, inutile dirlo, sono gli sherpa. Oggi anche chi ha poca o nessuna esperienza può compiere un’impresa che a Tenzing Norgay riuscì dopo sette tentativi.

Anche se gli sherpa che lavorano regolarmente alle spedizioni sull’Everest sono ben pagati secondo gli standard locali, molti ritengono di non avere gli stessi vantaggi sufficienti se confrontati a quelli del governo e delle aziende private. Spesso non hanno una pensione, risarcimenti in caso di evacuazione e un’adeguata assicurazione sanitaria, e alcuni devono assillare il ministero del turismo per ricevere i “certificati di vetta” dopo aver concluso una scalata. Si tratta di documenti importanti perché funzionano come referenze. “Ho scalato l’Everest tante volte, ma è stato difficile ottenerli”, dice Da Nuru, 44 anni, che ha partecipato alla spedizione del 1999 per trovare il corpo di George Mallory. “Per gli stranieri è più facile”.

Maya nella sua casa di Kathmandu, Nepal, 6 luglio 2023 (Saumya Khandelwal)

Da Nuru ora vive in Colorado, lavora nella cucina del ristorante Sherpa House e occasionalmente fa il giardiniere. Il suo visto è stato sponsorizzato da un capo spedizione statunitense, come spesso succede per gli sherpa che vogliono lasciare il Nepal. Dopo la valanga del 2014 “i miei figli hanno cominciato a preoccuparsi”, dice Da Nuru, che racconta di aver affrontato alcune delle vette più alte dell’Himalaya più di una trentina di volte. “Il Nepal non ha rispetto per me”. Molti sherpa condividono le sue frustrazioni.

“Il governo”, dice Maya, “si arricchisce con le montagne. Perché non pensa alle persone che ci lavorano?”.

Un altro futuro

I più famosi scalatori sherpa spesso si trasferiscono a Kathmandu, dove possono far studiare i figli e dargli l’occasione di ottenere lavori ben pagati e meno pericolosi. Ma per molti sherpa fare le guide alpine e i portatori rimane l’unica via d’uscita dalla povertà. L’istruzione pubblica nelle aree più remote è scadente e la maggior parte dei ragazzi abbandona la scuola dopo la secondaria. Per i meno istruiti e più poveri i guadagni dell’alpinismo superano i rischi.

Furi, una guida quarantenne che da quindici anni porta le persone sull’Himalaya due volte all’anno, ammette che “gli sherpa non scalano l’Everest per piacere. Quasi tutti lo fanno per soldi”. Furi ha cominciato a lavorare in alta montagna per poter crescere i due figli nella capitale. “Come genitore per me va bene se scaleranno l’Everest una o due volte, ma non voglio che diventino professionisti”. Alza le spalle. “Io devo, è il mio lavoro. Ma non voglio che lo facciano i miei figli”.

Quasi tutti gli scalatori con cui parlo ritengono che il pericolo più grande sono gli effetti del cambiamento climatico sull’Himalaya. In definitiva, “lo stile di vita degli sherpa dipende dalle condizioni meteo”, dice Tenzing Chogyal, trent’anni, un glaciologo dell’International centre for integrated mountain development (Icimod) di Kathmandu. Le sue ricerche dimostrano che il ghiacciaio del Khumbu si sta riducendo a un ritmo allarmante. Da un recente rapporto dell’Icimod è emerso che i ghiacciai dell’Hindu Kush potrebbero perdere quattro quinti del loro volume attuale entro la fine del secolo, aumentando il rischio di frane, inondazioni e siccità. Tenzing è il nipote di Kanchha, 91 anni, l’ultimo sopravvissuto della spedizione del 1953. Dagli anni settanta, dopo che sua nonna aveva perso due figli sull’Everest, in famiglia si scoraggia il lavoro in montagna. “Da anni gli sherpa che possono permettersi di lasciare la professione lo fanno”, ammette.

Spera che una migliore istruzione e un’industria turistica che “dia priorità al benessere dei lavoratori e delle comunità sherpa” offrano più opportunità ai giovani. “Questo”, sottolinea Tenzing, “è ciò che Hillary voleva quando costruì la Khumjung school”, la prima scuola nella regione del Khumbu per bambini sherpa. “Gli sherpa di lì non si limitano a scalare, fanno ogni genere di lavoro: medici, ufficiali dell’esercito e diplomatici”.

Maya ha una visione più romantica. “Se gli sherpa non vorranno più lavorare sulle montagne, forse l’alpinismo himalayano tornerà a essere com’era cent’anni fa”, dice mentre guardiamo Roos giocare in giardino. “Solo gli scalatori seri che amano l’Everest continueranno. Nessuno sa farlo come noi”, dice scrollando le spalle. “L’alpinismo è nel nostro dna”. Maya è indecisa sul suo futuro. A volte pensa di mollare, a volte non riesce a immaginare di fare altro. Più di uno scalatore che conosce ha lasciato il lavoro per frustrazione, per poi ripensarci. “Sai che è una follia”, sussurra guardando le colline lontane, “ma vuoi farlo lo stesso”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati