Nel mondo di Chang Hanyoo, i fiori sorridono, in cielo volano palloncini a forma di cuore e un albero amico tiene tra i suoi rami un regalo. È così che la bambina di sette anni ha ritratto il villaggio di Seokjang, in Corea del Sud, in un disegno coloratissimo, ottimista e allegro. Però non c’è neanche una persona: la natura è praticamente sola. È questa la Corea del Sud che vede dalla finestra un’alunna della scuola elementare quando guarda l’entroterra della cosiddetta tigre asiatica che rimpicciolisce sempre più?
Chang Hanyoo rappresenta il futuro della decima economia del mondo, ma al tempo stesso è una rarità. A febbraio l’istituto nazionale di statistica sudcoreano ha reso noti i dati sulle nascite del 2021, che segnano nuovi record negativi: appena 260.500, 11.800 in meno del 2020. Il numero di nascite per mille abitanti è sceso da 5,5 a 5,1. Il tasso di fecondità totale (tft), cioè il numero medio di figli che una donna partorisce nell’arco della vita, è passato da 0,84 a 0,81. Sono i dati di gran lunga peggiori fra tutti i 38 stati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). La Germania ha un tft di 1,6, il Giappone di 1,37.
Le cifre raccontano tutte la stessa storia: la Corea del Sud, patria del K-pop e dell’internet superveloce, sta invecchiando più rapidamente di qualsiasi altro paese. La Banca di Corea prevede che entro il 2045 la Corea del Sud diventerà la più anziana del mondo, superando il Giappone. Tutti i paesi ricchi conoscono il fenomeno del cambiamento demografico, ma la società sudcoreana sembra mettere a rischio il suo futuro in modo costante, incurante della mancanza di giovani, della chiusura delle scuole, della scomparsa dei villaggi, della mancanza di lavoratori qualificati, della precarietà delle pensioni. Come mai?
Perfino Hanyoo, a sette anni, si accorge che qualcosa non va nel suo paese, perché le manca una cosa fondamentale: dei vicini di casa della sua età con cui passare il tempo. Lo conferma sua madre, Chang Eunkyung, 41 anni: “Qui non ci sono altri bambini con cui giocare”.
Seokjang si trova tra le colline e il fiume Namhan nella contea di Yangpyeong, non molto lontano da Seoul: sono una sessantina di chilometri, abbastanza perché nessuno ci si trasferisca. Intorno a Seokjang ci sono alcune belle ville di campagna; la pista ciclabile che corre lungo la sponda del fiume passa accanto al keyaki centenario, l’albero che rappresenta la maggiore attrazione del luogo. Il resto sono risaie, serre e qualche casa, spesso dall’aspetto poco solido. La scuola elementare locale è stata chiusa nel 1996 e oggi l’edificio ospita un laboratorio di strumenti musicali tradizionali. L’età media nel villaggio supera i sessant’anni.
La casa dei Chang è visibile da lontano. Colpisce la facciata scura e ben curata. Accanto ci sono una stalla cadente per le vacche e le rovine di una casa abbandonata. “Abbiamo deciso di trasferirci qui soprattutto per ragioni economiche”, spiega il padre di Hanyoo, Chang Yongjune, 44 anni. Il terreno aveva un costo accessibile e lui non voleva abitare troppo lontano dall’azienda in cui lavora. È un artigiano della lacca e usa un metodo vecchio di secoli per decorare piccole cassettiere e altri oggetti con lacche naturali e madreperla.
Non è certo colpa dei Chang se la Corea del Sud è in piena crisi demografica: anzi, grazie a loro dal febbraio 2021 Seokjang ha 151 abitanti invece di 150. La figlia più piccola, Hani, siede sulle ginocchia di Yongjune ed è tutta assorta a giocare con la sua borraccia. È la seconda persona più giovane del villaggio. Yongjune si è costruito un laboratorio in casa, quindi è un padre presente. La moglie Eunkyung, dopo la laurea in storia dell’arte e archeologia all’università di Bonn, in Germania, è tornata in Corea del Sud e l’ha seguito in questa terra di nessuno. Oggi insegna arte in una scuola materna. Vicino a casa? “Abbastanza, a Yangpyeong”, dice sorridendo. In realtà, qui vicino non c’è proprio nulla.
Ma in Corea del Sud le persone come lei sono davvero poche. Quando era incinta di Hani e sono cominciate le doglie, è dovuta salire in macchina con il marito per raggiungere Bundang, a un’ora e mezza di strada. Il reparto maternità più vicino, nella contea di Yangpyeong, aveva chiuso l’anno prima. Per mancanza di nascite: nel 2019, racconta Chang, lì era nato un solo bambino. La coppia ricorda ancora i dubbi che parenti e amici hanno sollevato sulla sua scelta.
Eunkyung è nata a Seoul. Quando è tornata, quasi nessuno capiva la sua decisione. “Mi hanno fatto tante di quelle domande”, dice in tedesco. “Perché tornare in Corea? Perché a Yangpyeong? Hai studiato in Germania, puoi continuare a studiare e trovare un lavoro migliore”. Nessuno riusciva a capire che a volte i sentimenti sono più forti dei calcoli. Lei stessa ha difficoltà a spiegare le sue ragioni, e ride imbarazzata. “A quel tempo, non so”. Cerca le parole. “Forse per lui”. Per il ragazzo smilzo conosciuto alla scuola d’arte di Seoul che aveva investito il suo talento in una professione antica.
Dice Yongjune, poco dopo: “Forse la gente pensa che siamo fuori dagli schemi, o magari dei perdenti”. Lui però è convinto di aver trovato la felicità in questo idillio campestre. E poi, cos’è questo sogno coreano di fare fortuna nella capitale? È davvero un sogno? O piuttosto una maledizione, a causa della quale la fiera tigre asiatica sta gradualmente perdendo il suo potere?
Giovani salmoni
Il cambiamento demografico in Corea del Sud non è solo più rapido che altrove: sta avvenendo in modo diverso. In Germania i giovani si trasferiscono nella città più vicina, in Giappone, negli enormi agglomerati urbani di Osaka e Tokyo. In Corea del Sud, invece, anche Busan, la seconda città per numero di abitanti, 3,4 milioni, si sta restringendo. Secondo dati del governo citati dalla stampa locale, tra il 2011 e il 2020 ha perso 160mila abitanti. La tendenza è inequivocabile. Chiunque voglia fare carriera si trasferisce a Seoul o, almeno, nella sua periferia, la provincia di Gyeonggi: nella cosiddetta grande Seoul abitano più di 25 milioni di persone. “Volersi trasferire a Seoul è nel nostro dna”, afferma un portavoce ministeriale, “siamo come giovani salmoni nei fiumi attratti dal mare”.
Per i sudcoreani studiare in una prestigiosa università di Seoul è uno status symbol, che apre tutte le porte. “In Corea del Sud ti fanno sempre tre domande”, dice il portavoce del ministero. “Da dove vieni? Che università hai frequentato? Per chi lavori?”. E chiunque possa affermare di abitare a Seoul, di aver studiato all’università nazionale di Seoul e di lavorare nella pubblica amministrazione è molto apprezzato. Mentre un artigiano della lacca di Yangpyeong con una laurea in arte è più probabile che sia considerato un fallito.
Seoul è una giungla di calcestruzzo e mattoni, affascinante, confusa, piena di contraddizioni. Vicoli ripidi e tortuosi. Dimensioni da città cosmopolita. Templi storici fra strade a più corsie e grattacieli grigio acciaio. In alcune stazioni della metropolitana le pubblicità sfarfallano su enormi schermi piatti. Standogli di fronte, nel bel mezzo di quella tempesta di colori, si ha l’impressione di trovarsi in un altro mondo, che danza leggero e disinvolto. Ma per chi non ha né denaro né prestigio, qui la realtà è dura. Tutti lo sanno e non augurano a nessuno di farci i conti.
Negli ultimi anni a Seoul gli affitti sono aumentati al punto che non ci si può più permettere una casa grande abbastanza per una famiglia
“Le ragioni della bassa natalità sono molte”, afferma il demografo Cho Youngtae, “ma la più importante è quella psicologica. È la sensazione di dover competere con gli altri”. Cho dirige il centro di ricerca sulle politiche demografiche dell’università nazionale di Seoul. Seduto a un tavolo delle riunioni, nel campus dell’università più prestigiosa della Corea del Sud, non dà l’impressione di essersi mai lasciato prendere dall’ansia da prestazione. Probabilmente è proprio questa calma che gli permette di considerare obiettivamente le cifre e le decisioni dei suoi connazionali. “Sono nato nel 1972. Quell’anno in Corea del Sud sono nati circa 950mila bambini, quasi il quadruplo rispetto al 2021”, dice. “In nessun’altra parte del mondo si è assistito a un calo così brusco delle nascite nel giro di cinquant’anni”.
Meglio degli altri
Per spiegare il fenomeno bisogna fare un passo indietro. “Diciamo che questo è un paese isolato con una certa quantità di risorse alimentari e d’altro genere”. Finché la popolazione resta entro certi limiti, le persone possono dividersi tra loro le risorse e, non dovendo preoccuparsi della sopravvivenza, scelgono di fare figli. Ma quanto più la popolazione aumenta tanto più le risorse scarseggiano, e la competizione per assicurarsele si fa più feroce. Cresce la preoccupazione per la propria sopravvivenza, quindi avere figli diventa un rischio. “Dei 51 milioni di sudcoreani, il 52 per cento vive e lavora nell’area metropolitana di Seoul”, spiega Cho, “e nella fascia tra i 20 e i 39 anni, contando anche chi vive qui ma non ha la residenza, si arriva quasi al 60 per cento”. Ma il numero di posti nelle università prestigiose è limitato. E poiché i baby boomer, nati nel secondo dopoguerra, non sono ancora andati in pensione, scarseggiano anche i lavori ben retribuiti.
La reazione naturale sarebbe trasferirsi in altre città. Ma è qui che entra in gioco il fattore psicologico: il desiderio incontenibile dei sudcoreani di primeggiare. “È insito nel nostro sistema educativo”, dice Cho, “e non ci sono eccezioni”. Nelle scuole del paese, ogni esame assegna un punteggio che determina una graduatoria di ragazze e ragazzi. “Dobbiamo misurarci ogni giorno”, dice una ragazza che si è trasferita a Seoul da Daegu. Tutto questo influisce sulla mentalità. “I coreani cercano l’autoaffermazione confrontandosi con gli altri in base a criteri misurabili”, dice Cho. Ecco perché a Seoul lo status e la carriera sono così importanti. E perché molti giovani rinunciano ad avere figli. Negli ultimi anni a Seoul gli affitti sono aumentati al punto che non ci si può più permettere una casa grande abbastanza per una famiglia. I giovani vedono quanto investono le coppie con figli nei corsi di lingue e tutoraggio che li prepararino alla competizione per i posti migliori.
“Il sistema delle graduatorie esisteva anche quando noi eravamo giovani”, dice Chang Yongjune, “ma non era così duro”. E infatti la competizione ha talmente stressato la moglie Eunkyung da spingerla ad andare a studiare all’estero. Oggi desidera che le sue figlie crescano più libere. In un villaggio dovrebbe essere possibile.
Ci sono anche altre persone che qui si sono ritrovate. Per esempio l’agricoltore Lee Dongjin, 53 anni, che abita a poche centinaia di metri di distanza, sull’altura accanto alla casa abbandonata e a un impianto solare. Dalla sua porta d’ingresso si capisce che un tempo anche lui abitava a Seoul: l’ha decorata con una riproduzione della Notte stellata di Van Gogh. “A Seoul ho trovato l’arte”, dice, ma poco altro.
Lee Dongjin è cresciuto a Seokjang quando nel villaggio i bambini erano molti, e ha frequentato la scuola elementare in cui oggi si costruiscono gli strumenti musicali. Ma dato che tutti parlavano di Seoul, a vent’anni ha fatto le valigie: “Volevo guadagnare di più”. È andato a lavorare per un’azienda che vende fiori. All’inizio la vita in città gli piaceva: andava in giro, scopriva i musei, aveva una ragazza. Ma non si è mai sentito veramente capito, quella massa di persone lo faceva sentire solo: “Tutto mi sembrava frenetico e insieme noioso”. A 37 anni è tornato, si è sposato e ora coltiva peperoni coreani e basilico: “Qui posso essere me stesso”.
Tuttavia, la maggior parte dei coreani conosce solo la corsa alla carriera in una classica professione borghese come quella di avvocato, oppure in una delle grandi aziende come la Samsung o la Hyundai. Per queste persone non esiste altro. Ma allora, come fare perché in Corea del Sud tornino a nascere bambini?
Prima delle elezioni presidenziali del 9 marzo, vinte dal conservatore Yoon Suk-yeol, i principali candidati hanno rivolto questa domanda al demografo Cho Youngtae. “Ho risposto che dovrebbero rendere città come Busan più attraenti per i giovani”, racconta. Tra dieci anni, quando andranno in pensione le ultime generazioni numerose, la competizione dovrebbe diminuire. “Ma solo se i sudcoreani smetteranno di voler vivere e lavorare tutti nell’area metropolitana di Seoul”, spiega. Insomma, o rallenta il flusso di persone verso la capitale oppure l’equilibrio sociale si romperà definitivamente. L’altra raccomandazione dello studioso è prepararsi ad aumentare l’età pensionabile da 60 a 65 anni entro il 2030, sapendo però che servirà solo a contrastare la carenza di manodopera, ma non a far aumentare il tasso di natalità.
Via dalla vita frenetica
“Secondo me dobbiamo ripensare l’impostazione della nostra educazione”, dice Chang Yongjune. Lui è cresciuto nel villaggio di Beolgyo, nella parte meridionale del paese, quella più in declino; ma sa bene che all’altro capo della Corea del Sud c’è vita. Sua moglie è d’accordo, anche se, essendo nata a Seoul, non può fingere di non conoscere l’istinto sudcoreano. A volte, spiega, riflettendo su quello che avrebbe potuto essere della sua vita, prova una certa preoccupazione. Le scuole superiori sono più lontane dal villaggio rispetto alle elementari. Cosa resterà quando gli anziani del posto moriranno? “Però sono contenta”, precisa, “non volevamo una vita frenetica”. Siede accanto a Yongjune nel soggiorno, tra pastelli e libri per bambini, mentre la figlia più piccola, Hani, è alle prese con una confezione di gallette di riso.
La più grande, Hanyoo, ci spiega perché ha disegnato un albero con un regalo tra i rami: “Nella scatola ci sono i fuochi d’artificio”. Ogni giorno, le bambine sentono cantare il gallo del vicino. C’è poco traffico per strada, quindi Hanyoo può già andare in giro in bicicletta, mentre “a Seoul”, osserva la madre, “i bambini vanno in triciclo fino a otto anni”.
E i fiori che disegna, li ha visti con i suoi occhi lì fuori. ◆ ma
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Questo articolo è uscito sul numero 1466 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati