Nel 2017 Esther Hernández ha lasciato il Venezuela per andare in Colombia con il marito, tre figlie e una macchina da cucire. L’anno dopo il marito è partito per il Cile alla ricerca di un lavoro e ha trovato un impiego nel settore edile a Puerto Montt, a ottomila chilometri. Intanto Esther ha avviato un’attività di sartoria. Dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno in Colombia e aver risparmiato, la sua famiglia ha comprato un appezzamento di terra a El Zulia, vicino al confine venezuelano. Oggi, più di sei anni dopo, il marito sta per tornare a casa.
Sentendo parlare i politici statunitensi si potrebbe pensare che ogni migrante in America Latina sia diretto verso gli Stati Uniti. Ma oggi le storie degli emigrati latinoamericani somigliano sempre più spesso a quella di Hernández. Tra il 2015 e il 2022 il numero di migranti intraregionali in America Latina e nei Caraibi è passato da sette a quasi tredici milioni. Nello stesso periodo il numero di quelli che dall’America Latina sono andati negli Stati Uniti è aumentato solo di un milione. Oggi circa otto milioni di venezuelani vivono fuori del paese e nell’85 per cento dei casi risiedono in America Latina e nei Caraibi. A loro si aggiungono i nicaraguensi, che scelgono spesso la Costa Rica. Gli haitiani, in fuga dalla violenza delle bande armate, si stabiliscono in Cile e nella Repubblica Dominicana.
La Colombia, che confina per più di duemila chilometri con il Venezuela, ospita più di 2,8 milioni di venezuelani: nel 2017 il governo di Bogotá ha inaugurato il primo di una serie di programmi per garantirgli l’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, e un permesso di lavoro di due anni. Nel 2021 le autorità hanno esteso ai venezuelani arrivati prima del mese di febbraio quasi gli stessi diritti dei colombiani, anche nei casi in cui fossero entrati nel paese senza documenti. Queste misure durano dieci anni e danno una via preferenziale al permesso di soggiorno e alla cittadinanza. Quasi due milioni di venezuelani hanno ricevuto una nuova carta d’identità e altre 350mila richieste sono in fase di esame. L’accoglienza calorosa della Colombia è evidente nel centro Abrazar di Bogotá, una struttura per bambini migranti finanziata dal comune, gratuita e aperta tutto l’anno. I dipendenti aiutano i nuovi arrivati a compilare i documenti per registrare i figli nel sistema scolastico della città.
La presenza degli immigrati non ha provocato un aumento sensibile della disoccupazione. Gli stipendi dei lavoratori meno qualificati si sono ridotti in Brasile, Colombia ed Ecuador, ma è stata una flessione leggera e temporanea. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, dal 2017 gli immigrati venezuelani hanno fatto aumentare il pil in media dello 0,1 per cento in paesi come Panamá, arrivando allo 0,2 per cento in Colombia.
Gli ospedali e le scuole sentono sicuramente il peso dei flussi migratori, soprattutto in Colombia. Nel 2019, secondo l’Fmi, il paese ha speso lo 0,5 per cento del pil per i migranti. Oggi la percentuale si è attestata intorno allo 0,3 per cento. Questi costi saranno bilanciati nel tempo dall’aumento degli introiti fiscali dovuto all’accesso al mercato del lavoro dei migranti più giovani. La regolarizzazione tempestiva è importante, perché riduce le spese sanitarie e favorisce le entrate fiscali.
I più esposti ai pericoli
Molti abitanti dei paesi dell’America Latina, soprattutto cileni, pensano che l’immigrazione faccia aumentare la criminalità. Uno studio condotto da Nicolás Ajzenman della McGill university, che ha esaminato i dati tra il 2008 e il 2017, ha rilevato che quando la presenza di immigrati in una zona del Cile raddoppia, la percentuale di persone per le quali la criminalità diventa una delle maggiori preoccupazioni aumenta di 19 punti, rispetto alla media nazionale del 36 per cento. Tuttavia nello stesso arco di tempo non è stato rilevato un cambiamento reale nelle cifre del crimine. Nel 2016, in una fase di crescita dell’immigrazione, sono aumentati i crimini violenti vicino al confine. Le vittime erano soprattutto venezuelane, quindi significa che i più esposti al pericolo sono soprattutto i migranti.
In Cile l’arrivo di haitiani neri ha fatto emergere “un razzismo sempre più forte”, sottolinea Ignacio Eissmann, dell’ong Servicio jesuita a migrantes Chile. Anche in Perù e in Ecuador l’ostilità verso i migranti è in aumento. I governi, inizialmente favorevoli all’accoglienza, sono sottoposti a una pressione enorme. Dal 2018 le autorità cilene chiedono che i venezuelani e gli haitiani ottengano un visto prima di entrare nel paese. Il Perù e l’Ecuador hanno fatto lo stesso nel 2019. Ma oggi è praticamente impossibile per i venezuelani avere un visto in patria: dopo la contestata vittoria di Nicolás Maduro alle elezioni del luglio 2024, i tre paesi hanno chiuso le rispettive ambasciate in Venezuela.
Cambio di rotta
Nel Cile del presidente Gabriel Boric il processo di regolarizzazione si è fermato. Il governo del Perù ha reso più difficile le procedure per la regolarizzazione. In teoria i migranti bambini possono frequentare comunque le scuole, ma in pratica l’assenza dei documenti richiesti ne impedisce l’iscrizione. Brasile e Colombia mantengono un atteggiamento complessivamente generoso. Secondo Carlos Fernando Galán, sindaco di Bogotá, i leader politici hanno la responsabilità di “combattere la xenofobia e mostrare i benefici portati dall’immigrazione”.
Ma le voci ostili sono sempre più rumorose. Forse è per questo che il presidente Gustavo Petro ha introdotto un nuovo meccanismo di regolarizzazione per i venezuelani (anche se di recente ha annunciato un sistema così restrittivo che pochissimi potranno beneficiarne). “Il governo centrale ha invertito la rotta”, afferma la venezuelana in esilio Gaby Arellano che collabora con la ong Juntos se puede.
In Venezuela il governo di Maduro sta diventando sempre più autoritario. Il numero di venezuelani emigrati in Colombia è aumentato negli ultimi mesi, anche se le cifre ufficiali sono poco affidabili. C’è poi chi sostiene che la permanenza di Maduro al potere non abbia tutto questo impatto sui flussi migratori.
“In ogni caso sapremo affrontare la situazione”, dice Jorge Acevedo, sindaco della città di confine di Cúcuta. È evidente comunque che la gestione dei migranti ricadrà sulla Colombia, sul Perù e sugli altri paesi della regione più che sugli Stati Uniti. ◆as
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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati