Le crisi in Kosovo seguono uno schema preciso. Cominciano con uno scontro tra i leader serbi e kosovari, con i secondi che danno un ultimatum ai primi per fare qualcosa, oppure si alzano barricate nel nord del Kosovo, una regione abitata dai serbi. Poi i diplomatici s’indignano, volano parole grosse e l’esercito serbo avanza fino al confine tra i due paesi, assicurandosi che le immagini dei convogli militari si diffondano online. Subito dopo i nazionalisti serbi cominciano a fantasticare sulla possibilità di entrare in azione e i tabloid del paese sostengono che i kosovari-albanesi stanno per scatenare una guerra contro il popolo serbo. A quel punto alcune testate occidentali si rendono conto di quello che sta succedendo e qualche giornalista, evidentemente all’oscuro del fatto che in Kosovo ci sono migliaia di soldati della Nato proprio per proteggere il paese dalla Serbia, si convince che Belgrado stia per invadere. Ed è così che finisce tutto, con le barricate che sono messe da parte fino al prossimo appuntamento.
Ora siamo a quel punto della crisi. Le barricate, rimaste in piedi per venti giorni, sono state smontate e tutti sono tornati a casa. Ma stavolta il rischio è stato reale. C’erano camion che bloccavano le strade in quattordici punti del paese.
Alla fine di dicembre del 2022 ho visitato il villaggio di Rudare. Un giornalista mi ha indicato un’autocisterna e mi ha spiegato che le persone erano preoccupate per la sua presenza. La cisterna era piena di carburante, che avrebbe potuto causare un’esplosione in caso di scontri violenti. Mentre parlavamo ho notato magistrati, insegnanti e medici (a quanto pare l’intera borghesia serba del nord del Kosovo) che passeggiavano chiacchierando con gli amici, riscaldandosi le mani vicino ai bracieri. Alcune persone erano lì perché volevano esserci, altre perché i loro leader politici glielo avevano ordinato. C’erano anche i capi del principale partito serbo del Kosovo. A un certo punto si è avvicinata un’auto. Quattro ragazzi con il volto coperto sono scesi e si sono allontanati con passo deciso. Poi mi sono spostato nella vicina Mitrovica, una città in cui i serbi vivono a nord e gli albanesi a sud. La zona nord era tappezzata di bandiere serbe e graffiti con il logo della Brigata nord, accompagnato dal messaggio: “Non preoccupatevi… Stiamo aspettando!”. Ma chi sono queste persone? Una milizia serba pronta a entrare in azione? Nessuno lo sa.
A bassa voce i residenti mi hanno spiegato che nell’ultimo anno seicento uomini del posto sono stati mandati in Serbia per un addestramento militare. Ma non c’era modo di distinguere le notizie vere da quelle false diffuse dal Bia, il servizio di sicurezza serbo che secondo molti comanda da queste parti. Gli abitanti facevano la fila davanti ai bancomat: visto che le barricate avevano bloccato due valichi di frontiera a nord, la gente temeva che le banche avrebbero esaurito i contanti.
Area circoscritta
Se chiedete ai serbi di Mitrovica nord cosa vogliono, vi risponderanno che chiedono solo una vita normale. È un desiderio realizzabile? Come si può risolvere il rebus del Kosovo, che sembra aver legato indissolubilmente i destini dei serbi e degli albanesi, oltre che quelli del Kosovo e della Serbia? La guerra in Kosovo è finita nel 1999, ma i diplomatici e i leader politici non sono ancora riusciti a trovare un accordo per una convivenza pacifica, o forse non hanno voluto farlo.
Negli anni novanta, dopo la disintegrazione della Jugoslavia, la provincia serba meridionale del Kosovo è rimasta parte della Serbia, anche se la sua popolazione era composta in maggioranza da persone di origine albanese. In seguito la regione si è rifiutata di sottomettersi a Belgrado e ha subìto la repressione di Slobodan Milošević. Dopo la guerra del Kosovo del 1998-1999 tra i guerriglieri albanesi-kosovari e l’esercito serbo, che si è conclusa con l’intervento della Nato, il Kosovo è diventato un protettorato delle Nazioni Unite. Nel 2008 si è dichiarato indipendente. Molti paesi occidentali hanno riconosciuto la sua sovranità. Non l’hanno riconosciuta la Russia, la Cina e, naturalmente, la Serbia. Gli albanesi del Kosovo dicono di avere il diritto all’autodeterminazione, mentre la Serbia vuole difendere la sua integrità territoriale, anche se nel paese nessuno voleva né vuole reintegrare una regione piena di albanesi ostili.
Su una popolazione di 1,8 milioni di abitanti, in Kosovo vivono circa centoventimila serbi. Più della metà abita nel Kosovo centrale e meridionale, gli altri nel nord, un’area più circoscritta e confinante con la Serbia. I serbi di quest’ultima regione sostengono che la situazione si è ribaltata rispetto al passato. Secondo Marko Jakšić, avvocato e attivista di Mitrovica nord, il primo ministro kosovaro Albin Kurti si sta “comportando come Milošević negli anni novanta”. Questi paragoni non piacciono per niente ai kosovari-albanesi. Ho parlato con Jakšić al Number One, un hotel non lontano dal ponte sul fiume Ibar, che divide in due la città. L’avvocato mi ha ricordato che dieci anni fa gli avevo chiesto quale fosse la soluzione per il Kosovo. Mi aveva risposto che il confine tra Kosovo e Serbia non era “lassù”, indicando il nord rispetto a dove ci trovavamo, ma “sul fiume”. Jakšić è convinto che il Kosovo dovrebbe essere diviso, un’idea che periodicamente torna. Fino a quando, nel 2020, non si è dimesso per presentarsi al tribunale dell’Aia per rispondere dell’accusa di crimini di guerra, il presidente kosovaro Hashim Thaçi aveva accarezzato quest’idea insieme al presidente serbo Aleksandar Vučić, ma i paesi occidentali sono intervenuti per bloccare qualsiasi sviluppo.
La divisione del territorio non era particolarmente popolare né in Kosovo né in Serbia. Il problema non era tanto il nord del Kosovo, ma il fatto che si creasse un precedente. Se quella regione fosse tornata a far parte della Serbia, cosa sarebbe successo alla valle di Presevo, che è in Serbia ma è abitata da albanesi? E che dire delle regioni della Macedonia del Nord in cui vive una minoranza albanese o delle regioni serbe e croate della Bosnia Erzegovina? Così il vaso di Pandora resta chiuso. Ma allora come possono i serbi del nord del Kosovo condurre un’esistenza normale?
La risposta a questa domanda è sorprendentemente semplice. Con la giusta volontà politica, non esistono problemi che non possano essere risolti o quanto meno ridimensionati. Per più di dieci anni le due parti si sono confrontate in un dialogo promosso dall’Unione europea, riuscendo a trovare diversi accordi che non sono mai stati applicati.
L’invasione russa dell’Ucraina ha dato nuovo slancio ai negoziati, guidati dal politico slovacco Miroslav Lajčák, rappresentante speciale dell’Unione europea per il dialogo tra Belgrado e Pristina, e dal diplomatico statunitense Gabriel Escobar. Ma dal giugno 2022 Lajčák ed Escobar hanno dovuto dedicare le loro energie a spegnere incendi e sventare crisi su diversi temi, dalle targhe delle auto alle carte d’identità, fino alle barricate. In ogni caso i due mediatori hanno un piano, sostenuto da Francia e Germania, che potrebbe essere la base per un accordo duraturo. Sostengono che Serbia e Kosovo potrebbero coesistere come stati indipendenti ma senza riconoscersi a vicenda, come le due Germanie ai tempi della guerra fredda.
Ma questa è solo parte dell’equazione. In cambio della promessa di essere trattato dalla Serbia come uno stato indipendente, il Kosovo dovrà rispettare un accordo firmato nel 2013 in base al quale i comuni serbi in Kosovo potrebbero formare una sorta di federazione e godere di una sostanziale autonomia in alcuni settori, come la sanità e l’istruzione. La corte costituzionale del Kosovo ha escluso questa possibilità e il primo ministro kosovaro Kurti si è opposto, ma ora subisce le pressioni degli alleati occidentali perché trovi il modo di seguire questa strada.
Disprezzo reciproco
L’ultima crisi complica il percorso verso un accordo. I serbi si sono dimessi dal parlamento, dalla magistratura e nel nord anche dalle forze di polizia del Kosovo. Secondo Tatjana Lazarević, direttrice del quotidiano online KoSSev, dopo che i serbi hanno lasciato la polizia kosovara alcuni agenti albanesi sono stati mandati a nord a sostituirli. I residenti li considerano “una forza di occupazione”. Lazarević aggiunge che i serbi “non volevano entrare nello stato kosovaro e continuano a non volerlo”. Ma se ci fosse un accordo tra Kosovo e Serbia, aggiunge la giornalista, la popolazione la accetterebbe.
Jeff Hovenier, ambasciatore statunitense in Kosovo, è ottimista
Se davvero si arrivasse a un’intesa, quali scelte avrebbero a disposizione i serbi del Kosovo? Il nord del Kosovo può essere un posto pericoloso. Se trovare un accordo sarà nell’interesse della Serbia, non verrà tollerato nessun dissenso: in questa zona la politica e il crimine organizzato si sovrappongono ancora di più rispetto alle altre aree dei Balcani.
Nonostante i problemi delle ultime settimane, qualcuno è ottimista. Jeff Hovenier, ambasciatore statunitense a Pristina, dice che al momento il riconoscimento reciproco tra Kosovo e Serbia “è impossibile”, ma aggiunge che “le difficoltà attuali possono essere superate. Se consideri questo accordo come un passo verso la soluzione, capisci che le possibilità di successo sono concrete”. Ivan Vejvoda, esperto serbo e capo del programma Europe’s futures dell’Istituto di scienze umane di Vienna (Iwn), è d’accordo. “Entrambi gli schieramenti capiscono di dover procedere nella direzione concordata. Cercano un modo per uscirne vincitori, ma la verità è che nessuno avrà tutto quello che vuole”.
Kurti resta convinto che la Serbia non ha interesse a trovare un compromesso, mentre Vučić ha ribadito che Belgrado non riconoscerà mai il Kosovo. Kurti mi ha detto di essere convinto che Vučić spinga ancora per una divisione del territorio e parli come “se stesse cercando una macchina del tempo. A volte vorrebbe tornare al 1999, altre volte al 2007 (cioè prima della dichiarazione d’indipendenza del Kosovo). Ma capisce che non si può tornare indietro”. Molti diplomatici pensano che Kurti sia troppo rigido e che per questo abbia perso parte del sostegno occidentale, ma la sua politica intransigente verso Vučić ha prodotto alcuni risultati. Il presidente serbo è sulla difensiva e negli ultimi mesi ha dovuto fare delle concessioni. Il 15 dicembre 2022 il Kosovo ha presentato la domanda di adesione all’Unione europea e ha ottenuto la promessa che del 2024 i suoi cittadini non dovranno più richiedere un visto per i paesi dell’area Schengen.
Al di là degli aspetti tecnici, una parte del problema resta strettamente personale. Vučić e Kurti si disprezzano. Quando il serbo era ministro, Kurti era un prigioniero politico in un carcere serbo. Il primo dicembre Vučić ha definito Kurti “feccia terrorista”. Questa situazione rende ancora più difficile arrivare a un’intesa.
Dopo aver lasciato il Number One, a Mitrovica nord, con Jakšić abbiamo camminato fino al ponte sul fiume Ibar. Sul ponte il passaggio di veicoli è vietato dal 1999, ma lo si può ancora attraversare a piedi. Jakšić, ex amministratore giudiziario del tribunale unificato di Mitrovica, mi ha raccontato che quando lui e gli altri serbi del tribunale si dimisero, salutarono i colleghi albanesi con le lacrime agli occhi, da amici. In quel momento Jakšić aveva pensato che ormai non si poteva più tornare indietro. Ma mentre eravamo insieme abbiamo riso all’idea che io possa rivolgergli di nuovo le stesse domande tra dieci anni. Se dovessi scommettere, direi che esiste un buon 60 per cento di probabilità che sarà così. ◆ as
Tim Judah è un giornalista britannico. Ha scritto molti libri sui paesi dei Balcani, tra cui Kosovo: what everyone needs to know (Oxford University Press 2008).
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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati