Era il 29 luglio 2019, il peggior giorno della mia vita, anche se non lo sapevo ancora. Nel centro di Washington le macchine avanzavano a passo d’uomo, mentre l’umidità entrava dai finestrini dell’auto. Ero in ritardo e facevo fatica a restare sveglio. Da due settimane giravo tra canali tv ed emittenti radio della costa est degli Stati Uniti per promuovere il mio libro, che raccontava la trasformazione del Partito repubblicano e l’ascesa di Donald Trump alla presidenza del paese. Quel giorno mi mancava l’ultima intervista prima di andare a casa. Il mio editore mi aveva proposto di cancellarla, dicendo che non era così importante. Ma mi ero rifiutato, perché per me lo era. Arrivato sulla M street northwest mi sono affrettato per entrare negli uffici del Christian Broadcasting Network.
Nel giro di pochi minuti i produttori mi hanno preso lo smartphone, mi hanno piazzato addosso un microfono e mi hanno catapultato nello studio dove mi aspettava John Jessup, il conduttore della trasmissione. Siamo andati in onda e Jessup ha saltato i convenevoli. Visto che il programma si rivolgeva principalmente a spettatori cristiani, voleva sapere cosa avevo imparato sull’alleanza tra il presidente e i cristiani evangelici bianchi. Nel 2016, durante la campagna elettorale, Donald Trump si era comportato in modo osceno e pericoloso: aveva preso in giro un disabile, insultato gli immigrati e incitato ripetutamente alla violenza contro i suoi avversari politici. Eppure la grande maggioranza dei bianchi evangelici (81 per cento) aveva votato per lui. Quella statistica in realtà era solo un indicatore superficiale di un cambiamento radicale. I sondaggi indicavano che gli evangelici di orientamento conservatore, in precedenza titubanti su Trump, erano ormai tra i suoi sostenitori più fedeli. Jessup mi ha rivolto la domanda che si facevano milioni di americani: perché?
Tra due estremi
Da credente e figlio di un pastore evangelico, cresciuto in una chiesa conservatrice in una comunità conservatrice, cercavo da tempo una risposta convincente. Conoscevo molti cristiani che avevano votato per Trump, con più o meno entusiasmo, e non c’era modo di riassumere in un’unica definizione le loro posizioni, le loro motivazioni e i loro comportamenti. Li vedevo come punti in uno spettro: a un’estremità c’erano i cristiani che, pur votando per Trump, avevano mantenuto una dignità, consapevoli che il sostegno pragmatico e prudente a un candidato non corrispondeva necessariamente a un’accettazione incondizionata dei suoi comportamenti. All’estremo opposto c’erano i cristiani che avevano perso ogni credibilità e si vantavano di essere degli ipocriti reazionari: persone che erano ancora indignate per l’infedeltà del presidente Bill Clinton ma giustificavano gli atteggiamenti da playboy di Trump.
Gran parte dei cristiani che conoscevo era a metà tra i due estremi. Erano in qualche modo stati sedotti dal culto del trumpismo, ma non sarebbe stato giusto farli rientrare tutti in un un’unica caricatura. La verità era che stava succedendo qualcosa a un livello profondo, sia nel paese sia nella chiesa evangelica. Qualcosa che non avevamo mai visto prima.
Avevo cercato, con molta cautela, di dirlo nel mio libro. Quel giorno di fine luglio, nello studio televisivo, stavo provando a fare lo stesso.
Jessup si è accorto che ero in difficoltà. Allontanandosi dal motivo per cui mi trovavo lì, la promozione del libro, mi ha chiesto un parere su una recente polemica scoppiata nel mondo evangelico. Dopo che l’amministrazione Trump aveva deciso di separare le famiglie di migranti al confine con il Messico, Russell Moore, uno dei leader della Southern baptist convention, la più importante denominazione battista del paese, aveva scritto su Twitter: “Le persone create a immagine di Dio dovrebbero essere trattate con dignità e compassione, specialmente quelle che cercano rifugio dalla violenza”. Jerry Falwell Jr., presidente della Liberty university, uno dei più grandi college cristiani del mondo, si era scagliato contro Moore. “Chi credi di essere? Hai mai lavorato in vita tua? Hai mai costruito un’organizzazione partendo da zero? Cosa ti dà il diritto di esprimerti su qualsiasi argomento?”.
A quel punto io ero intervenuto su Twitter scrivendo: “Ci sono cristiani come Russell Moore e cristiani come Jerry Falwell Jr. Scegliete con saggezza, fratelli e sorelle”.
Jessup ha letto il mio tweet in diretta e mi ha chiesto: “Davvero pensa che gli evangelici siano divisi in due schieramenti?”. Ho esitato. Ammettendo che si trattava di una “semplificazione eccessiva”, ho ribadito che esisteva una “separazione fondamentale” tra i cristiani che osservavano il mondo attraverso gli occhi di Gesù e quelli che valutavano la realtà alla luce di considerazioni politiche faziose.
Alla fine dell’intervista ero consapevole di aver perso l’occasione per esprimere in modo chiaro e semplice le mie preoccupazioni sulla chiesa evangelica statunitense. In effetti pensavo che gli evangelici fossero divisi in due schieramenti, uno fedele a Dio e l’altro che idolatrava cose terrene come la nazione, il potere e la fama. Ma avevo troppa paura per dirlo. Il mio percorso personale come cristiano non era stato impeccabile, e comunque non sono un teologo. Jessup voleva da me un’analisi giornalistica, non un’esegesi biblica.
Andando via dallo studio mi sono chiesto se mio padre avesse seguito l’intervista. Sicuramente qualcuno, a casa, l’aveva vista e gliene avrebbe parlato. Ho preso il telefono, poi mi sono fermato per chiacchierare con Jessup e alcuni suoi colleghi. Quando ci siamo salutati, ho guardato lo schermo del cellulare, che avevo messo in modalità silenziosa. Avevo ricevuto molte chiamate da mia moglie e da mio fratello maggiore. Mio padre aveva avuto un infarto. I medici non avevano potuto fare nulla. Era morto.
La verità di mio padre
L’avevo visto per l’ultima volta nove giorni prima. L’amministratore delegato di Politico, dove lavoravo all’epoca, aveva organizzato una festa per il mio libro nella sua villa di Washington. I miei genitori non se la sarebbero persa per niente al mondo. Erano saliti sulla loro Chevrolet ed erano partiti dalla casa di famiglia, nel sudest del Michigan. All’inizio mio padre mi era sembrato un pesce fuor d’acqua, un trasandato pastore del midwest con una camicia sformata infilata nei pantaloni macchiati. Poi mi ero accorto che aveva monopolizzato l’attenzione degli invitati, facendo scompisciare dalle risate diplomatici e ricchi lobbisti. A un certo punto, notando che lo guardavo a bocca aperta, mi aveva strizzato l’occhio in modo teatrale, prima di soddisfare il suo pubblico con l’ennesima battuta.
Ero all’apice della mia carriera. Il libro stava andando molto bene e mi avevano già chiesto di scrivere un seguito. Mio padre era orgoglioso (molto orgoglioso, teneva a precisarlo), ma si sentiva anche a disagio. Per mesi, con l’avvicinarsi della data di pubblicazione, aveva cercato di convincermi a riconsiderare la direzione della mia carriera. Continuava a ripetermi che la politica era “una cosa squallida e cattiva”, una perdita di tempo e uno spreco del talento che Dio mi aveva regalato. Quella sera, durante la festa, aveva chiesto a un parlamentare di scusarlo per un attimo e mi aveva preso da parte. Mi aveva messo un braccio intorno alle spalle e si era avvicinato per dirmi sottovoce: “Le vedi tutte queste persone?”.
“Sì”, avevo risposto con soddisfazione.
“La maggior parte di loro si sarà dimenticata di te tra una settimana”.
Era stato come sentire un disco graffiare. Il mio momento di estasi era finito. Avevo girato la testa e gli avevo sorriso. Ero infastidito. Più restavamo lì in silenzio e più mi innervosivo. Non perché avesse torto, ma perché aveva ragione. “Ricorda”, mi aveva detto mio padre con un sorriso. “Su questa terra la gloria è effimera”. Il 29 luglio, mentre correvo all’aeroporto di Washington per imbarcarmi sul primo volo per Detroit, quelle parole mi sono tornate in mente. Non c’era stato niente di forzato nell’ultimo ammonimento di mio padre. Mi aveva detto semplicemente quello che pensava. Era fatto così.
La chiamata di Dio
Dopo aver raggiunto una buona posizione nel mondo della finanza a New York, nel 1977 Richard J. Alberta si avvicinò alla religione. Anche se aveva una bella casa, una moglie e un figlio in salute, sentiva un enorme vuoto dentro. Non riusciva a dormire e aveva attacchi d’ansia. All’inizio la religione non gli era sembrata una soluzione per i suoi problemi, anche perché era figlio di genitori separati e non credenti. A metà del percorso di studi universitario si era convinto di essere ateo. Poi, durante una visita alla sua famiglia nella Hudson valley, nello stato di New York, mio padre accettò di accompagnare la nipote Lynn in chiesa. Quel giorno diventò una persona nuova. La sua angoscia svanì, i suoi dubbi sparirono.
Tutti intorno a lui facevano fatica a riconoscerlo. Si alzava la mattina presto, molte ore prima di andare al lavoro, per leggere la Bibbia e riempire un piccolo quaderno con annotazioni e citazioni di versi. Restava seduto a pregare per ore. Mia madre, una giovane giornalista che lavorava all’Abc Radio di New York, pensò che fosse impazzito. Ma il suo cognome da nubile – Pastor – era la prova del senso dell’umorismo di Dio. Presto anche lei accettò di far entrare Gesù nella sua vita. Quando mio padre sentì che era arrivato il momento di lasciare la finanza per la religione, incontrò Stewart Pohlman, il pastore della chiesa di Goodwill di Montgomery, a nord di New York. Mentre pregavano nell’ufficio di Pohlman, mio padre disse di percepire lo spirito del Signore vorticare intorno a lui e riempire la stanza. Non era tipo da credere facilmente ai fenomeni sovrannaturali (è il cristiano più sobrio e razionale che abbia mai conosciuto), ma quel giorno si convinse che il Signore lo avesse scelto. Poco tempo dopo i miei genitori vendettero tutti i loro averi, lasciarono gli ottimi impieghi a New York e si trasferirono nel Massachusetts, dove mio padre cominciò a studiare al Conwell theological seminary.
Per i vent’anni successivi i miei genitori lavorarono in piccole chiese della zona, tirando avanti grazie ai sussidi del governo e alla generosità dei fedeli. Quando sono nato io, nel 1986, mio padre era assistente di Stewart Pohlman nella chiesa di Goodwill. Vivevamo nell’edificio vicino alla chiesa. La mia stanza dei giochi era la biblioteca, dove torri di volumi rilegati in pelle erano state innalzate dai pastori a partire dalla metà del settecento. Pochi anni dopo ci trasferimmo in Michigan. Mio padre prese servizio alla Cornerstone church, nel sobborgo di Brighton, alla periferia di Detroit, che faceva parte di una confessione minore chiamata Chiesa evangelica presbiteriana (Epc). Ci rimase come primo pastore per 26 anni.
La Cornerstone era la nostra casa. Giocavo a nascondino nei ripostigli, facevo i compiti negli uffici, portavo le mie fidanzate del liceo ai corsi sulla Bibbia. Durante il college ci lavorai come custode.
L’ultima volta che avevo visitato la chiesa, alla fine del 2017, avevo parlato davanti a una folla riunita per il pensionamento di mio padre, facendo battute bonarie e raccontando aneddoti vagamente piccanti. Dopo la sua morte, invece, ho dovuto pronunciare un discorso molto diverso.
A pochi metri dalla bara
In piedi in fondo alla chiesa, io e i miei tre fratelli maggiori abbiamo accolto chi arrivava. Quando venimmo qui la prima volta, ancora bambini, la Cornerstone church era una comunità piccola. Ma le cose poi cambiarono. Brighton, in passato una cittadina sonnolenta all’incrocio tra due grandi arterie, diventò una zona molto ambita da chi lavorava a Detroit e ad Ann Arbour. Nel frattempo mio padre, con le sue metafore basate sul baseball e le sue lezioni di lingua greca, si era costruito una certa fama per i suoi sermoni. Quando me ne andai da Brighton, nel 2008, la Cornerstone era passata da duecento a duemila fedeli.
Ora tante persone si aggiravano intorno a noi, riempendo la sala e occupando anche i corridoi e l’atrio, dove sui tavoli erano sistemati fiori, mazze da golf e fotografie di mio padre. Ero intontito, come i miei fratelli. Nessuno di noi aveva dormito molto nei giorni precedenti. Così, quando qualcuno ha fatto un riferimento a Rush Limbaugh, il più popolare conduttore radiofonico di destra, non ci ho fatto caso. Poi un’altra persona ha tirato in ballo quel nome, e poi un’altra. Solo in quel momento ho capito cosa stava succedendo. A quanto pare Limbaugh mi aveva citato nel suo programma – “un tizio di nome Tim Alberta” – e aveva descritto le rivelazioni poco lusinghiere contenute nel mio libro su Trump. In quel momento non avrebbe potuto importarmi di meno. Quindi ho sorriso e ho continuato a ringraziare i presenti per essere venuti.
Ma continuavano a infastidirmi. Molti fedeli, persone che conoscevo da una vita, non si preoccupavano nemmeno di farmi le condoglianze e cominciavano subito a parlare di Limbaugh e Trump. Alcuni erano pacati e mi accusavano bonariamente di essere ancora il bambino impertinente che ero all’asilo. Ma altri non scherzavano. Erano astiosi o cercavano apertamente lo scontro. Un uomo ha messo in dubbio che fossi un vero cristiano. Un altro mi ha chiesto se ero ancora “dalla parte giusta”. Tutto questo mentre mio padre era in una bara a pochi metri di distanza.
A un certo punto ho sentito il bisogno di allontanarmi e fare due passi. Ero sconvolto dal fatto che proprio lì, nel nostro luogo di preghiera, la gente mi aggredisse parlando di politica mentre piangevo mio padre. Quella notte, mentre finivo di scrivere l’elogio che avrei pronunciato al funerale il pomeriggio seguente, mi sentivo ancora ferito. Mia moglie se n’è accorta, naturalmente. Dato che in famiglia è la più brava a mantenere la calma, mi ha invitato a parlare in modo prudente e a non fare nessun riferimento a quello che era successo quel giorno. Ho seguito il suo consiglio solo a metà.
Il 2 agosto, davanti a una sala piena, ho reso omaggio all’uomo che mi ha insegnato tutto: come lanciare una palla da baseball, come essere una persona per bene e come avere fiducia in Dio e amarlo. Recitando il mio verso preferito, dalla seconda lettera di san Paolo ai corinzi, ho ripetuto un insegnamento di mio padre: tenere sempre gli occhi fissi su quello che non possiamo vedere. Leggendo la sua poesia preferita, Richard Cory, ho ricordato che mio padre diceva che si può restare poveri anche dopo aver ammassato una fortuna enorme. Poi mi sono rivolto direttamente a tutti quelli che il giorno prima mi avevano avvicinato per parlare di Trump, suggerendogli che se volevano ascoltare qualcosa nei loro spostamenti in macchina potevano rivolgersi ai pastori presenti in chiesa. “Perché state a sentire Rush Limbaugh?”, ho chiesto alla congregazione che era stata di mio padre. “La spazzatura produce solo spazzatura”.
Qualcuno in sala ha riso nervosamente. Altri erano visibilmente agitati. Altri ancora hanno distolto lo sguardo facendo finta di non aver sentito. Il giovane pastore che ha preso il posto di mio padre, Chris Winans, aveva un’espressione sconvolta. Ma non m’interessava. Ho detto quello che dovevo dire. Finiva lì. O almeno così credevo.
C’era solo un problema. Chris Winans non era un repubblicano
Poche ore dopo la sepoltura, io e i miei fratelli siamo sprofondati sui divani del salotto dei nostri genitori. Abbiamo stappato qualche birra e acceso la tv su una partita di baseball. Alle nostre spalle, in cucina, un piccolo plotone di donne della chiesa stava preparando da mangiare. “Questo è il vero amore di Gesù”, ho pensato. Osservando quelle donne e il loro impegno nel confortare mia madre e occuparsi dei suoi figli, mi sono pentito delle mie parole su Limbaugh. In fondo quasi tutte le persone che avevano partecipato al funerale erano di buon cuore come quelle donne. Forse avevo esagerato.
Proprio in quel momento, una delle signore si è avvicinata e mi ha consegnato una busta. L’avevano lasciata in chiesa. Il mio nome era scarabocchiato sulla carta. L’ho aperta e ho trovato una pagina intera scritta a mano. L’autore era uno dei fedeli più anziani della Cornerstone, un uomo che mio padre considerava un amico e che mi aveva insegnato molto quando ero un ragazzo. Mi conosceva praticamente da quand’ero nato. Aveva scritto una lettera per farmi sapere quanto fosse deluso dal mio comportamento. Mi accusava di far parte di un complotto malvagio per ostacolare il leader che Dio aveva scelto per guidare gli Stati Uniti. Per lui le mie critiche a Trump erano paragonabili al tradimento (nei confronti di Dio e della patria) e avrei dovuto vergognarmi. Ma potevo ancora salvarmi. Dio perdona, e anche quest’uomo era pronto a farlo, se avessi usato le mie abilità giornalistiche per indagare sullo “stato profondo” e smascherare il perfido complotto contro il presidente Trump. L’uomo concludeva la sua lettera dicendo che avrebbe pregato per me.
Mi ha dato il voltastomaco. Ho passato il foglio a mia moglie. Lei l’ha letto senza cambiare espressione. Poi l’ha lanciato in aria emettendo un grido che ha fatto sussultare le donne della chiesa: “Ma che problemi hanno queste persone?”.
Un video inappropriato
Non c’è mai stato un consenso su cosa significhi esattamente essere un cristiano evangelico. Varie definizioni, sovrapponibili o contrastanti, sono state proposte in periodi diversi. Billy Graham, un predicatore battista diventato un simbolo di tutto ciò che è “evangelico”, una volta aveva ammesso che anche lui faceva fatica a rispondere. Negli anni ottanta, grazie agli sforzi dei telepredicatori e degli attivisti politici, quello che un tempo era un credo religioso cominciò a trasformarsi in un movimento politico. “Evangelico” diventò sinonimo di “cristiano conservatore” e poi di “repubblicano bianco e conservatore”.
Mio padre, un teologo autorevole che aveva completato gli studi in ottimi seminari, era profondamente irritato dalle analisi riduttive della sua comunità religiosa. Spesso spiegava ai fedeli cos’era, secondo lui, un evangelico: una persona che interpreta la Bibbia come la parola ispirata di Dio e che s’impegna per diffonderla nel mondo. Ma anche se aveva molte qualità, mio padre aveva una grande debolezza: la kryptonite del pastore Alberta era l’amore intenso per il suo paese. In realtà penso che ne fosse consapevole, anche se con me non l’ha mai ammesso.
Dopo essere stato un atleta di talento, a sedici anni mio padre si ammalò di tubercolosi. Fu ricoverato per quattro mesi e a un certo punto i medici temettero che potesse non farcela. Alla fine si riprese. Durante la guerra in Vietnam decise di entrare nel corpo dei marines, ma non superò le prove fisiche dell’accademia di Quantico, in Virginia. I suoi polmoni non erano in buone condizioni. Dopo essere stato congedato con onore, tornò a casa provando un certo senso di vergogna. Negli anni successivi scoprì che molti sottotenenti con cui aveva fatto l’addestramento, e anche molti dei ragazzi con cui era cresciuto, erano morti in guerra. Si sarebbe portato dietro quel peso per tutta la vita.
Quell’esperienza, insieme al suo disprezzo per gli hippy, per la cultura della droga e per le proteste contro la guerra, trasformò mio padre in un repubblicano convinto. La sua preoccupazione politica principale riguardava l’aborto. Nel 1947 mia nonna, intrappolata in un matrimonio sbagliato e doloroso, aveva deciso di mettere fine alla gravidanza, ma poi aveva cambiato idea all’ultimo minuto. Mio padre ha sempre attribuito quella decisione a un intervento divino. In ogni caso non si tirava indietro davanti ad altre battaglie culturali, come il matrimonio tra persone dello stesso sesso, i programmi scolastici e la moralità nella vita pubblica.
Mio padre mi ha sempre insegnato che l’integrità personale è un prerequisito della leadership politica. Nel 2001, dopo la fine del secondo mandato di Bill Clinton, era così felice che organizzò una festa per seguire la cerimonia d’insediamento di George W. Bush e celebrare il ritorno della moralità alla Casa Bianca. Con il passare degli anni, però, cominciò a concentrarsi su altro.
In una domenica all’inizio del 2010 lo vidi proiettare alla sua congregazione un filmato in cui alcuni leader cristiani si scagliavano contro l’Obamacare, la riforma sanitaria voluta da Barack Obama. Gli dissi che mi era sembrato un video inappropriato per un servizio di culto, ma lui non era d’accordo. In quegli anni ci scontravamo di continuo. Era sempre amorevole e rispettoso, ma era chiaro che i nostri percorsi filosofici si stavano separando. La frattura è diventata insanabile durante la presidenza di Donald Trump.
Nel 2016 mio padre avrebbe voluto veder vincere qualsiasi altro candidato repubblicano, perché sapeva che Trump era un narcisista, un bugiardo e, cosa più grave, un uomo senza morale. Ma alla fine, considerando che in gioco c’erano il destino dei feti e la maggioranza alla corte suprema, sentì di non avere altra scelta che sostenerlo. Capivo le ragioni di quella decisione. Quello che non riuscivo a capire era come avesse fatto mio padre a diventare un convinto sostenitore di Trump nel giro di due anni, arrivando a pensare che qualsiasi critica a Trump nascondesse un tentativo di emarginare chi lo appoggiava.
Mio padre ci credeva davvero. Era seriamente convinto che gli attacchi costanti contro Trump fossero attacchi contro le persone come lui. Questa convinzione creò a livello inconscio la struttura che permise a mio padre di ignorare l’immoralità del presidente. Io non potevo fare altro che dirgli la verità: “Sei tu che mi hai insegnato a distinguere le cose giuste da quelle sbagliate”, gli ricordavo. “Non puoi arrabbiarti se mi comporto di conseguenza”.
Mio padre non era un uomo fazioso. Spesso affrontava temi che alla Cornerstone potevano risultare piuttosto spinosi, come le armi da fuoco, la povertà e l’immigrazione. Non era un nazionalista cristiano e non voleva assolutamente vivere in una teocrazia. Semplicemente, credeva che Dio avesse benedetto gli Stati Uniti e sentiva che chiunque si sforzasse di difendere questa benedizione stesse compiendo il volere del Signore.
Nel 2007 questo modo di pensare produsse conseguenze spiacevoli, quando Mark Kidd, un giovane fedele della comunità, morì combattendo in Iraq. All’epoca l’opinione pubblica era contro la guerra e i democratici chiedevano all’amministrazione Bush di riportare a casa i soldati. Per mio padre la morte di Kidd fu devastante. Si scrivevano spesso quando il ragazzo era al fronte e si erano incontrati per pregare quando era tornato a casa. Ma il lutto del pastore lasciò presto il posto alla rabbia del sostenitore repubblicano. Arrivò a chiedere ai politici democratici del posto di non andare al funerale. “Personalmente provo vergogna per i leader che dicono di sostenere le truppe ma non il comandante in capo”, tuonò nel suo sermone, ricevendo un’ovazione. “Non capiscono che in questo modo scoraggiano i combattenti e incoraggiano i terroristi?”.
Mi accusava di far parte di un complotto per ostacolare Trump, il leader scelto da Dio
Quella vicenda scatenò una tempesta nella comunità. Buona parte della congregazione era d’accordo con mio padre, ma anche in una città conservatrice come Brighton c’erano molti che non apprezzavano l’idea di trasformare il funerale di un soldato in un comizio politico. Mostrarsi patriottici è una cosa (molte chiese sfoggiano una bandiera americana), ma lui aveva fatto qualcosa di più. Aveva preso il peso, la gravità e l’eterna certezza di Dio e l’aveva usata per una causa effimera e discutibile. Aveva attaccato alcune persone per non aver seguito incondizionatamente il presidente degli Stati Uniti, quando l’unica autorità che tutti dovrebbero seguire incondizionatamente, soprattutto in una chiesa, è quella di Cristo.
So che mio padre con il tempo se ne pentì, ma non poteva fare a meno di comportarsi così. Per lui era impossibile separare il suo ruolo pastorale dalla sua storia personale e dalla sua idea degli Stati Uniti come nazione benedetta da Dio, fonte di speranza in un mondo alla deriva. Ogni volta che un soldato si presentava in chiesa in uniforme, mio padre lo chiamava per nome, gli chiedeva di alzarsi e faceva partire un grande applauso collettivo. È stata una delle prime cose che Chris Winans, il suo successore alla Cornerstone, ha voluto cambiare.
Rivolta in chiesa
Diciotto mesi dopo il funerale di mio padre, nel febbraio 2021, ho incontrato Winans in un ristorante. Non sembrava a suo agio. Era nervoso, perfino un po’ paranoico. Mentre parlavamo si guardava intorno con aria circospetta. Non ci ho messo molto a capire perché.
Mio padre aveva dedicato anni alla ricerca di un erede. Aveva avuto molti assistenti, ma nessuno gli sembrava adatto a prendere il suo posto. La congregazione era la missione della sua vita, quindi non voleva accontentarsi di un successore qualunque. L’incertezza sul futuro della sua chiesa lo aveva consumato. Temeva che non avrebbe mai trovato la persona giusta. Poi un giorno aveva conosciuto Winans, un giovane pastore di Goodwill, la chiesa dove mio padre aveva avuto la sua illuminazione e dove aveva prestato servizio appena uscito dal seminario. Lo aveva convinto a trasferirsi alla Cornerstone per guidare i giovani della congregazione, e fin dall’inizio mi era sembrato evidente che Winans fosse la persona adatta.
Appena trentenne, era precisamente il leader del futuro di cui la chiesa aveva bisogno. Studente brillante della Bibbia, parlava con grande precisione e chiarezza, era umile e non aveva l’ego smisurato tipico dei predicatori di successo. Tutto in lui – dalla pettinatura da ragazzino alla sua splendida famiglia – sembrava calzare alla perfezione. C’era solo un problema. Chris Winans non era un repubblicano conservatore. Non gli piacevano le armi. Pensava che combattere la povertà fosse più importante che tagliare le tasse. E, soprattutto, disprezzava Trump e le sue buffonate.
◆ L’evangelicalismo è un movimento teologico che fa parte del cristianesimo protestante. Nato nel Regno Unito nel settecento, si è poi diffuso negli Stati Uniti. Si concentra sulla lettura della Bibbia, che non deve essere interpretata ma considerata come “parola di Dio” ed è per questo insindacabile. Nel mondo evangelico non c’è un’unica autorità centrale, come il papa per i cattolici o la prima presidenza per i mormoni. Inoltre gli evangelici possono far parte di varie denominazioni protestanti (come battisti, pentecostali e presbiteriani). Questi elementi, uniti al fatto che è piuttosto facile creare un gruppo di preghiera o una chiesa e diventare pastore, rende da sempre difficile dare una definizione chiara degli evangelici. Dagli anni ottanta, cioè dall’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca, le chiese evangeliche statunitensi hanno sempre sostenuto i candidati repubblicani, spostando progressivamente a destra il partito sui diritti civili, in particolare aborto e matrimoni tra persone dello stesso sesso.
◆ Da almeno trent’anni si registra un allontanamento degli statunitensi dalla religione, una dinamica che ha colpito in modo particolare le chiese protestanti, comprese quelle evangeliche. Nel 2006 i cristiani evangelici bianchi rappresentavano il 23 per cento della popolazione, mentre oggi sono il 14 per cento. La perdita di fedeli è andata di pari passo con la radicalizzazione del mondo evangelico, e con l’aumento delle persone che fanno coincidere fede, appartenenza politica e identità culturale. Questo fenomeno si è accentuato dopo che Donald Trump è diventato il leader del Partito repubblicano. Molti evangelici si considerano combattenti in una battaglia contro il male (cioè i politici democratici) e pensano che Trump sia benedetto da Dio. The Atlantic
Queste posizioni non sarebbero sembrate eretiche per i cristiani in altre zone del mondo. Vista la sua solida posizione contro l’aborto, Winans sarebbe stato considerato quasi ovunque il ritratto della coerenza spirituale e intellettuale. Ma nella tradizione evangelica statunitense, e in una chiesa come la Cornerstone, quell’accenno di liberalismo lo rendeva sospetto.
Mio padre sapeva che Winans era diverso. Ma in fin dei conti era una cosa positiva. Winans non avrebbe dovuto semplicemente guidare gli anziani e ricchi fedeli della Cornerstone. La sua missione era evangelizzare, creare una visione e ampliare il raggio d’azione, mettere alla prova i credenti e portare il vangelo a chi non faceva parte della congregazione. Mio padre era sicuro che il giovane pastore, con la sua abilità retorica e il suo amore per Gesù, avrebbe superato qualsiasi ostacolo.
Si sbagliava. Subito dopo l’insediamento di Winans, all’inizio del 2018, saltarono fuori i coltelli. Qualsiasi accenno alla politica o alla cultura, qualsiasi minima critica nei confronti di Trump o del Partito repubblicano (esplicita o solo percepita) produceva un’ondata di lamentele. I fedeli più anziani chiedevano un incontro con mio padre (che era rimasto nella chiesa per aiutare il nuovo pastore) e si lasciavano andare a proteste di ogni tipo. Lui gli chiedeva se le loro erano rimostranze concrete in merito alla teologia, e quasi sempre la risposta era no.
Un mese dopo la sua nomina, Winans disse durante un sermone che i cristiani devono proteggere il creato, invitando i fedeli a prendere sul serio le minacce nei confronti del pianeta. Mio padre ricevette subito decine di visite infuriate. Gli chiedevano di tenere a bada Winans. Mio padre rispondeva di darsi una calmata. Se qualcuno aveva un problema con il pastore, avrebbe dovuto parlarne con il pastore.
Winans ebbe un primo anno di lavoro piuttosto difficile, ma alla fine lo superò. I fedeli della Cornerstone si stavano lentamente adattando alla sua presenza e lui doveva rispettare i loro tempi. D’altronde anche lui aveva bisogno di un periodo di assestamento. Fino a quando mio padre avesse continuato a sostenerlo non ci sarebbero stati problemi.
Ma poi mio padre è morto. Il giorno in cui l’ho incontrato al ristorante, Winans mi ha confessato che la situazione nella congregazione stava precipitatando. La chiesa era sprofondata nel caos e il suo lavoro era diventato insopportabile. Poco dopo la morte di mio padre era cominciata la pandemia di covid-19. Poi c’era stato l’assassinio di George Floyd. Tutto questo mentre Trump portava avanti la sua campagna per la rielezione. Nel 2016 si era candidato promettendo che “i cristiani” avrebbero avuto “il potere”, mentre nel 2020 diceva che il suo avversario, Joe Biden del Partito democratico, avrebbe “ferito Dio” e avrebbe preso di mira i cristiani a causa delle loro convinzioni religiose. Affidandosi alla retorica più aggressiva e alle teorie del complotto, Trump aveva arruolato i cristiani evangelici in una battaglia spirituale, in cui i repubblicani timorati di Dio sfidavano i laici di sinistra che volevano cancellare la tradizione giudaico-cristiana degli Stati Uniti.
I fedeli della Cornerstone hanno cominciato a chiedere al pastore di condannare le restrizioni sanitarie imposte dal governo, di schierarsi contro il movimento antirazzista Black lives matter e contro Biden. Quando Winans si è rifiutato di farlo, molte persone hanno lasciato la chiesa. La tensione è aumentata dopo la sconfitta di Trump, nel novembre 2020. Nella congregazione è partita una crociata per ribaltare l’esito delle elezioni, guidata da un gruppo di cristiani infuriati che comprendeva Jenna Ellis, avvocata di Trump. Tanti fedeli se ne sono andati dopo che un dipendente della chiesa, che faceva proselitismo per il culto complottista QAnon, è stato licenziato in seguito a una serie di scontri con Winans.
Quando i sostenitori di Trump hanno assaltato il congresso, il 6 gennaio 2021, Winans ha capito di aver perso definitivamente il controllo della sua chiesa. “È un esodo”, mi ha confessato poche settimane dopo. Osservando quelle scene apocalittiche in tv, Winans si era sentito responsabile. I simboli cristiani erano dovunque: i rivoltosi pregavano in cerchio, cantavano gli inni e mostravano Bibbie e croci. La perversione della religione dominante negli Stati Uniti sarebbe stata associata per sempre a quella tragedia.
Lo hanno dimostrato le parole pronunciate l’anno dopo dal senatore repubblicano Josh Hawley: “Siamo un paese rivoluzionario proprio perché siamo gli eredi della rivoluzione della Bibbia”. Secondo Winans questa impostazione è una minaccia molto più grave degli eventi del 6 gennaio. “Molte persone credono che il paese sia nato dalla religione, dalla Bibbia. Questa è la fonte di molti dei nostri problemi”. Per buona parte della storia degli Stati Uniti, i cristiani bianchi hanno avuto ricchezza, potere e sicurezza. Data questa realtà – nonché la natura miracolosa della vittoria contro il Regno Unito, la velocità con cui il paese è diventato una superpotenza e la sua opera di diffusione della libertà e della democrazia (e della cristianità) nel mondo – è facile capire come mai tanti evangelici siano convinti che gli Stati Uniti siano una nazione benedetta. Il problema è che le benedizioni spesso si portano dietro l’idea che tutto sia dovuto. Una volta stabilito che Dio ha benedetto qualcosa, quel qualcosa può diventare oggetto di gelosia, ossessione e perfino venerazione.
“In buona sostanza stiamo parlando di idolatria. Per molte persone l’America è diventata un idolo. Se credi che Dio abbia stretto un patto con l’America, allora credi anche (e ho sentito molte persone dirlo esplicitamente) che siamo un nuovo Israele”, mi ha spiegato Winans riferendosi alla narrativa del Vecchio testamento sul popolo eletto. “A quel punto credi che le stesse promesse fatte a Israele siano applicabili a questo paese, ti convinci che l’America sia una santa alleanza da proteggere. Ti consideri prima di tutto un americano, e questo significa fraintendere terribilmente quello che dovremmo essere”.
Nella Bibbia sono citate molte nazioni. Gli Stati Uniti non ci sono. Di solito gli evangelici sono abbastanza sofisticati da rifiutare l’idea che questo paese sia sacro agli occhi di Dio. Ma molti di loro hanno deciso di idealizzare l’America cristiana, allontanandosi da ciò che dovrebbe essere la cristianità. Hanno permesso alla loro identità nazionale di modellare la loro fede, invece che il contrario.
Donald Trump è nettamente in vantaggio nelle primarie del Partito repubblicano per la scelta del candidato alle presidenziali del 5 novembre. Se vincerà dovrà sfidare alle elezioni il presidente Joe Biden, del Partito democratico, che ha deciso di ricandidarsi. La campagna elettorale sarà condizionata dai procedimenti giudiziari in cui è coinvolto Trump. Nel 2023 è stato incriminato quattro volte: per i pagamenti a una pornostar, in presunta violazione delle leggi sui finanziamenti elettorali; per aver portato nella sua residenza privata documenti riservati del governo dopo aver lasciato la Casa Bianca; per aver cercato di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali nello stato della Georgia; per aver alimentato le proteste che portarono all’assalto al congresso del gennaio 2021 e aver provato a sovvertire l’esito delle elezioni presidenziali.
Le udienze per l’ultimo caso dovrebbero cominciare a marzo del 2024, anche se gli avvocati di Trump stanno cercando di ritardare l’inizio del processo in modo da evitare un verdetto prima delle elezioni. Anche se dovesse arrivare una condanna prima del voto, Trump potrebbe continuare a fare campagna elettorale. La costituzione stabilisce pochi requisiti per chi si vuole candidare alla presidenza – bisogna avere almeno 35 anni ed essere nati negli Stati Uniti – e non esclude chi ha precedenti penali.
In alcuni stati i funzionari elettorali e i giudici hanno stabilito che l’ex presidente non può candidarsi alle elezioni sulla base del 14° emendamento, che vieta di ricoprire cariche pubbliche a chi ha tentato di sovvertire l’ordine costituzionale. Su questo punto dovrebbe pronunciarsi la corte suprema all’inizio di febbraio. Ci si aspetta, però, che i giudici decidano in favore di Trump.
Altra questione è come un’eventuale condanna di Trump condizionerebbe l’orientamento degli elettori. Alcuni sondaggi condotti nelle ultime settimane mostrano che in quel caso il presidente Biden potrebbe guadagnare consensi tra gli elettori più moderati. Sarebbe comunque una sfida tra due candidati molto impopolari. The New York Times
Nazione benedetta
Winans sta molto attento a questo aspetto, ed è uno dei motivi per cui ha deciso di cambiare le regole sul saluto ai soldati. Li incontra dopo la funzione, gli stringe la mano e li ringrazia per il servizio prestato al paese. “Non voglio disonorare nessuno. Penso che le nazioni abbiano diritto all’autodifesa e rispetto i sacrifici fatti da queste persone”, mi ha spiegato. “Ma prima arrivavano e ricevevano un’ovazione scatenata, mentre quando ospitavamo i missionari a malapena c’era qualche applauso. Viene da chiedersi perché. Cosa abbiamo nei nostri cuori?”.
Questo genere di eresia culturale gli ha creato grossi problemi. Ogni settimana la congregazione registrava nuove defezioni. Molti fedeli se ne andavano in un’altra chiesa a poche centinaia di metri di distanza, guidata da un pastore che predica il nazionalismo cristiano. Winans mi ha confidato che stava pensando di lasciare la Cornerstone. “È psicologicamente sfiancante”, mi ha detto. Aveva attacchi d’ansia. Tra una funzione e l’altra si chiudeva in una stanza buia per riprendersi. Chiedeva ad alcuni fedeli di restargli vicino la domenica mattina, nel caso in cui perdesse i sensi.
Ho pensato a mio padre, a come quelle parole gli avrebbero spezzato il cuore. Poi mi sono chiesto se non fosse in qualche modo responsabile per quello che stava succedendo a Winans. Era evidente che alla Cornerstone qualcosa era andato storto, prima del covid, di George Floyd e di Donald Trump.
Avevo sempre ignorato gli interventi catastrofisti su Facebook pubblicati dai fedeli, e in fondo ero stuzzicato dall’idea che alcune di quelle persone mi prendessero di mira sui social network. Ma in quel momento mi sono reso conto che erano avvertimenti, allarmi che avrei dovuto prendere sul serio. Mio padre non aveva mai avuto un profilo sui social network. Forse non aveva idea di quanto fossero smarrite alcune delle sue pecorelle.
Non avevo mai raccontato a Winans degli scontri che avevo avuto alla veglia funebre di mio padre e della lettera che avevo ricevuto dopo aver pronunciato invano il nome di Rush Limbaugh. Mi sono avvicinato a lui e gli ho detto tutto, nei minimi dettagli. Ha socchiuso gli occhi e ha esalato un respiro sofferto. Mi ha detto che gli dispiaceva e che non riusciva a trovare le parole.
Siamo rimasti in silenzio per un momento. Poi gli ho fatto una domanda che mi girava ossessivamente in testa da diciotto mesi. Era una versione ripulita dell’esclamazione di mia moglie nel salotto di casa dei miei genitori, dopo aver lanciato in aria la lettera: “Qual è il problema degli evangelici americani?”.
Winans ci ha pensato su per un attimo. “L’America”, mi ha risposto. ◆ as
Tim Alberta è un giornalista statunitense. Si occupa di politica all’Atlantic. In passato ha lavorato al Wall Street Journal e a Politico. Il suo ultimo libro pubblicato negli Stati Uniti è The Kingdom, the power, and the glory: American evangelicals in an age of extremism.
Iscriviti a Americana |
Cosa succede negli Stati Uniti. A cura di Alessio Marchionna. Ogni domenica.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Americana
|
Cosa succede negli Stati Uniti. A cura di Alessio Marchionna. Ogni domenica.
|
Iscriviti |
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati