Sulla copertina del marzo 1932 della rivista statunitense Fortune c’è un’illustrazione di Diego Rivera della piazza Rossa di Mosca. Una folla di uomini senza volto marcia tra le bandiere rosse intorno a una locomotiva con lo stemma della falce e martello, in una rappresentazione perfetta dell’immagine della modernizzazione comunista che i sovietici volevano dare durante il primo piano quinquennale di Stalin. Il successo sovietico doveva essere impersonale, tecnico, indiscutibile. Da paese contadino e arretrato, l’Unione Sovietica si stava trasformando in una potenza industriale con una disciplinata lettura delle realtà oggettive della storia. Come suggeriva l’illustrazione di Rivera, i cittadini celebravano la rivoluzione proprio mentre questa li plasmava per trasformarli in un nuovo tipo di popolo.

Nel marzo 1932, però, in Ucraina, che era il granaio del paese, centinaia di migliaia di persone stavano già morendo di fame. L’industrializzazione era stata finanziata distruggendo la vita contadina tradizionale. Il piano quinquennale aveva portato con sé la “dekulakizzazione”, la deportazione dei braccianti considerati più prosperi, e la “collettivizzazione”, l’espropriazione della terra da parte dello stato. Il risultato fu una carestia di massa: prima in Kazakistan, poi nella Russia meridionale e soprattutto nell’Ucraina sovietica. Le autorità erano consapevoli di quello che stava succedendo, ma continuarono comunque con gli espropri. Il grano che serviva alle persone per sopravvivere fu confiscato ed esportato. Lo scrittore Arthur Koestler, che all’epoca viveva in Ucraina, racconta che la propaganda presentava gli affamati come provocatori che preferivano farsi vedere con la pancia gonfia invece di riconoscere il successo sovie­tico.

Gli insegnanti delle scuole superiori degli Stati Uniti non possono escludere che la storia della schiavitù e dei linciaggi metta a disagio alcuni studenti non neri

L’Ucraina era la repubblica più importante dell’Unione Sovietica dopo la Russia, e Stalin la considerava imprevedibile e sleale. Quando la collettivizzazione dell’agricoltura non diede i risultati sperati, Stalin incolpò le autorità locali del partito, il popolo ucraino e le spie straniere. Con la requisizione delle derrate alimentari durante la carestia, furono soprattutto gli ucraini a soffrire e morire: secondo le stime più prudenti, circa 3,9 milioni di persone, ben oltre il 10 per cento della popolazione della repubblica. Nelle comunicazioni con i suoi compagni più fidati, Stalin non faceva mistero di aver disposto misure speciali contro l’Ucraina. Agli abitanti fu vietato di lasciare la repubblica; ai braccianti fu impedito di andare in città a chiedere l’elemosina; le comunità che non raggiungevano gli obiettivi di produzione di grano furono tagliate fuori dal resto dell’economia; le famiglie furono private del loro bestiame. Soprattutto, il grano ucraino fu spietatamente confiscato, oltre ogni ragionevole necessità. Neanche il granturco fu risparmiato.

L’Unione Sovietica prese misure drastiche in modo che questi eventi passassero sotto silenzio. I giornalisti stranieri furono banditi dall’Ucraina. L’unica persona che scrisse in inglese della carestia firmandosi, il giornalista gallese Gareth Jones, fu poi assassinato. Il corrispondente da Mosca del New York Times, Walter Du­ranty, liquidò il problema della carestia come il prezzo del progresso. Decine di migliaia di profughi affamati riuscirono ad attraversare il confine e a entrare in Polonia, ma il governo polacco decise di non pubblicizzare la cosa perché in quel momento stava negoziando un trattato con l’Unione Sovietica. A Mosca, durante il congresso del partito del 1934, la catastrofe fu presentata come un trionfo, una seconda rivoluzione. La causa delle morti fu attribuita non alla fame ma alla fatica. Quando il successivo censimento registrò milioni di persone in meno del previsto, gli statistici furono giustiziati. Gli abitanti delle altre repubbliche, soprattutto russi, si trasferirono nelle case abbandonate degli ucraini, disinteressandosi delle cause della calamità che gli aveva lasciato tanto spazio libero.

Nel 1991, dopo la fine dell’Unione Sovietica, i cittadini dell’Ucraina tornata indipendente cominciarono a commemorare le vittime della carestia del 1932-1933, che chiamano holodomor. Nel 2006, il parlamento ucraino ha classificato l’evento come genocidio. Nel 2008 la camera dei deputati russa ha risposto con una risoluzione che fornisce una versione molto diversa dei fatti: pur riconoscendo formalmente la catastrofe, la rivolta contro le sue principali vittime. La risoluzione sostiene che “non ci sono prove dal punto di vista storico che la carestia sia stata organizzata secondo linee etniche” e cita significativamente sei regioni russe prima di nominare l’Ucraina.

La stampa di stato russa ha rispettato scrupolosamente la consegna: ogni volta che si cita la carestia viene diramata una lunghissima lista di regioni con l’obiettivo di ridimensionare la specificità della tragedia ucraina. La carestia è presentata come la conseguenza di errori amministrativi commessi da un apparato neutrale dello stato. Le vittime sono tutti, quindi nessuno. In una lettera del 2008 al suo collega ucraino, il presidente russo Dmitrij Medvedev banalizzava l’evento definendolo un atto di repressione “contro l’intero popolo sovietico”.

L’anno seguente Medvedev ha istituito la Commissione presidenziale della federazione russa per contrastare i tentativi di falsificare la storia a scapito degli interessi della Russia, un comitato di politici, storici e ufficiali dell’esercito allineati con l’obiettivo dichiarato di difendere la versione ufficiale sul ruolo dell’Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale. All’atto pratico la commissione ha fatto poco, ma ha comunque stabilito un principio importante: la storia è ciò che serve gli interessi nazionali della Russia; tutto il resto è revisionismo.

Questo principio è stato immancabilmente applicato alla storia della carestia. Sui mezzi d’informazione di stato, gli storici russi hanno ripetutamente sottolineato che gli uomini che eseguirono gli ordini di Stalin in Ucraina erano anche ucraini (ovviamente è vero, ma più o meno lo stesso si può dire di quasi tutte le politiche coloniali e genocide). Nel 2017 il ministro degli esteri russo ha dichiarato che gli ucraini che ricordano la carestia hanno “un solo obiettivo: allargare le divisioni tra Russia e Ucraina”.

Questa incapacità di riconoscere una tragedia ha portato all’incapacità di riconoscere un popolo. Quando nel 2014 la Russia ha invaso l’Ucraina, una delle motivazioni era che non era un vero stato. Vladimir Putin, allora presidente, ha paragonato la situazione in Ucraina alla rivoluzione bolscevica: caos e guerra civile che richiedevano l’intervento di un esercito inviato dalla Russia. Gli avvocati internazionali russi sostenevano che l’invasione e l’annessione erano giustificate dalla scomparsa dello stato ucraino.

Al tempo dell’invasione in Ucraina c’era solo un museo dedicato ai gulag in Russia, un luogo solo per ricordare milioni di morti e decine di milioni di detenuti: la ricostruzione del Perm-36, un famoso campo “a regime speciale” per i prigionieri politici. Durante l’invasione dell’Ucraina, il sito è stato occupato dallo stato russo e completamente riorganizzato per mettere al centro l’esperienza delle guardie carcerarie anziché quella dei prigionieri, che erano in larga parte ucraini. Secondo Raphael Lemkin, l’avvocato ebreo-polacco che coniò il termine “genocidio”, la politica sovietica in Ucraina rispondeva perfettamente alla definizione. Durante la crisi con l’Ucraina, un suo testo che sosteneva la tesi del genocidio è stato inserito dalla Russia in una lista di “materiali estremisti” insieme a molte altre pubblicazioni sulla storia dell’Ucraina sovietica. Il semplice possesso di uno di questi scritti era punibile con il carcere.

Queste politiche fanno parte di un sempre più nutrito corpus internazionale di “leggi della memoria” introdotte dai governi per orientare l’interpretazione pubblica del passato. L’obiettivo è imporre una visione obbligatoria degli eventi storici, vietando la discussione sui fatti e sulle interpretazioni, o fornendo vaghe linee guida che portano all’autocensura. Le prime leggi della memoria furono introdotte per proteggere la verità sulle vittime. L’esempio più importante è la legge che punisce la negazione dell’olocausto, approvata in Germania Ovest nel 1985. Abbastanza prevedibilmente, altri paesi hanno seguito l’esempio criminalizzando la negazione di altre atrocità storiche. La legge tedesca è stata criticata da alcuni sostenitori della libertà di espressione; altri provvedimenti sono stati contestati sulla base del fatto che l’olocausto è una fattispecie giuridica a sé. Queste prime leggi, tuttavia, si giustificavano come il tentativo di proteggere i più deboli contro i più forti e salvaguardare la storia dai pericoli della propaganda.

La Russia ha rovesciato la logica originaria delle leggi della memoria: non sono i fatti che riguardano i più vulnerabili a dover essere tutelati, ma i sentimenti dei potenti. Il linguaggio usato per raggiungere lo scopo è scelto con grande cura. Durante l’invasione russa dell’Ucraina, Putin aveva promulgato una norma dal nome fuorviante: legge contro la riabilitazione del nazismo. La premessa è che i tribunali di Norimberga, dove furono processati alcuni criminali nazisti, hanno già dato un giudizio esaustivo sulle atrocità degli anni trenta e quaranta. La legge vieta specificamente, con sanzioni penali, “false informazioni sulle attività dell’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale”. In altre parole, qualunque riferimento a crimini non giudicati a Norimberga può essere assimilato alla negazione della atrocità naziste. Ovviamente nessun crimine di Mosca è stato mai giudicato a Norimberga, perché i sovietici erano tra i vincitori e tra i giudici.

Una misura introdotta per proteggere la santità dell’olocausto è diventata una forma di controllo sull’intero universo delle atrocità non naziste. In questo contesto, sottolineare che l’Unione Sovietica cominciò la guerra come alleata dei nazisti equivale a commettere un reato; un cittadino russo è stato perseguito penalmente per aver scritto in un post sui social network che la Germania nazista e l’Unione Sovietica avevano entrambe invaso la Polonia. Ora il parlamento russo sta discutendo di una legge che criminalizzerebbe l’equiparazione degli alti comandi e degli eserciti sovietici e nazisti rispetto agli scopi e ai metodi usati. L’elemento forse più sorprendente della proposta è che i suoi sostenitori ne descrivono gli obiettivi in termini terapeutici. È “sbagliato insultare la memoria della nazione vittoriosa”. In realtà la vittoria è stata sovietica, non russa; ebrei, bielorussi e ucraini hanno sofferto più dei russi. Il punto della norma non è proteggere i fatti storici, ma coltivare il sentimento nazionale.

Nell’inverno del 2020, poco dopo l’ultima legge della memoria prodotta in Russia da un comitato presidenziale, l’allora presidente statunitense Donald Trump ha creato la commissione 1776. Nel rapporto pubblicato nel gennaio 2021, proprio mentre scadeva il mandato di Trump, la commissione definisce il proprio obiettivo come la “restaurazione dell’istruzione americana”. È una risposta al Progetto 1619, un tentativo di portare la storia della schiavitù al centro del racconto nazionale, pubblicato dal New York Times nel 2019. Il documento della commissione 1776 replica la struttura della politica della memoria russa, riconoscendo un male storico per poi relativizzarlo in modo sconcertante. La schiavitù viene discussa, ma solo come una delle numerose “sfide ai princìpi dell’America”, tra cui il “progressismo” e la “politica dell’identità”. La pratica dello schiavismo negli Stati Uniti è definita una “negazione dei princìpi fondamentali americani” e “il tentativo di sostituirli con una teoria dei diritti di gruppo” che, sostengono gli autori, “è l’antenata diretta di alcune delle teorie distruttive che oggi dividono il nostro popolo e lacerano il tessuto della nostra società”.

L’allusione ai “diritti di gruppo” sembra un riferimento alla teoria critica della razza: una serie di tesi, discusse da decenni, sul razzismo penetrato nella legge e nella società degli Stati Uniti. Associata a Kimberlé Crenshaw, che insegna all’università della California a Los Angeles e alla law school della Columbia university, e ad altri accademici afroamericani, la teoria critica della razza sostiene che negli Stati Uniti la discriminazione non è finita con la legge sui diritti civili del 1964 e invoca una lettura critica delle leggi, che si concentri sulle loro conseguenze anziché sulle intenzioni dichiarate di chi le ha scritte. Il rapporto della commissione 1776 si fissa su quella che considera la piaga della “politica dell’identità”, secondo la quale “i presunti oppressori” devono “fare ammenda e addirittura essere puniti in perpetuo per i loro peccati e per quelli dei loro antenati”. Il rapporto parla più di questo che dello schiavismo.

Christian Dellavedova

Questa primavera le leggi della memoria sono arrivate negli Stati Uniti. Nelle assemblee legislative dei singoli stati, i rappresentanti repubblicani hanno presentato decine di proposte che mirano a orientare e controllare l’interpretazione del passato. I particolari variano da caso a caso, ma il tratto in comune tra queste leggi, e anche il più familiare a chi studia le leggi repressive della memoria in altre parti del mondo, è la loro attenzione ai sentimenti. Quattro su cinque, con terminologia quasi identica, vietano qualsiasi attività didattica che possa creare “disagio, senso di colpa, angoscia o qualsiasi altra forma di turbamento psicologico a causa dell’appartenenza razziale o del sesso dell’individuo”.

La storia non è psicoterapia, e il disagio fa parte della crescita. Da insegnante, non posso escludere la possibilità che i miei alunni non ebrei, per esempio, provino un turbamento psicologico nello scoprire quanto poco gli Stati Uniti fecero per i profughi ebrei negli anni trenta. So che spesso, quando parlo con loro dell’olocausto, gli studenti provano disagio nell’apprendere che Hitler ammirava le nostre leggi sulla segregazione razziale e il mito del selvaggio west. Gli insegnanti delle scuole superiori non possono escludere che la storia della schiavitù, dei linciaggi e della soppressione del voto metta a disagio alcuni studenti non neri. Le nuove leggi della memoria danno un potere di censura agli studenti e ai loro genitori. Non è certo insolito che i cittadini bianchi statunitensi dicano di essere trattati ingiustamente; oggi possono far interrompere una lezione di storia.

Il presupposto è che il disagio psicologico sulla questione razziale emerga appena se ne parla. Tutto questo può avere senso dal punto di vista di una persona bianca che si preoccupa di non essere considerata razzista, e quindi è portata a concludere che il miglior modo per evitarlo sia non affrontare la questione. Ma cosa dovremmo fare, allora, per eliminare il “disagio, il senso di colpa, l’angoscia o qualsiasi altra forma di turbamento psicologico” dalle vite dei neri o dall’esperienza scolastica degli studenti neri? Cosa succederebbe se studenti afroamericani di uno stato in cui è in vigore una legge della memoria prendessero la parola in classe per dire che insegnare la storia dei padri fondatori senza citare lo schiavismo gli provoca disagio e angoscia in quanto neri?

Le leggi della memoria nascono in un momento di panico culturale in cui i politici improvvisamente si scagliano contro l’insegnamento “revisionista”. In Russia, i presunti revisionisti sono tutti quelli che scrivono in termini critici di Stalin o parlano con onestà della seconda guerra mondiale. Negli Stati Uniti, il revisionista è chi scrive della questione razziale. In entrambi i casi, il cosiddetto revisionismo tende a coincidere con quelle parti della storia che mettono in crisi il senso di legittimità dei leader o mettono a disagio i loro sostenitori.

In Russia la tentazione è quella di presentare lo stalinismo come un fatto fondamentalmente amministrativo. La carestia in Ucraina fu un errore burocratico. Il terrore degli anni trenta fu un deprecabile sbaglio. L’alleanza con Hitler fu una necessità geopolitica. Agli occhi di noi statunitensi le giustificazioni russe sono ridicole, perché non proviamo alcun senso di colpa o di vergogna riguardo a quegli eventi, non siamo emotivamente coinvolti nella questione dell’innocenza. Non abbiamo problemi a constatare che la carestia, i gulag e il terrore furono ben altro che semplici eccessi amministrativi, e non riusciamo facilmente a passare sopra a un’alleanza con Hitler. Per la stessa logica, chiunque guardi gli Stati Uniti dall’esterno si accorge immediatamente che le nostre nuove leggi della memoria non fanno altro che proteggere l’eredità del razzismo. Ci stiamo solo prendendo in giro.

Le leggi della memoria statunitensi di solito non si riferiscono a specifici eventi storici e in questo senso sono un po’ più avanzate delle leggi russe. I momenti in cui si avventurano nell’analisi specifica, però, sono illuminanti. “Tra gli esempi di teorie che distorcono gli eventi storici e sono in contrasto con gli standard approvati dal consiglio scolastico dello stato”, dice la nuova direttiva del dipartimento dell’educazione della Florida, “ci sono la negazione o la minimizzazione dell’olocausto e l’insegnamento della teoria critica della razza, ovvero la teoria secondo la quale il razzismo non è solo il frutto del pregiudizio, ma è insito nella società statunitense e nel suo ordinamento giuridico per affermare la supremazia delle persone bianche”.

Siamo di fronte a una sorprendente replica della tattica retorica delle leggi della memoria russe del 2014. In entrambi i casi, i crimini dell’epoca nazista sono strumentalizzati per mettere a tacere una storia di sofferenza: in Russia per prevenire le critiche allo stalinismo, in Florida per proibire l’educazione sul razzismo. In entrambi i casi, le misure in questione rendono impossibile la comprensione dell’olo­causto. Se in Russia è illegale discutere il patto Molotov-Ribbentrop del 1939, che sanciva la non aggressione tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica, allora è impossibile discutere anche di come, dove e quando cominciò la seconda guerra mondiale. Se in Florida è illegale parlare del razzismo sistemico nelle scuole, alcuni aspetti dell’olocausto sono esclusi dall’insegnamento. Le leggi razziali tedesche s’ispiravano a quelle che erano state applicate negli Stati Uniti. Ma poiché quelle statunitensi erano espressione di un razzismo sistemico, che riguardava la società e la legge americane, l’argomento è di fatto bandito dalle scuole.

Christian Dellavedova

La legge della memoria russa che strumentalizza l’olocausto lo sminuisce; la direttiva della Florida che mette sullo stesso piano la negazione dell’olocausto e la teoria critica della razza lo banalizza. C’è un modo più generoso e costruttivo di affrontare la storia dei neri americani e degli ebrei. Anche se i suoi detrattori ne hanno fatto una caricatura, una delle tesi centrali della teoria critica della razza è un’osservazione semplice e, per uno storico, intuitiva: la discriminazione non è semplicemente una questione di atteggiamenti o d’istituzioni, ma è il frutto della loro interazione nella società nel corso del tempo. L’analisi vale a livello generale. È comodo liquidare l’olocausto come il frutto del pregiudizio razziale tedesco; in questo modo possiamo prendere le distanze e dire a noi stessi che non siamo tedeschi e che quindi non siamo antisemiti. Ma non si può spiegare così come quasi sei milioni di persone siano state uccise in un particolare luogo e in un particolare periodo.

Le atrocità cominciano dalla vita quotidiana, ecco perché abbiamo bisogno di strumenti e di concetti per scrollarci di dosso tutto ciò che è familiare e assolutorio. Ho cominciato a scrivere questo articolo dopo aver fatto quello che faccio quasi tutti i giorni, cioè accompagnare i miei figli a scuola. Dopo essere arrivati a Vienna la scorsa estate, abbiamo fatto fatica a trovare una scuola per loro. C’era una pandemia, eravamo stranieri e ci sono stati diversi momenti d’incertezza. È stato un enorme sollievo quando i miei figli sono stati ammessi in un buon istituto. Cosa avrei fatto se avessi saputo che i posti si erano liberati perché altri alunni erano stati espulsi? Con ogni probabilità non avrei approfondito troppo la questione. La mia sarebbe stata una semplice reazione umana: presumere che quei ragazzi dovevano aver meritato l’espulsione e che i miei meritavano l’ammissione.

Adesso immaginiamo che io sia a Vienna e stia cercando una scuola nel 1938. È arrivato Hitler e lo stato austriaco è crollato. I bambini ebrei non vanno più a scuola perché le loro famiglie stanno scappando dal paese. I miei figli, che sono in lista d’attesa per un istituto molto prestigioso, improvvisamente vengono ammessi. Cosa farei? Le autorità scolastiche mi risparmiano l’imbarazzo non dicendo come si sono liberati i posti. Forse non sono antisemita e forse non lo è neanche il preside della scuola. Ma comunque sta succedendo qualcosa di antisemita e a prescindere dalle mie motivazioni questo mi coinvolge. Per me e per gli altri genitori che si trovano nella mia situazione, che senza dubbio conoscerei e riconoscerei, l’assenza dei bambini ebrei dalle scuole comincerebbe a sembrare normale.

Quando diciamo che la discriminazione è solo il frutto del pregiudizio personale, ci solleviamo dalla responsabilità. Solo la nostra storia conta, e ciò che conta nella nostra storia è la nostra innocenza. L’unico modo di preservare la descrizione neutrale di una situazione come quella che ho immaginato è rimuovere dalla storia le altre persone coinvolte. I genitori che preferiscono pensare che il loro comportamento sia normale possono essere indotti a credere che gli ebrei non fanno parte della comunità nazionale. Se gli ebrei diventano meno che umani, allora possiamo raccontare a noi stessi che siamo umani. L’antisemitismo in quel caso non è solo nella mente e nelle istituzioni: è a metà strada, in un sistema che a un certo punto comincia a funzionare in modo diverso. Sappiamo dove ha portato tutto questo: gli ebrei furono esclusi dal voto e dalle professioni, furono separati delle loro proprietà, dalle loro case e dalle loro vite.

In Austria, nel 1938, ciò che prima era impossibile improvvisamente diventò possibile. Lo stato austriaco smise di esistere e alcuni austriaci sfruttarono la situazione a scapito degli ebrei. I nazisti austriaci avevano liste degli appartamenti e delle automobili degli ebrei e se ne appropriarono appena possibile. Gli ebrei furono sottoposti a umiliazioni, violenze, stupri e, in alcuni casi, omicidi. Uno studente di storia dell’Europa orientale e centrale può vedere negli eventi del 31 maggio e del 1 giugno 1921 a Tulsa, in Oklahoma, una certa somiglianza con quello che è successo in Austria, anche se le violenze negli Stati Uniti furono più concentrate.

All’epoca, l’Oklahoma era uno degli stati dove era in vigore la segregazione razziale. Greenwood era un ricco quartiere nero a Tulsa. In quel giorno di primavera, gli abitanti bianchi della città entrarono a Green­wood e la devastarono, bruciando le case e uccidendo decine di cittadini neri con la complicità di alcuni agenti di polizia. Dopo, come a Vienna, le relazioni di proprietà furono alterate per sempre, con effetti impalpabili ma inequivocabili sull’atteggiamento delle persone.

Come in Austria, tuttavia, la violenza razziale non ha portato a una discussione sul razzismo. Al contrario: come racconta lo storico Scott Ellsworth nel suo nuovo libro sul massacro, The ground breaking, il potere sistemico del razzismo si rivela nei lunghi silenzi. A Tulsa, la stampa locale smise di parlare degli eventi. I documenti sul massacro sparirono dagli archivi dello stato. Sui libri di storia dell’Oklahoma non c’era scritto nulla. Ai giovani di Tulsa e dell’Oklahoma è stata negata l’opportunità di riflettere sulla loro storia in modo autonomo. Il silenzio ha prevalso per decenni.

Un secolo esatto dopo il massacro di Tulsa, il parlamento dell’Oklahoma ha approvato la sua legge della memoria. Ora alle istituzioni scolastiche dello stato è vietato seguire pratiche in cui “un individuo possa provare disagio, senso di colpa, angoscia o qualsiasi altra forma di turbamento psicologico” su ogni tipo di questione legata alla questione razziale (almeno un liceo pubblico ha già cancellato un corso sul razzismo e l’etnia). Il governatore dell’Oklahoma ha dichiarato che nonostante la nuova legge il massacro di Tulsa può essere ancora insegnato nelle scuole. Gli insegnanti hanno espresso i loro dubbi: dato che l’obiettivo della legge è tutelare i sentimenti prima dei fatti, gli insegnanti saranno portati a discutere dell’evento in un modo che non sollevi controversie.

Ma i fatti sono spesso controversi. Sarebbe controverso osservare, per esempio, che il massacro di Tulsa è stato uno tra tanti esempi di pulizia etnica negli Stati Uniti, e che le sue conseguenze si avvertono ancora oggi in Oklahoma. Sarebbe controverso osservare che i pogrom razziali, insieme alle frustate e ai linciaggi, sono strumenti tradizionali per intimidire i neri americani e per tenerli lontani dalle urne elettorali.

Nella maggior parte dei casi, le nuove leggi della memoria statunitensi sono state approvate da assemblee legislative che, nella stessa seduta, hanno approvato norme studiate appositamente per rendere più difficile votare ai cittadini. La gestione della memoria facilita la soppressione del voto. La storia di come ai neri è stato negato il voto è vergognosa. Ciò significa che sarà meno facile insegnarla in tutte quelle scuole dove agli insegnanti è imposto di proteggere i loro studenti dal sentimento della vergogna. La storia di come ai neri è stato negato il voto riguarda la legge e la società. Ciò significa che sarà meno facile insegnarla in tutte quelle scuole dove gli insegnanti sono costretti a dire agli alunni che il razzismo è solo un pregiudizio personale.

La mia esperienza di storico dei massacri di massa mi dice che tutto ciò che vale la pena di sapere è sconcertante; la mia esperienza d’insegnante mi dice che il gioco vale la candela. Provare a proteggere i giovani dal senso di colpa gli impedisce di vedere la storia per quella che è e di diventare cittadini migliori. Parte del diventare adulti è vedere la propria vita in un contesto più ampio. Solo attraverso questo processo può nascere un senso di responsabilità che, a sua volta, innesca la riflessione sul futuro.

La democrazia richiede la responsabilità individuale, che è impossibile senza una storia critica; la democrazia si nutre di uno spirito di autoconsapevolezza e autocorrezione. L’autoritarismo, al contrario, ci infantilizza: non dobbiamo provare emozioni negative; gli argomenti complessi devono essere tenuti lontani da noi. Le leggi della memoria sono una specie di terapia, una cura attraverso le parole. Nel ritratto del mondo tratteggiato da queste leggi, le parole dei bianchi hanno il potere magico di dissolvere le conseguenze storiche dello schiavismo, dei linciaggi e della soppressione del voto. Il razzismo finisce quando lo dicono i bianchi.

Se ne parliamo, cominciamo dicendo che non siamo razzisti. Questo ci fa sentire bene, quindi dobbiamo fare in modo che nessuno dica niente che possa turbarci. La lotta contro il razzismo si trasforma nella ricerca di un linguaggio che faccia sentire bene i bianchi. Le leggi stesse servono a modellare la retorica desiderata. Stiamo solo cercando di essere giusti. Ci comportiamo in maniera neutrale. Siamo innocenti. ◆ fas

Timothy Snyder insegna storia all’università di Yale, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin (Bur 2021). Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo The war on history is a war on democracy.

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Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati