Al ristorante parigino Les 110 de Taillevent, un due stelle Michelin specializzato nell’abbinamento di gastronomia ed enologia, la carta dei vini riflette la tradizionale gerarchia europea: dominano le etichette francesi, poi ci sono quelle italiane, le spagnole e qualche bottiglia californiana. Una voce spicca in particolare, un vino bianco danese: il Cuvée Frank, 28 euro al calice, prodotto dall’azienda vinicola Stokkebye, nel sud della Danimarca. Con un breve invecchiamento in rovere, questo vino fresco con aromi di mela verde e ananas ha anche “un vago sapore di nocciola”, dice Paul Robineau, il capo sommelier del gruppo che gestisce i ristoranti Taillevent. La sua presenza in lista, però, segnala soprattutto qualcos’altro: una ridefinizione della mappa enologica europea.
La crisi climatica ha esteso la viticoltura a territori fino a ieri troppo freddi, costringendo al tempo stesso le regioni vinicole tradizionali ad adattarsi alle temperature in aumento. “Dieci anni fa non avresti mai trovato un’etichetta danese nella carta dei vini”, spiega Robineau. “Ma con il cambiamento climatico la Danimarca potrebbe produrre vini di grande qualità”.
Situata sull’isola di Fionia, a due ore di auto da Copenaghen, la tenuta Stokkebye è nata nel 2009 come esperimento agricolo. Il sommelier Jacob Stokkebye e sua moglie Helle avevano deciso di vedere se il clima locale avrebbe permesso di coltivare la vite. A quel tempo, il mondo del vino danese era in gran parte confinato a poche persone che sperimentavano, essenzialmente per hobby, vitigni resistenti al freddo. La combinazione tra riscaldamento globale e progressi della viticoltura ha però trasformato questa avanguardia, un tempo inimmaginabile, in un’industria piccola ma vivace. Negli ultimi dieci anni in Danimarca il numero di vigneti è raddoppiato e la produzione è triplicata. “Il clima di oggi qui è simile a quello di alcune zone della Francia degli anni sessanta”, spiega Jacob. “E questo ci consente di produrre vini con la freschezza e l’acidità che avevano le bottiglie francesi di quell’epoca”.
Regole e carattere
I vini provenienti dai paesi del nord sono sempre più apprezzati sul mercato, mentre diverse regioni vinicole storiche – come il Bordeaux, in Francia, o la Rioja, in Spagna – sono alle prese con climi troppo caldi, uve troppo mature e poca acqua. Il cambiamento sta costringendo il mondo del vino a riconsiderare le vecchie certezze sul terroir, cioè quell’interazione tra suolo, clima e abilità umana che ha definito l’identità del vino per secoli.
Il terroir lega un vino alla sua geografia, promettendo ai bevitori non tanto una bevanda alcolica quanto un vero distillato dell’identità di un luogo, sostiene Lamberto Frescobaldi, presidente della Marchesi de’ Frescobaldi, una delle più grandi aziende vinicole italiane, e dell’Unione italiana vini (Uiv). Adattare il concetto di terroir al cambiamento climatico mette a dura prova il sistema di denominazioni usato in Francia, Spagna, Italia e in molti altri paesi europei per proteggere la particolarità culturale e geografica di ogni regione vinicola. La denominazione controllata è il motivo per cui una bottiglia di barolo o di borgogna non è definita solo dal suo sapore, ma anche dai rigidi criteri che ne regolano la produzione.

Alcuni sostengono che le regioni vinicole tradizionali debbano riscrivere queste regole se vogliono competere con i pionieri dei climi più freddi, che non sono gravati da leggi vinicole secolari. “Le mie ricerche mi convincono sempre di più che questa non sia una coltura in via di estinzione”, afferma Elizabeth Wolkovich, esperta di clima e fenologia. “Non c’è nessun rischio che l’uva da vino scompaia, ma ci sono grandi cambiamenti in arrivo”. I viticoltori, per esempio, devono introdurre nuovi vitigni o irrigare di più i vigneti. Ma non tutti sono d’accordo. C’è infatti anche chi sostiene che questi adattamenti rischiano di uccidere l’identità di un vino, offuscandone il marchio e compromettendone il valore commerciale. “Se irrighi un vigneto, perdi il terroir”, dice Robineau, prima di paragonare il vino da uve troppo irrigate a un viso che ha fatto troppi trattamenti con il botulino. “Magari ha anche un bell’aspetto, ma a un certo punto comincia a perdere il suo carattere e a diventare meno interessante”.
Nel mondo esistono circa 1.500 vitigni, ma la decina di varietà che ha dominato il settore negli ultimi centocinquant’anni e che produce i vini più celebrati cresce in fasce climatiche relativamente ristrette. Durante la stagione della crescita, le temperature medie dovrebbero idealmente variare tra i 12 e i 22 gradi. Tuttavia anche in questo intervallo la velocità di maturazione dei vitigni è diversa. Le uve precoci come il pinot nero raggiungono il picco mesi prima di quelle tardive come il cabernet sauvignon. Il trucco, dicono i coltivatori, è allineare la maturazione al mite clima dell’inizio dell’autunno, che è necessario per l’accumulo di zuccheri e tannini nell’acino. Se il tempo è troppo poco, l’uva giunge a maturazione prima di aver sviluppato il suo sapore, mentre troppo calore può renderla sciropposa, e portare a una eccessiva produzione di alcol nel processo di fermentazione. Il terreno gioca un ruolo più sottile: i vini migliori provengono da viti coltivate in terreni poveri di nutrienti e di acqua, che concentrano i composti aromatici negli acini. In passato la stabilità climatica dell’Europa ha permesso al concetto di terroir di affermarsi, elevando il vino da semplice merce a espressione di un luogo e di una cultura. Ma il riscaldamento globale ha cambiato tutto in modo irreversibile. “Se vi piacevano i vini di Bordeaux degli anni settanta e ottanta, sappiate che sono finiti per sempre”, afferma Wolkovich. “Il clima stabile che avevamo negli anni cinquanta e sessanta non esiste più. Quindi non possiamo avere i vini che la gente amava a quell’epoca”.
Marilou Vacheron, una viticoltrice di quarta generazione della tenuta Clos du Caillou a Châteauneuf-du-Pape, racconta che “negli ultimi dieci anni il clima della zona è diventato sempre più estremo, con prolungati periodi di siccità intensa e violente grandinate. Nel periodo che va dalla fioritura alla vendemmia, abbiamo osservato un aumento della temperatura di 3 gradi, abbinato a una riduzione delle precipitazioni di circa 50 millimetri”. Le temperature in aumento hanno anticipato l’invaiatura, il momento in cui i frutti cominciano a maturare e le bucce degli acini passano dal colore verde al giallo o al viola, cosa che spinge i viticoltori a vendemmiare prima. Un documento con le date delle vendemmie a Beaune, in Borgogna, a partire dal 1354 rivela che, dal 1988, nella regione la raccolta dell’uva è avvenuta in media 13 giorni prima rispetto alla date precedenti.
Il clima stabile che avevamo negli anni cinquanta e sessanta non esiste più
Nella regione dello Champagne la vendemmia si svolgeva tradizionalmente a metà settembre, per garantire l’acidità che è il segno distintivo delle uve locali. Oggi è sempre più comune che si cominci a metà agosto. Tuttavia, fa notare Wolkovich, le uve che maturano troppo velocemente possono provocare “un sovraccarico di zucchero, una scarsa acidità e uno sbilanciamento dei tannini”. Il risultato è un vino più alcolico e meno raffinato. Robineau cita il caso del pinot nero, da tempo apprezzato per il suo basso contenuto alcolico, la sua acidità e freschezza. “Negli ultimi anni abbiamo avuto un pinot nero con più del 15 per cento di alcol. Non era mai successo negli ultimi cinquant’anni”. Il cambiamento climatico sta anche modificando i periodi di dormienza, cruciali per la salute della vite. Gli inverni più caldi spingono le piante a interrompere prima la dormienza, esponendo le gemme più tenere al rischio di essere danneggiate dalle gelate primaverili. Nel 2021 la Francia ha vissuto un inverno eccezionalmente caldo seguito da un’ondata di freddo anomalo ad aprile. Le viti, appena germogliate, sono morte per le gelate e il raccolto è stato il più misero dalla seconda guerra mondiale.
Il caso norvegese
Anche l’Europa meridionale ha sperimentato siccità prolungate che hanno messo alla prova la resistenza perfino dei vigneti più forti. “Per produrre vino di alta qualità è necessario un certo grado di deficit idrico”, spiega Cornelis van Leeuwen, professore di viticoltura della Bordeaux Sciences agro, la scuola nazionale superiore delle scienze agronomiche. “Ma c’è un punto di rottura. Se la siccità è troppa, le rese crollano”. Un modello statistico sviluppato da Giovanni Sgubin e dai suoi colleghi dell’università di Palermo ha analizzato l’idoneità dei vigneti europei in vari scenari climatici, tenendo conto di temperature, precipitazioni e umidità, e ha scoperto che le regioni vinicole esistenti potrebbero adattarsi ragionevolmente bene a un aumento di 2 gradi centigradi delle temperature globali rispetto ai livelli preindustriali. Oltre quella soglia, però, la quota dell’attuale superficie europea coltivata a vite e in grado di dare frutti adatti a produrre un buon vino cala drasticamente. Le regioni costiere e di pianura in Spagna, Italia e Grecia sono particolarmente vulnerabili. Il team di Sgubin prevede che siccità e ondate di calore potrebbero rendere inadatto alla produzione vinicola il 90 per cento di queste aree entro la fine del secolo.
Mentre l’Europa meridionale è alle prese con sfide potenzialmente esistenziali, nel nord del continente le temperature più elevate hanno trasformato terreni un tempo marginali in promettenti vigneti. Con i suoi terreni calcarei e un clima fresco che ricorda quello dello Champagne, l’Inghilterra è diventata una potenza nella produzione dei vini spumanti. E con le estati che si allungano, il vino fermo inglese sta guadagnando terreno. Nell’ultimo decennio si è sviluppata rapidamente anche l’industria vinicola polacca, mentre Estonia, Lituania e Lettonia producono vini che, pur se in quantità modesta, lasciano presagire un futuro in cui l’Europa settentrionale sarà protagonista dell’industria vinicola mondiale
Perfino i paesi scandinavi stanno ottenendo buoni risultati. In Norvegia, Bjørn e Halldis Bergum, che gestiscono il vigneto commerciale più settentrionale del mondo, hanno assistito in prima persona all’impatto del cambiamento climatico sulla vinificazione. Arroccato sui ripidi pendii sopra il Sognefjord, a nord di Bergen, la loro tenuta, che si chiama Slinde, è un mosaico di filari bassi curati scrupolosamente a mano.
“La primavera arriva prima e l’inverno è posticipato”, spiega Bjørn, “rispetto a quarant’anni fa c’è forse un mese di gelo in meno”, e prevede che presto i vini norvegesi potrebbero fare concorrenza a quelli francesi. Le lunghe giornate estive garantiscono fino al 30 per cento di luce in più per la fotosintesi, aumentando la concentrazione di zuccheri e l’aromaticità dei frutti. “Se qui in Norvegia riuscissimo a far maturare del riesling e dello chardonnay, forse avremmo la possibilità di produrre vini ancora migliori dei loro”, afferma. In Norvegia, inoltre, la produzione non è vincolata dal sistema delle denominazioni. “Qui non abbiamo regole”, dice Bjørn, che ha testato 55 diverse varietà di uva. La sua missione è inventare qualcosa di completamente nuovo, adattando le sue scelte ai microclimi norvegesi. Ogni stagione è una scommessa, perché alcune varietà crescono bene, mentre altre si dimostrano inadatte.

A Stokkebye in Danimarca, Jacob e Helle adottano un approccio diverso. I loro metodi sono molto legati alla tradizione e traggono ispirazione dai processi secolari usati nello Champagne. Gli spumanti della tenuta Stokkebye, realizzati con uve Pinot nero, sono spesso confusi con i più famosi vini francesi. “È solo questione di tempo prima che i produttori francesi comincino ad acquistare terreni qui in Danimarca”, prevede Stokkebye, aggiungendo che alcuni viticoltori francesi hanno già fatto offerte.
In termini commerciali, i vini del Nordeuropa sono ancora ai primi passi. “Bisogna capire se i consumatori si faranno convincere da produttori che stanno cercando di coltivare la vite in posti nuovi e non hanno la stessa storia culturale della vecchia viticoltura”, riflette Wolkovich. Frescobaldi afferma invece che la crescita di nuovi concorrenti, come l’Inghilterra o la Danimarca, “spinge tutti noi a produrre vino migliore”.

Cambiare e adattarsi
Ma per farlo, e per affrontare al meglio il cambiamento climatico, i produttori mediterranei devono adattarsi. Molti stanno già piantando le cosiddette colture di copertura, che competono con le viti per acqua e sostanze nutritive, rallentando la maturazione dei frutti. Altri hanno abbandonato la pratica della potatura, lasciando che le foglie non tagliate proteggano l’uva dal calore intenso del sole. In Toscana i vigneti vengono piantati ad altitudini più elevate, dove le notti più fresche rallentano la maturazione. “L’obiettivo non è solo sopravvivere, ma produrre vini che esprimano ancora la loro identità unica”, dice Frescobaldi. Tuttavia, per molti viticoltori le innovazioni più efficaci sono anche le più controverse: scegliere vitigni più adatti al nuovo clima e irrigare il terreno.
Alcuni grandi produttori, come lo spagnolo Torres, stanno recuperando varietà autoctone dimenticate e più resistenti al calore, mentre a Bordeaux è stata presa la decisione storica di consentire l’uso, secondo le regole della denominazione controllata, di vitigni mediterranei come il marselan e la touriga nacional, originaria del Portogallo. Tuttavia, introdurre nuove varietà di uva o modificare le pratiche può richiedere decenni, per le difficoltà fisiche e logistiche, e per gli ostacoli normativi. Molti produttori ritengono che il sistema sia ancora troppo rigido. Altri, invece, temono che questi cambiamenti minaccino la qualità dei vini delle regioni storiche, come la Borgogna, mettendo a rischio la fiducia e l’attaccamento dei consumatori, costruiti nel corso dei secoli.
Le autorità francesi stanno consentendo ai produttori di vini a denominazione controllata di irrigare le viti con maggior frequenza a causa delle scarse precipitazioni e delle ondate di calore. Van Leeuwen racconta che molti viticoltori stanno facendo pressione per un ulteriore allentamento delle regole. Ma è irremovibile nel sostenere che la regione di Bordeaux non ne ha bisogno. “Abbiamo 800 millimetri di pioggia all’anno. E se consideriamo le annate migliori, sono sempre quelle più secche”. Nella regione della Linguadoca, nel sudovest della Francia, oggi circa il 20 per cento dei vigneti è irrigato, spiega van Leeuwen, che poi aggiunge: “Sono piuttosto preoccupato per questa tendenza”. Il motivo è che sfrutta risorse idriche già limitate e rischia di abbassare la qualità del vino.
L’uso di varietà ibride appositamente selezionate è un altro tema di dibattito. Se in Danimarca, Svezia e nei paesi baltici oggi si fa il vino, in gran parte è merito di vitigni resistenti alle intemperie, come il solaris. Nell’Europa meridionale, gli ibridi garantiscono invece resistenza alla siccità e alle muffe, consentendo ai viticoltori di adattarsi a un clima più caldo e secco senza ricorrere all’irrigazione o alla chimica. “Gli ibridi sono promettenti perché richiedono meno irrorazioni e hanno un impatto ambientale minore. Ma hanno ancora molta strada da fare”, dice Frescobaldi. “In Toscana abbiamo piantato piccoli terreni di prova con degli ibridi, ma non stanno dando risultati soddisfacenti. Per il momento non li imbottiglierei”. Wolkovich nota che il processo di selezione è ancora agli inizi: “Coltiviamo pinot nero da duemila anni. Gli ibridi, invece, stanno ancora cercando la loro strada”.
La sostituzione dei vitigni e l’uso di nuove pratiche in vigna sfidano il concetto stesso di terroir. “Il vino deve essere il riflesso del suo territorio, della sua posizione”, sostiene Frescobaldi. “Se coltiviamo tutto dovunque, perdiamo il senso del luogo, l’identità del vino. La nostra responsabilità di produttori è insistere su questo senso di origine”.
“Come si può fare un bordeaux con il touriga?”, chiede Robineau. “È ovvio che il concetto di terroir si perde, perché il touriga non è un’uva originaria del bordolese”. Ma Wolkovich ricorda che, per quanto riguarda i più drastici casi di adattamento, un precedente c’è già. Alla fine dell’ottocento un’epidemia di fillossera (un parassita della vite) devastò i vigneti europei e costrinse i coltivatori a un grande sforzo di reimpianto. Il carattere dei bordeaux o dei borgogna di oggi “è il risultato di decisioni prese poco più di un secolo fa”, spiega Wolkovich. “Il vitigno è solo una piccola componente della magia del vino. Non so se i consumatori lo capiranno, ma spetta anche all’industria spiegarglielo”. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1598 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati