Mia madre, che non sa né leggere né scrivere, è una delle mie influenze letterarie. Avevo tre o quattro anni quando ha abbandonato il nostro campo profughi in Sudan per andare in Arabia Saudita, affidandomi alle cure della mia nonna materna. Il vuoto che ha lasciato è diventato uno spazio per la mia creatività, spingendomi a immaginare un mondo diverso in cui c’erano lei e tutta la mia famiglia riunita.
Mia madre ha stimolato ancora di più la mia immaginazione mandandomi delle registrazioni su nastro invece di chiedere l’aiuto di uno degli scrivani a cui si rivolgevano le persone analfabete per spedire una lettera. Allegri, espressivi e pieni di canzoni improvvisate, i nastri erano un ricettacolo di notizie e storie in cui mia madre descriveva la sua vita nei minimi particolari. Anni dopo, quando sono andato nel Regno Unito da profugo, senza parlare una parola d’inglese, il ricordo di quei nastri mi ha spinto a scrivere.
La mia scrittura, però, ha allargato ancora di più la distanza tra lei e me. “Perché ora hai scritto questo?”, mi chiede. Siamo all’inizio del 2019 e sono passati pochi mesi dalla pubblicazione del mio secondo romanzo, Il silenzio è la mia lingua madre. Sono in una cabina per le chiamate internazionali in un negozio di elettronica pachistano a Matongé, il quartiere congolese di Bruxelles, in Belgio, dove vivo. Chiacchieriamo al telefono, visto che per motivi politici non ho il permesso di andarla a trovare in Eritrea, dove sono nato e dove mia madre vive dagli anni novanta, quando il suo datore di lavoro in Arabia Saudita l’ha fatta rimpatriare. Fin da quando ero piccolo, ogni volta passano più di dieci anni prima che c’incontriamo di persona.
Non è la prima conversazione che facciamo a proposito del mio lavoro. Frammenti e passaggi dei miei libri continuano ad arrivarle attraverso i parenti che vivono in Europa. Lo schema è sempre lo stesso: io pubblico qualcosa, lo condivido sui social network, poi qualcuno la chiama e glielo traduce. Le intenzioni di questi parenti sono chiare: usare mia madre come voce della censura per rimettermi in riga.
Già con il mio primo libro, che parla di amore proibito e libertà in Arabia Saudita, il modo in cui ho affrontato la religione ha destato le preoccupazioni dei miei familiari. Come tanti eritrei, sono fuggiti dalla violenza della guerra trentennale per l’indipendenza del nostro paese dall’Etiopia. Ora, a scandalizzarli è l’erotismo crudo e spesso senza freni del mio secondo libro. La mia penna si è trasformata in un’arma a doppio taglio: dà significato alla mia vita senza la mia famiglia, ma allo stesso tempo minaccia le loro tradizioni, le indicazioni superstiti per una casa che, in esilio, sta sfumando nell’ambiguità.
Capisco la loro rabbia. Quando ho cominciato il romanzo non riuscivo a scrivere di personaggi che sfidavano i ruoli di genere e i tabù sessuali. Ero condizionato dalle tradizioni di tutte le società in cui ero vissuto, comprese quelle europee. Per un po’ ho messo da parte la penna e mi sono isolato con i libri di Tayeb Salih, Anne Desclos, Zora Neale Hurston, Georges Bataille, Nawal el Saadawi e Pier Paolo Pasolini, oltre a una serie di lavori provocatori di registi, fotografi erotici e artiste femministe. Queste opere sono state le asce con cui ho sfrondato la mia mente. Ho scritto Il silenzio è la mia lingua madre, ma è stato anche il libro a riscrivere me.
Al telefono, dopo qualche esitazione, mia madre accenna ai personaggi nudi nei miei libri. Comincio a sudare. Dopo anni di lontananza, anche una banale conversazione è piena di difficoltà, figuriamoci una sulle scene di sesso nei miei romanzi. In mezzo al frastuono dei miei fratelli africani che gridano dalle cabine vicine, m’invento una bugia: “Non ti sento”, dico. Poco dopo attacco e vado a fare una passeggiata.
Vorrei spiegarle perché l’intimità è centrale nella mia scrittura, perché il mio unico scopo, come scrittore, è arrendermi alla mia immaginazione e andare ovunque mi porti. Purtroppo, non ho il vocabolario adatto per dirle tutto questo nelle lingue in cui ci parliamo. L’alternanza tra il mio arabo stentato e il tigrino produce spesso scambi disarticolati e frustranti. In questo momento, però, la barriera linguistica è una benedizione. Di fronte all’imbarazzo per la mia scrittura, la perdita della mia lingua madre è diventata uno scudo contro potenziali litigi e ha permesso a me e mia madre di rimanere vicini.
C’è stato un momento in cui ho pensato di bloccare i miei parenti sui social network. Alla fine, però, non l’ho mai fatto. Per quanto mi dia fastidio che cerchino di provocare mia madre per frenarmi, una parte di me li considera necessari. Se non ci fossero stati loro a tradurre e condividere ciò che scrivo con mia madre, non ne avrebbe mai saputo nulla. Sono sospeso tra la paura che le mie parole “scandalose” la spingano prima o poi a non parlarmi più e la gioia che provo quando mi chiede della mia scrittura. Per quanto siano imbarazzati o precari, questi scambi mi fanno sentire considerato e riconosciuto da lei.
La domanda “Chi è il tuo lettore?” – caposaldo di tutti i corsi di scrittura – mi mette in crisi. Scrivere in inglese, una lingua inaccessibile alla mia famiglia in Eritrea, mi ha permesso di affrontare temi sensibili e scrivere liberamente. Dall’altra parte, il fatto di usare la lingua del mio paese di adozione, invece di quelle dei miei parenti, mi ha messo nelle mani dei lettori occidentali. Sento che la mia immaginazione è incatenata ai desideri di questi lettori e alla grossolana semplificazione dei loro gusti letterari fatta dagli editori anglofoni. Penso alla complessità di scrivere in esilio mentre preparo i bagagli per un viaggio a Khartoum, in Sudan, all’inizio dell’anno. Mia madre, che non vedo da dodici anni, mi raggiungerà lì. Ho messo in valigia dei regali per lei: vestiti, shampoo e una lozione per la pelle. Su incoraggiamento della mia compagna, prendo anche una copia del mio secondo romanzo, se mai avrò il coraggio di mostrarglielo.
È appena passata la mezzanotte del 1 gennaio 2023. L’ansia cresce mentre l’aereo comincia la discesa, con le ali che si allargano sopra il Nilo. Una brezza fresca ci accoglie all’aeroporto internazionale di Khartoum. In qualche modo sembra simbolico. La mia scrittura, e i dilemmi che la circondano, passano in secondo piano. Decido di godermi il ricongiungimento. La tristezza che ho accumulato su al nord, come un iceberg sul petto, si scioglie al calore dell’affetto della mia famiglia.
Mia zia prepara la colazione per festeggiare, mettendo a tostare il caffè mentre i popcorn scoppiettano sotto il coperchio in cucina. Il suono delle risate dei miei familiari, un suono che mi è mancato, mi stringe la gola. Mia madre mi chiede dei miei libri. Stavolta non posso nascondermi dietro i capricci delle linee telefoniche o il rumore della cabina. Siamo seduti uno di fronte all’altra. Non ci sono i miei parenti europei a fare da interpreti quando ci mancano le parole. Siamo solo lei e io, il figlio che ha mandato in occidente da ragazzino perché stesse al sicuro e studiasse scienze, ma che è tornato scrittore.
Apro la valigia, travolto da pensieri contraddittori. Il fumo aromatico dell’incenso che brucia mia zia si spande nell’aria. Ho un attacco d’asma, mi fermo un attimo. Appena prendo il mio romanzo sono sopraffatto dal senso di colpa. Non posso darle un libro che contiene così tante cose che disapprova. Un libro zeppo di personaggi che sono diventati più vivi quando l’ho uccisa nella mia fantasia e mi sono allontanato da chi m’invitava a scrivere per i lettori occidentali.
Quando però mia madre prende in mano il romanzo, scritto in uno stile ispirato alle storie dei suoi nastri, le preoccupazioni svaniscono. Provo un senso di appagamento che non ho mai provato, come se i suoi sacrifici – anni passati a lavorare come domestica in un palazzo saudita per mandarmi a Londra – fossero stati finalmente ripagati.
“Ket’sebeg”, dice mia madre in tigrino, riferendosi alla bellezza della copertina. La sua voce, che non è mai cambiata, mi ricorda i nastri. Mi viene un’idea: potrei pagare per far tradurre il mio romanzo in tigrino e poi registrare un audiolibro solo per lei.
Il suo analfabetismo e la mia anglofonia non sarebbero più una barriera. Mia madre avrebbe la possibilità di ascoltare la mia storia, così come io ho ascoltato la sua su quei nastri quando ero bambino. Sostituirei i parenti traduttori che le hanno riferito dei passaggi dei miei libri con intenzioni discutibili. Dopo l’entusiasmo iniziale, però, subentra il panico. Alcuni parenti non hanno più voluto parlarmi dopo aver letto i miei libri, e ho paura che anche mia madre possa abbandonarmi dopo aver ascoltato le storie d’amore, intimità e fluidità sessuale che ho raccontato nel mio romanzo. È questa possibilità che, prima d’imbarcarmi nel progetto dell’audiolibro, mi spinge a domandarmi: cosa conta di più per me, la presenza di mia madre nella mia vita o le mie storie senza filtri nella sua? ◆ fas
Sulaiman Addonia è uno scrittore eritreo. Ha passato i primi anni di vita in un campo profughi in Sudan e l’adolescenza in Arabia Saudita. È cittadino britannico. Vive in Belgio. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il silenzio è la mia lingua madre (Francesco Brioschi editore 2022). Questo racconto è uscito sul New York Times con il titolo My mother: the reader I’ve always wanted but may never have.
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Questo articolo è uscito sul numero 1520 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati