Da qualche tempo si ha l’impressione che la mattina, nella sua villa di duemila metri quadrati, Ray Dalio legga Il capitale di Karl Marx invece del Wall Street Journal. “Secondo la maggior parte delle persone il capitalismo così com’è non funziona più”, dice. Finora il fondatore del Bridgewater Associates, il più grande fondo speculativo del mondo, non poteva certo essere sospettato di avere simpatie socialiste: ha un patrimonio stimato in ventidue miliardi di dollari e il suo saggio I princìpi del successo (Hoepli 2018), che ha venduto due milioni di copie, è una lettura obbligatoria per chiunque voglia fare l’investitore. Eppure, sul capitalismo oggi Dalio ha idee di questo tipo: “Esagerando con le cose buone, si rischia di farle implodere. Se queste cose non si trasformano muoiono”. Ormai la ricchezza è distribuita in una sola direzione e i poveri restano poveri. Di pari opportunità quasi non c’è più traccia. Secondo Dalio, il capitalismo ha bisogno di riforme profonde. Altrimenti soccomberà. E sarà giusto così.
Il fatto che di punto in bianco miliardari come Dalio sembrino fan di Marx ci dice molto sullo stato del mondo in cui viviamo. La critica al capitalismo non è una novità, ma ora, mentre comincia il quarto anno di pandemia e il secondo di guerra in Ucraina, si sta diffondendo. Ci sono troppe cose che non funzionano più: insieme alla globalizzazione sta andando in frantumi anche il modello di crescita economica tedesco e, mentre il mondo si trincera in blocchi contrapposti, l’inflazione aumenta il divario tra ricchi e poveri, la quasi totalità degli obiettivi climatici non è stata raggiunta e la politica non riesce a riparare le continue crepe del sistema. Da più parti s’invoca un nuovo ordine economico. E spesso questa richiesta arriva da fonti insospettabili. Il Financial Times, portavoce internazionale dei mercati finanziari, ha annunciato che per il neoliberismo è arrivato il momento di uscire di scena: ora tocca allo stato. I grandi gruppi, dalla Bosch alla Goldman Sachs, discutono dell’opportunità di privilegiare finalmente gli interessi della collettività rispetto a quelli degli azionisti.
Gli intellettuali d’avanguardia e i pensatori pragmatici – nei governi e nelle aziende – pongono spesso una questione di fondo importante: è possibile andare avanti mantenendo l’ordine economico attuale, quello di un capitalismo che distrugge l’ambiente, pretende un aumento continuo di consumi, profitti e crescita, e moltiplica le ingiustizie? La questione era già stata sollevata nel 1972 dal Club di Roma (un’associazione per l’analisi dei principali problemi mondiali composta da scienziati, economisti, imprenditori, attivisti dei diritti civili e politici), ma la discussione che ne è scaturita è stata a lungo di natura esclusivamente teorica o, meglio, ideologica. Sembrava di ascoltare esponenti della gioventù socialista o dei verdi radicali. Ora, invece, molti segnali indicano che il capitalismo – almeno quello degli ultimi cinquant’anni – si è lasciato alle spalle la sua età dell’oro. Insomma, sembra necessaria una svolta epocale. Un’altra ancora? La sola parola ha un effetto scoraggiante. Questa volta, però, abbiamo un’occasione reale di dar vita a un capitalismo più equo e sostenibile. In passato, il capitalismo industriale ha garantito livelli di benessere tali da rendere praticamente impossibile attuare idee davvero nuove. La storia dimostra che, finché il sistema produce un numero sufficiente di vincenti, si è disposti ad accettare perfino le sue storture più evidenti.
Ma ormai le debolezze del sistema sono così evidenti che non c’è più bisogno di scomodare Marx o l’economista francese Thomas Piketty: la globalizzazione è fuori controllo, la ricchezza finisce quasi per intero in tasca al 10 per cento più ricco della popolazione, il consumo irresponsabile delle risorse rovina il pianeta e la finanza si abbandona a eccessi continui. Adam Tooze, storico dell’economia britannico, riassume così la situazione: “Benvenuti nel mondo delle policrisi”. Uno dopo l’altro si susseguono enormi problemi collegati tra loro: la crisi energetica, lo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti, il rischio di una guerra mondiale, l’attacco dei populisti e dei leader autoritari alla democrazia. Fino a poco tempo fa, per tutti questi problemi sarebbe stata proposta una sola soluzione: il mercato. Oggi chi ci crede più? Soprattutto alla luce del grande moltiplicatore di tutte le storture del sistema: la crisi climatica.
Cosa pensano i ragazzi
Di sicuro non ci crede più la maggior parte dei giovani. Nei paesi industrializzati cresce da anni una rabbia contro il capitalismo che non è di natura ideologica ma è riconducibile piuttosto all’esplosione del costo degli affitti e al fatto che comprare casa è ormai impensabile. Perché si dovrebbe accettare una macchina della prosperità che consuma risorse, ma non è più in grado di garantire benessere a tutti? Meglio lavorare solo quattro giorni alla settimana. In Giappone un giovane professore di filosofia è diventato una star grazie alla sua critica ecologica del capitalismo basata su Marx. Kohei Saito afferma che già centocinquant’anni fa il filosofo tedesco aveva individuato i pericoli a cui è esposto il pianeta: ora è il momento di prendere sul serio le sue proposte e fermare la crescita, passando a una distribuzione più equa della ricchezza esistente.
Di idee per un ordine economico più giusto e sostenibile, ma comunque basato sul mercato, ne circolano tante. Arrivano dagli schieramenti ideologici più diversi, eppure hanno un tratto in comune: meno mercato, più stato e meno crescita. Salta all’occhio il fatto che dietro ci sono spesso delle donne. Un ordine mondiale più femminile non sarebbe male.
In Germania gli ultimi trent’anni sono stati fantastici. Tra il 1995 e il 2019 i redditi delle famiglie tedesche sono aumentati del 25 per cento. Anche quella dell’economia è stata una storia di crescita costante con appena qualche piccola interruzione. Nel complesso, in tutti i paesi industrializzati dell’occidente si è andati sempre e solo avanti. Cifre e dati sembrano dimostrare che, a conti fatti, il capitalismo moderno funziona bene. Ma soprattutto tra i giovani con meno di trent’anni i sentimenti prevalenti sono frustrazione, rassegnazione, rabbia e un rinnovato amore per le idee del socialismo. Negli Stati Uniti il 49 per cento di chi ha tra i 18 e i 29 anni ha un’opinione positiva del socialismo. La deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, 32 anni, che si definisce una socialista democratica e vuole una tassa del 70 per cento sui redditi dei più ricchi, è una star che ha più di venti milioni di follower sui social network. Secondo un sondaggio realizzato per Der Spiegel dall’istituto demoscopico Civey, quasi metà dei tedeschi ritiene che sia stato il capitalismo a causare la crisi climatica nel mondo. L’Economist ha scritto che “il socialismo sta tornando alla carica”, perché fornisce critiche puntuali a tutto quello che è andato storto nelle società occidentali. E non è poco quello che è andato storto, osserva Carla Reemtsma, 24 anni, portavoce di Fridays for future in Germania. “Nessun paese al mondo è riuscito ad aumentare il pil e allo stesso tempo ridurre il consumo di risorse naturali”, dice Reemtsma. A lei e a molti suoi coetanei non stanno a cuore tanto le singole questioni politiche quanto il quadro generale: “Vogliamo una trasformazione profonda del sistema, che renda possibile una vita migliore per tutti e non solo per pochi”. E aggiunge: “Dovremmo tornare a occuparci delle cose per il bene della collettività. Prendiamo il traffico, per esempio: invece di sovvenzionare l’acquisto di auto, lo stato dovrebbe incentivare il carsharing, potenziare le ferrovie e le piste ciclabili. Insomma, dovrebbe fare cose da cui tutti possano trarre beneficio”. Secondo Reemtsma, un esempio positivo è il biglietto di nove euro per la rete ferroviaria e per il trasporto locale che il governo tedesco ha istituito quest’anno durante i tre mesi estivi: pensato come misura sociale redistributiva, era una buona idea anche dal punto di vista ambientale.
Reemtsma studia economia delle risorse a Berlino e non crede ai princìpi della crescita e della massimizzazione dei profitti. Immagina “un’economia orientata al bene comune”, sostenuta da una politica più attiva: “Quando affidiamo la tutela del clima al mercato, creiamo un problema sociale”. Reemtsma non condivide l’argomentazione degli imprenditori secondo cui gli alti costi necessari per una produzione più sostenibile metterebbero a repentaglio posti di lavoro: “Anche se realizzano profitti enormi, le case automobilistiche affidano le mansioni più semplici a lavoratori precari, che poi subiscono il dumping salariale”.
Possiamo considerare tutto questo semplicemente idealismo giovanile o attivismo di sinistra? Glenn Hubbard, professore di economia finanziaria alla Columbia business school, negli Stati Uniti, e in passato capo dei consulenti economici del presidente degli Stati Uniti George W. Bush, si esprime in modo molto simile: “Per avere successo nel lungo periodo un sistema economico deve migliorare il tenore di vita del maggior numero di persone possibile. Non mi pare che il capitalismo attuale abbia ampi margini per aumentare il benessere collettivo”. Invece produce ricchezza per pochi. Secondo il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (Diw, istituto per la ricerca economica), il 10 per cento più ricco della popolazione tedesca possiede più di due terzi della ricchezza nazionale, mentre la metà più povera è costretta ad accontentarsi dell’1,3 per cento. Anche per quanto riguarda la crescita dei redditi il divario si allarga: tra il 1995 e il 2019 il potere d’acquisto del 10 per cento più povero dei tedeschi è aumentato appena del 5 per cento, mentre il 10 per cento più ricco ha registrato un aumento del 40 per cento.
A questo si aggiungono tendenze a lungo termine da cui soprattutto le generazioni più giovani ricavano l’impressione che, per quanti sforzi facciano, è ormai impossibile realizzarsi. L’esplosione dei prezzi degli affitti rende proibitiva la vita nelle città. I giovani rischiano di dover prolungare la loro carriera lavorativa e allo stesso tempo veder diminuire le pensioni. Secondo un sondaggio, per tre quarti dei tedeschi tra i 18 e i 32 anni la riduzione delle pensioni è un motivo di preoccupazione: perché lavorare tanto se alla fine ci si ritroverà con un pugno di mosche in mano? La promessa delle generazioni precedenti – migliorare la propria condizione e raggiungere il benessere – appare ormai irrealizzabile.
Negli Stati Uniti la situazione è ancora più drammatica, dice Dalio. Per decenni la maggior parte dei redditi è rimasta praticamente ferma, mentre dal 1980, cioè dall’inizio dell’epoca neoliberista moderna, i redditi dell’1 per cento più ricco della popolazione sono quasi triplicati. Per risolvere il problema, Dalio propone la “redistribuzione”.
In Giappone
A undicimila chilometri dal quartier generale dell’investitore, vicino a New York, Kohei Saito, seduto in un piccolo studio all’università di Tokyo, in Giappone, ancora si stupisce di quello che il suo libro ha scatenato tra i giovani giapponesi. Saito, 35 anni, si considera parte di una generazione “fortemente influenzata dallo shock della crisi economica e dell’incidente nucleare di Fukushima”. Fin da quand’era studente, ha cercato di riflettere su questi due aspetti: l’ordine economico e la distruzione dell’ambiente. Ed è approdato a Marx. “In effetti Marx si è occupato molto più di quanto non si pensi delle conseguenze ambientali del capitalismo”, osserva Saito, che a questo argomento, nel 2016, ha dedicato la sua tesi all’università Humboldt di Berlino: Natura contro capitale. L’ecologia di Marx nella sua critica incompiuta del capitalismo.
Il risultato di decenni di mercati senza controllo è stata la crisi del 2008
La tesi ha suscitato un certo scalpore tra gli addetti ai lavori. Ma è stato ancora più stupefacente il fatto che alla fine del 2020 Saito ha scritto un libro su una nuova forma di ecosocialismo, interpretando la crisi climatica come “una manifestazione della produzione capitalista” in termini marxiani. Il collasso del pianeta potrà essere fermato solo da un sistema postcapitalista senza più crescita, in cui la produzione rallenta e la ricchezza è redistribuita in modo mirato.
Intanto in Giappone il suo Capitale nell’antropocene ha venduto più di mezzo milione di copie, una cifra raggiunta di solito da libri come Harry Potter. Da quando la tv pubblica Nhk ha dedicato all’interpretazione di Marx data da Saito un documentario in quattro puntate, nelle librerie di Tokyo le opere del filosofo tedesco – incluso Il capitale in versione manga – hanno una popolarità sorprendente. Perfino il premier giapponese Fumio Kishida ora promuove un “aggiornamento del capitalismo a una versione più sostenibile”.
Saito spiega il successo del suo libro con il fatto che in Giappone i suoi coetanei fanno da tempo i conti con l’instabilità economica e gli “eccessi della globalizzazione”. Sono aperti all’idea di un new way of life (un nuovo modo di vivere). Tutte le misure neoliberiste che promuovono la crescita, dalla deregolamentazione ai tagli allo stato sociale, si sono lasciate alle spalle divisioni sociali e instabilità. “Tra le giovani generazioni molti si chiedono perché mai dovrebbero continuare così, impostando la loro vita in base al lavoro, al guadagno e al consumo”, dice Saito.
La pandemia ha segnato una svolta: all’improvviso le abitudini sociali sono cambiate e molte persone, invece di andare in ufficio, sono rimaste a casa con la famiglia. L’appello di Saito per una cultura marxista della decrescita, con orari di lavoro ridotti e più attenzione a lavori meno orientati al profitto e con maggiore utilità sociale, come l’assistenza agli anziani e ai malati, ha centrato lo spirito dei tempi.
Ma davvero Marx, che ha scritto la sua critica del capitalismo centocinquant’anni fa, quando ancora sferragliavano le macchine a vapore, è in grado di fornire risposte all’altezza dell’attuale crisi ambientale? Secondo Saito, le risposte del filosofo sono in ogni caso migliori di quelle dei politici contemporanei.
Tutto il potere allo stato
Il quotidiano conservatore britannico The Times una volta ha definito Mariana Mazzucato “l’economista più temibile al mondo”. Di certo non voleva essere un complimento: è ovvio che chi propone di spodestare i mercati e la finanza per mettere lo stato alla guida dell’economia si faccia dei nemici, tanto più se si tratta di una donna intelligente che sa quel che dice. Mazzucato non si scompone. Anzi: essere preceduta da questa fama non è un problema, soprattutto per una persona che dialoga continuamente con capi di stato e di governo del calibro del presidente statunitense Joe Biden o del cancelliere tedesco Olaf Scholz. A dicembre Mazzucato è stata in Venezuela per una consulenza al presidente del paese sudamericano, poi ha partecipato a vari incontri della conferenza mondiale sul clima in Egitto, e infine è tornata per l’ennesima volta a Berlino. Italoamericana nata a Roma e cresciuta negli Stati Uniti, Mazzucato ha energie da vendere: così è diventata l’economista più influente del mondo. Tanti governi si rivolgono a lei perché li aiuti a stilare i green new deals, cioè i piani per ristrutturare in senso ecologico il sistema economico e industriale. E questo è a dir poco stupefacente. Negli ultimi decenni la maggior parte degli economisti e dei governi occidentali aveva le idee piuttosto chiare sulle gerarchie economiche mondiali: la rotta era decisa dal mercato. Quanto allo stato, più restava fuori dai giochi, meglio era. Mazzucato sostiene l’esatto contrario: da solo, il mercato non ha nessuna speranza di vincere le sfide del ventunesimo secolo, soprattutto quella della crisi climatica. Le aziende non hanno volontà, stimoli e visione d’insieme. “Lo stato deve indirizzare e porre obiettivi ambiziosi”, dice Mazzucato, deve fissare degli obiettivi sociali e concentrarvi tutte le forze. Per arrivare a un’economia a emissioni zero bisogna cambiare il sistema economico. Quando c’è la volontà dei governi è possibile, nel giro di un anno, far apparire dal nulla impianti di rigassificazione. Perché non dovrebbe essere possibile fare lo stesso con una nuova industria dell’energia solare?
Mazzucato ha 54 anni e da venticinque insegna economia, attualmente allo University college di Londra, nel Regno Unito. Grazie ai suoi studi sull’innovazione ha vinto numerosi premi. Quando sentono il suo nome, molti economisti alzano gli occhi al cielo, magari citando la famosa frase di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia: “I grandi progressi della civiltà non sono mai arrivati da un governo centrale”. La citazione, però, è del 1962, e poi Mazzucato non ha in mente né un’economia pianificata di stampo socialista né una politica industriale in cui la gestione delle aziende è in mano ai funzionari ministeriali. I suoi sono obiettivi ambiziosi. Ma, per raggiungere traguardi di questa portata, bisogna innanzitutto liberarsi della vecchia narrazione secondo cui lo stato serve solo a correggere i fallimenti del mercato. Ancora oggi ci si comporta come se di fatto fosse impossibile imprimere uno scopo e una direzione al capitalismo.
Ma come si fa? “È semplice”, spiega Mazzucato, “non bisogna limitarsi a indirizzare cautamente aziende e settori industriali in una certa direzione, bisogna obbligarli”. L’idea di incentivi come la tassa sull’anidride carbonica è buona, ma vuoi mettere l’obbligo per legge di usare esclusivamente cemento “verde”, magari compensato da aiuti economici all’industria? E poi i governi potrebbero vincolare gli aiuti di stato a una riduzione delle emissioni delle aziende, come ha fatto la Francia per i prestiti ad Air France durante la pandemia o per gli aiuti alla Renault.
Ma di misure simili ce ne sono poche. Secondo Mazzucato la colpa è di un “grande errore nel disegno” del moderno shareholder capitalism (basato sulla massimizzazione degli utili), che consente ai gruppi industriali di reinvestire i profitti non nell’innovazione ma nelle speculazioni e nel riacquisto di azioni proprie, a esclusivo vantaggio degli investitori.
Per Mazzucato “è una follia”. Lei vorrebbe uno stato imprenditore che spinga le aziende a puntare su obiettivi di ampio respiro. E il progetto che il ministro tedesco dell’economia Robert Habeck ha presentato all’inizio di dicembre sembra provenire direttamente da Mazzucato. Da quest’anno lo stato siglerà con l’industria i cosiddetti patti di tutela climatica: per un periodo massimo di quindici anni rimborserà i costi extra sostenuti da chi, nonostante le spese maggiori, si convertirà a una produzione verde. La misura è pensata soprattutto per spingere l’industria dell’acciaio, quella chimica, quella del cemento e quella del vetro verso un modello sostenibile. Quando le chiediamo che ne pensa, Mazzucato annuisce soddisfatta: “La strada è questa”.
Anche nelle aziende che si sono a lungo opposte a ogni intervento pubblico lentamente viene meno il riflesso condizionato che imponeva di tenere a distanza lo stato: le sfide sono semplicemente troppo grandi per affrontarle da soli. Per realizzare una svolta ecologica, osserva per esempio Martina Merz, amministratrice delegata della ThyssenKrupp, sono “irrinunciabili gli strumenti di sostegno statali”.
Sembra proprio che l’esperienza neoliberista sia arrivata al capolinea. Nei primi anni ottanta tutti gli schieramenti politici condividevano l’idea che i mercati da soli potessero garantire la migliore gestione dell’economia. Negli Stati Uniti l’avanguardia ideologica del neoliberismo è stata incarnata dal presidente repubblicano Ronald Reagan, ma la deregolamentazione e la globalizzazione sono state portate avanti nel modo più radicale dal presidente democratico Bill Clinton.
L’effetto diretto di decenni di mercati senza controllo è stata la crisi finanziaria del 2008, che ha segnato anche l’inizio della fine del neoliberismo. Gli enormi interventi statali che hanno salvato l’economia dal collasso “dovevano essere interpretati come segnali di un nuovo ordine che avrebbe sostituito il neoliberismo”, spiega Tooze. E il colpo di grazia potrebbe essere stata la pandemia: ancora una volta, per impedire il peggio, sono dovuti intervenire i governi. “È impossibile non accorgersi di essere arrivati a un punto di svolta”.
Questo aprirebbe la strada a una politica di bilancio mission oriented (basata sugli obiettivi), come la definisce Mazzucato. A partire dagli anni ottanta il pareggio di bilancio è stato un fine in sé per gli Stati Uniti e il Regno Unito, e ancora di più per la Germania. “Ora, però, Berlino ha stanziato 190 miliardi di euro per sostenere l’economia, mentre durante la pandemia gli Stati Uniti hanno speso cinquemila miliardi di dollari”, racconta l’economista. “Ci si chiede perché i soldi escano fuori di colpo solo nelle emergenze, mentre per questioni sociali importanti, come la sanità e l’ambiente, sembra sempre tutto impossibile perché bisogna tenere sotto controllo il debito pubblico”.
Totalmente sbagliato
Parlare di crescita zero nel quartiere finanziario di Londra sembra un’eresia: qui ogni edificio ospita un fondo d’investimento, e per strada si affrettano indaffarati banchieri in gessato e cravatta. In una piovosa giornata inglese di novembre, Tim Jackson guarda questa scena con un sorriso stanco. Non crede molto nella necessità d’individuare per forza un nemico, anche se lui stesso si presta bene a ricoprire questo ruolo. Economista, filosofo, professore alla University of Surrey, più di dieci anni fa Jackson ha scritto Prosperità senza crescita (Edizioni Ambiente 2017), una pietra miliare della critica moderna al capitalismo.
In questo saggio descrive l’economia come un sistema che “per sua natura deve far affidamento sulla presunta voracità dei bisogni umani, nella costante attesa di una crescita continua dei consumi”. Il capitalismo insinua che l’essere umano è inevitabilmente portato a desiderare sempre di più: più soldi, più proprietà e ancora altro. Sono tutte stupidaggini, dice Jackson. Solo gli economisti credono che questo sia l’unico modello possibile. “La buona notizia è che per ottenere la prosperità non serve alcun cambiamento radicale della natura umana”. La cattiva notizia, invece, è che “il nostro modello economico è totalmente sbagliato”.
Questi ragionamenti Jackson li aveva esposti al governo britannico già nel 2009. Alla domanda se davvero un paese moderno dovesse essere così asservito all’idea di una crescita costante, Jackson rispondeva di no. “Non la presero bene”, racconta: il premier dell’epoca, il laburista Gordon Brown, affossò il suo studio. Oggi, però, la questione è più attuale che mai: per evitare il collasso economico e la fine della prosperità è davvero necessaria un’espansione infinita in questo nostro mondo finito? A questa domanda l’economia classica generalmente rispondeva con un sì entusiasta. In assenza di crescita le imprese sono costrette a risparmiare licenziando e, di conseguenza, prima collassa il mercato del lavoro e poi i consumi. Nel migliore dei casi si approda alla stagnazione: gli standard di vita peggiorano, la ricchezza non aumenta. Nel peggiore dei casi parte una spirale di recessione permanente o di depressione. Insomma, rischi che nessun politico vorrebbe mai correre.
Solo che, se il pianeta continua a riscaldarsi a questo ritmo, non è chiaro per quanto tempo ancora la rinuncia alla crescita possa essere considerata una scelta volontaria. È proprio necessario che ogni anno ogni produttore di scarpe da ginnastica venda cinque milioni di paia in più? E che ogni anno ogni produttore medio di viti guadagni dieci milioni di euro in più? Ed è proprio necessario che il settore della vendita al dettaglio si abbandoni a un lamento collettivo ogni volta che a Natale il giro d’affari non cresce almeno del 3 per cento rispetto all’anno prima?
Secondo Jackson e altri critici la risposta è chiara: abbiamo a che fare con un “mito culturale della crescita”, costruito nel corso di quasi due secoli, che ha messo profonde radici nella psiche collettiva dei paesi industrializzati. Non l’ha scalfito neanche il primo, rumoroso colpo di avvertimento, esploso cinquant’anni anni fa. Nel marzo 1972 uscì I limiti dello sviluppo, il primo ampio studio sugli effetti dell’espansione umana, commissionato dal Club di Roma. Per realizzarlo i ricercatori usarono nuovi modelli informatici che produssero un risultato chiarissimo: le risorse del pianeta non avrebbero consentito una crescita costante dell’economia e della popolazione oltre il 2100. Per l’essere umano e per l’ambiente si prospettavano conseguenze drammatiche. Le conclusioni della ricerca, sommersa dalle critiche, sono state rifiutate anche nei decenni successivi, nonostante le conferme date da nuovi calcoli.
Oggi, però, il fronte degli scettici si sta ammorbidendo. “In fondo le cose non dipendono dalle dimensioni complessive di un’economia nazionale”, spiega il premio Nobel per l’economia Robert Solow. “Se la maggioranza di una popolazione decide di ridurre la sua impronta ecologica, consumando meno beni materiali e puntando di più su tempo libero e servizi, dal punto di vista economico non ci sono ostacoli”. Tuttavia, avverte Solow, nel periodo di transizione bisognerebbe farsi carico delle conseguenze di questa decisione, a cominciare dall’aumento della disoccupazione e dalla contrazione dei redditi.
Per questo sono pochi gli economisti che vorrebbero azzerare la crescita. Piuttosto si pensa a rinunce più limitate, in particolare a una separazione della crescita buona da quella cattiva. Si potrebbe incentivare una crescita significativa nel settore delle rinnovabili, per esempio, e ridimensionare l’industria petrolifera. Già si vedono i primi successi. Di recente in trenta paesi le emissioni di anidride carbonica sono diminuite mentre l’economia è cresciuta. Ma per salvare il pianeta non basta, dice Jackson. E allora perché non accettiamo il fatto che nei paesi industrializzati la crescita economica contribuisce limitatamente alla qualità della vita?
Anche per ragioni geostrategiche, probabilmente: gli europei e gli statunitensi non vogliono stare a guardare mentre l’espansione della Cina e di altri regimi autoritari procede a gran velocità. D’altro canto, però, dal 2000 l’eurozona è cresciuta in media di poco più dell’1 per cento all’anno. “In occidente la crescita sta per esaurirsi”, dice Jackson. E questo dovrebbe bastare per cominciare a ragionare su altri sistemi possibili.
In effetti, un numero sempre maggiore di aziende cerca di trovare la propria strada in un’epoca in cui la crescita non è più l’obiettivo principale. In una dichiarazione congiunta di tre anni fa le duecento maggiori aziende statunitensi hanno annunciato che in futuro non risponderanno più solo agli azionisti ma alla società intera. Per il Business roundtable, la confederazione aziendale più potente del mondo, che comprende molti gruppi come la Apple e la Goldman Sachs, è stato un passo importante. Fino a quel momento le imprese pensavano di dover rispondere solo agli azionisti, fedeli alla famosa massima di Milton Friedman: “La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti”.
Bisogna aspettare per capire se si tratta solo di trovate pubblicitarie o se invece sono dichiarazioni da prendere sul serio. Non tutte le aziende adotteranno comportamenti sostenibili come quelli della Patagonia, colosso statunitense degli articoli sportivi, che reinveste tutti i profitti nella tutela dell’ambiente. Ma anche i piccoli passi sono utili: la sua concorrente Adidas, per esempio, dal 2024 produrrà scarpe e vestiti senza usare poliestere di nuova produzione, ma solo fibre sintetiche riciclate.
Un passo in più lo fa la svizzera Freitag, che ogni anno vende quattrocentomila tra borse e portafogli in venticinque paesi. La cifra non dovrebbe aumentare più di tanto in futuro, semplicemente perché l’azienda ha deciso di accontentarsi. Il motto che finora andava per la maggiore – “più in alto, più veloce, più lontano” – non è più “il nostro primo obiettivo”, spiega Daniel Freitag, fondatore dell’azienda insieme al fratello Markus. I due vogliono che “tutti siano soddisfatti e vivano bene del proprio lavoro”. Secondo i Freitag “il turbocapitalismo non riesce più a offrire le risposte giuste” e produce danni eccessivi: le cose possono funzionare anche a ritmo più lento, più equilibrato e “più sano per tutti”.
Già negli anni novanta, dopo i primi successi aziendali, i due fratelli stilarono un piano in cui parlavano di qualità e longevità, dell’introduzione dell’economia circolare. Da anni, da ben prima che i grandi gruppi commerciali e le multinazionali della moda ne facessero una strategia di marketing, i Freitag offrono la possibilità di rimandare indietro le borse usate per farle riparare a prezzo di costo. Il servizio è usato da migliaia di clienti ogni anno. Loro non ci guadagnano nulla, spiega Daniel Freitag. Secondo i due fratelli non è solo la crescita dei profitti a definire “il successo” di un imprenditore.
Ripartire dalle persone
A prima vista Eva von Redecker e Minouche Shafik non sembrano avere molto in comune. Anzi, in teoria dovrebbero essere agli antipodi. Redecker, tedesca, filosofa femminista con un debole per Marx, cresciuta in una fattoria biologica, è l’avanguardia intellettuale dei movimenti di protesta ed è convinta che ci sia uno stretto legame tra l’oppressione razziale e il dominio capitalista. Shafik, economista pragmatica, baronessa, membro della camera dei Lord britannica, è stata vicepresidente della Banca mondiale e ora dirige la London school of economics, fucina di quadri capitalisti. Ma forse una peculiarità di questi tempi di svolte epocali è proprio il fatto che da punti di partenza diversi si arrivi a conclusioni simili. “Oggi in molti paesi le persone sono deluse dal contratto sociale e dalla vita che garantisce, anche se la ricchezza è incredibilmente cresciuta negli ultimi cinquant’anni”, spiega Shafik, che ha studiato a Oxford. “Il capitalismo distrugge la vita”, dice Redecker, che si è formata a Cambridge. Entrambe credono che per una buona convivenza servano nuove regole e riforme pensate a partire dalle persone, non dal mercato. Sull’argomento Shafik ha scritto il libro Quello che ci unisce (Mondadori 2021), mentre Redecker ha pubblicato Revolution für das Lebene (Rivoluzione per la vita).
Poi, certo, ognuna ha le sue ricette: Shafik avanza proposte politiche concrete, Redecker esprime idee più radicali e, da filosofa, si rifiuta di delineare come i possibili cambiamenti possano avvenire in concreto. A lei importa soprattutto mettere in discussione una certezza: che il capitalismo nella sua forma attuale possa ancora avere un futuro. Lo ritiene inseparabile da una precisa forma di proprietà che implica il diritto all’abuso: per secoli il signore feudale ha regnato sulla terra e su chi l’abitava. E se il dominio assoluto del feudalesimo è stato superato, lo sfruttamento si è concentrato altrove: la schiavitù dei neri o la svalutazione del lavoro femminile. Tutto è collegato e, proprio per questo, la trasformazione dev’essere simultanea: bisogna cambiare allo stesso tempo i rapporti di proprietà, le relazioni di genere e quello che Redecker chiama “esaurimento della natura”.
In risposta a queste sfide, Redecker immagina un “socialismo per il ventunesimo secolo” che parta da Marx per andare oltre Marx, una specie di “comunità di chi condivide”, capace di liberarsi di una serie di problemi legati tra loro: troppo lavoro stancante, sfruttamento selvaggio delle risorse, dominio della proprietà. “Invece di vendere le merci potremmo condividerle”, dice. “Potremmo prenderci cura di quanto ci è stato affidato invece di sottometterlo al nostro dominio”. Non è un caso, secondo Redecker, che oggi alla guida dei movimenti di protesta – da Fridays for future a Black lives matter, dalla Bielorussia del 2020 all’Iran – ci siano soprattutto donne: “Per secoli le donne sono state intimamente legate alla gestione del quotidiano, al lavoro di cura, alle fondamenta della convivenza. Le donne partorivano i bambini, cioè fabbricavano la vita, mentre gli uomini fabbricavano le merci”. Il lavoro delle donne seguiva i bisogni delle persone, non le esigenze del mercato. Forse è per questo che oggi le donne hanno più chiaro degli uomini che qui è in gioco la sopravvivenza dell’umanità.
Istruzione e infrastrutture
Shafik ha idee concrete su come garantire non solo la sopravvivenza, ma anche la convivenza. Come molti, ritiene che la leva principale sia una diversa concentrazione dei flussi di denaro, solo che secondo lei bisogna garantirla attraverso un maggiore sviluppo dello stato sociale. “Se si limita a redistribuire, lo stato ha già fallito”, spiega. Lo stato deve “pre-distribuire” investendo molto di più nell’istruzione, nelle infrastrutture e in ogni possibile forma di pari opportunità. “In tutti i settori gli investimenti devono avvenire il prima possibile, soprattutto per chi è più svantaggiato. Tutto questo favorisce un’economia più produttiva”. Per esempio, ogni persona potrebbe ricevere alla nascita un contributo statale di cinquantamila euro da usare per l’istruzione nell’arco di tutta la vita. Oppure si potrebbe garantire “l’assistenza totale e a basso costo dei giovani”, dalla scuola materna alla maturità. “I dati parlano chiaro: è lo strumento più importante per garantire pari opportunità. Vanno risolti anche gli squilibri nei sistemi fiscali che favoriscono il capitale e penalizzano il lavoro”.
Tutto questo non è una novità, lo sa bene anche Shafik. Le grandi leve – imposte, pensioni, istruzione – influenzano il modo in cui viviamo e quindi la qualità della vita e del lavoro. Eppure, secondo lei, nessuno ha il coraggio di metterci mano: “Nella maggior parte dei paesi industrializzati ci comportiamo come se il mondo non fosse cambiato”. Ecco perché è arrivato il momento di imprimere una nuova direzione al modello capitalista nella sua interezza. “E probabilmente è un cambio di rotta radicale”, dice Shafik. Il che, ormai, sembra più una promessa che una minaccia. ◆ sk
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati