La Finlandia ricorda un po’ i leggendari fratelli Pospíšilovi. Come l’imbattibile coppia di fratelli cecoslovacchi per venti volte campioni mondiali di ciclopalla, uno strano sport che combina il calcio e il ciclismo, così il paese nordico eccelle in un’altra specialità piuttosto peculiare: la capacità di resistere alla disinformazione. Dal 2017 le Open society foundations pubblicano un rapporto internazionale sul livello di educazione all’uso dei mass media nei singoli paesi. La Finlandia si è sempre classificata al primo posto con un ampio vantaggio. È questa la ragione per cui giornalisti investigativi e delegazioni da tutto il mondo visitano Helsinki in cerca del santo graal dell’era di internet.

All’inizio della nostra spedizione abbiamo scoperto un dettaglio affascinante: le radici del primato finlandese affondano oltre il circolo polare artico. Ad avviare lo studio sull’educazione ai mezzi d’informazione, trent’anni fa, è stato infatti un gruppo di esperti di pedagogia dell’università della Lapponia, a Rovaniemi. Le loro scoperte sono poi diventate parte integrante della formazione delle nuove generazioni di insegnanti finlandesi e hanno dato i loro frutti anche sui banchi di scuola. Uno degli esperti del gruppo, Leo Pekkala, oggi dirige il nuovo dipartimento di studi sull’educazione ai mezzi d’informazione creato nel 2012 presso l’Istituto audiovisivo finlandese, ma mantiene comunque un rapporto privilegiato con la Lapponia (Sápmi, in lingua sami), dove trascorre la maggior parte della settimana lavorativa. Quando c’incontriamo al bar di un albergo vicino alla stazione di Helsinki è in partenza per l’estremo nord.

“La nostra priorità non è semplicemente la lotta alla disinformazione. Non ha molto senso correggere le singole bugie”, afferma Pekkala, sorprendendoci un po’. Solo una minima parte dei finlandesi crede alle teorie del complotto. Sono cittadini che non hanno fiducia nello stato, e per chi lavora nelle istituzioni è praticamente impossibile fargli cambiare idea. “Al cuore del nostro lavoro c’è un approccio diverso: sostenere e rafforzare la società e la sua alfabetizzazione mediatica”, spiega Pekkala, secondo cui la resistenza dei finlandesi alla disinformazione è il risultato della combinazione tra l’educazione ai mass media e un sistema scolastico che insegna a capire i valori della democrazia, la politica, la società e il mondo.

Gli alunni cominciano a lavorare su questi aspetti fin dall’asilo. “Già a tre o quattro anni i bambini imparano a registrare storie con un telefono cellulare, magari video di mezzo minuto. E a scuola sono gli alunni stessi a creare video e articoli di giornale”, spiega Pekkala. “Grazie a queste attività cominciano a capire che dietro ogni storia c’è una persona che ha un determinato scopo, che seleziona e che offre al pubblico solo una parte della realtà o dei fatti”. Alle elementari e alle medie l’educazione ai mezzi d’informazione non fa capo a una materia specifica, ma le attraversa tutte, comprese la matematica e l’educazione fisica. Non c’è un manuale da seguire, ma idee e materiali diversi a cui ispirarsi, tutti forniti dallo staff di Pekkala, che poi aggiunge: “Va anche detto che l’insegnamento può variare molto da scuola a scuola”. Del resto, un pilastro dell’istruzione in Finlandia è da sempre l’impegnativo percorso formativo per gli aspiranti insegnanti che, una volta in servizio, hanno molta libertà nello svolgimento del loro lavoro.

Conoscenza e manipolazione

A due ore di treno a nord di Helsinki c’è la città di Tampere. E a mezz’ora di tram dalla stazione dei treni, ci sono il quartiere residenziale di Hervanta e l’istituto comprensivo Ahvenisjärvi, dove gli insegnanti sono estremamente disponibili a condividere le esperienze maturate sull’educazione ai mezzi d’informazione. In realtà ero in cerca del tipico istituto scolastico finlandese, ma poco dopo il mio arrivo a Helsinki ho saputo che quest’istituto ha una particolarità: è frequentato da un numero insolitamente alto di alunni provenienti da famiglie di origine straniera, più del 40 per cento.

Qui gli insegnanti non si sentono, e soprattutto non si comportano, come i “campioni del mondo” dell’educazione ai mass media. Per loro è un lavoro normale, e quasi si stupiscono dell’interesse di un visitatore venuto apposta dall’Europa centrale. Il punto è che gli approcci che considerano fondamentali per l’alfabetizzazione ai mezzi d’informazione non sembrano poi così sofisticati. Evidentemente, però, funzionano.

Johannes Koivisto insegna agli alunni di prima media. “Per fare un esempio”, dice, “durante la lezione di finlandese parliamo anche delle fonti d’informazione. Come trovarne di buone? Quali criteri usare per riconoscere quelle affidabili?”. Koivisto descrive agli alunni gli obiettivi dei tabloid – attirare lettori a ogni costo – e gli mostra i siti internet delle tv pubbliche e dei giornali più autorevoli. Spiega dove trovare informazioni interessanti in materie come le scienze naturali, da fonti chiare e affidabili. “Quando i ragazzi preparano delle ricerche, per esempio su un paese e la sua economia, gli chiedo sempre la lista delle fonti consultate”, spiega l’insegnante. Così facendo, se alcune sono di dubbia attendibilità, è possibile proporne di alternative e affidabili ed evitare che gli alunni cerchino informazioni su server sospetti. “Insegno a usare Wikipedia con cautela e a trattarla come un punto di partenza per risalire ad altre informazioni, non come una fonte oggettiva”. Alle scuole medie e nei primi due anni delle superiori c’è un solo insegnante per materia, e tutti cercano d’inserire l’educazione ai mezzi d’informazione nelle lezioni. Durante l’ora di matematica, per esempio, si studia come le statistiche e i grafici possano essere manipolati. Poi arriva la lezione di storia: la professoressa Taru Järvenpää apre il manuale per la seconda media alle pagine dedicate al colonialismo europeo. Ci sono brani tratti da giornali britannici e francesi dell’epoca sulla presunta missione civilizzatrice delle conquiste e immagini di propaganda. Questo dovrebbe stimolare gli studenti a interpretare in modo critico anche i dibattiti politici dei nostri giorni.

Järvenpää incoraggia lo spirito critico degli alunni perfino nei suoi confronti. “Gli dico che anche io posso sbagliare, che possono correggermi o mostrarmi che sono d’accordo in ogni momento. A volte sbaglio apposta per metterli alla prova. La maggior parte di loro non ci fa caso, ma c’è sempre qualcuno che si fa avanti”, racconta. La sua esperienza ventennale dimostra che insegnare spingendo i ragazzi a mettere in discussione l’autorità non li disorienta e non li priva della capacità di credere in qualcosa. “Al contrario, ho la sensazione che in questo modo la loro fiducia nell’insegnante, e in generale nella società, aumenti”, dice Järvenpää.

Sembra un metodo perfetto, ma l’insegnante fa notare un problema: “Negli ultimi dieci anni c’è stato un cambiamento radicale. Gli alunni hanno smesso di leggere a causa dei social network e oggi hanno seri problemi di comprensione del testo”. Succede anche in Finlandia, il paese che in passato è stato più volte primo nella classifica del Pisa (Programma per la valutazione internazionale degli studenti) per la categoria della comprensione del testo. “Gli scolari usano social media che noi non usiamo”, dice Järvenpää. “Questo significa che non condividiamo più la stessa realtà. In una situazione del genere è assolutamente fondamentale che non abbiano paura di farci domande. E in effetti non ne hanno: in classe parliamo di tutto”.

Secondo Järvenpää, un dibattito costante e aperto è fondamentale per l’educazione all’uso dei mass media. Durante l’intervallo i suoi studenti mi raccontano di aver creato con la loro insegnante un gruppo WhatsApp per condividere dei link e cercare di capire se contengono informazioni attendibili o false, per esempio sui vaccini anticovid. In questo modo gli insegnanti possono monitorare gli studenti, avere una visione generale di cosa pensa la classe o partecipare alla discussione.

Lezione d’inglese in una scuola di Vantaa, Finlandia, novembre 2018 (Rocco Rorandelli, Terraproject/Contrasto)

“Oltre alla lingua, noi proviamo a insegnare agli alunni anche come si leggono le immagini, i fumetti, le fotografie”, spiega l’insegnante Vilhelmiina Tuominen. Durante le lezioni con gli alunni di quattordici anni, Tuominen mostra una pubblicità televisiva. Poi tutti insieme discutono di come il regista ha cercato d’influenzare il pubblico e degli stratagemmi visivi usati nell’elaborazione del contenuto. Infine l’insegnante assegna agli alunni il compito di creare una pubblicità pensata da loro, sotto forma di immagine o breve video. “Questo vuol dire sperimentare direttamente cosa si deve fare se si vogliono influenzare gli altri, in questo caso i compagni di classe”, dice Tuominen.

Questa pratica dovrebbe non solo far capire i meccanismi che regolano la manipolazione e rendere gli alunni meno influenzabili dalla pubblicità, ma anche insegnargli qualcosa di positivo: come promuovere le loro idee nella società, ossia come essere attivisti in modo efficace.

L’importanza del contesto

Un’altra insegnante, Tara Kallio, ci mostra un libro di testo di lingua finlandese per la prima superiore. Insieme ai capitoli di grammatica, retorica, letteratura c’è una parte dedicata ai mezzi d’informazione, in cui si possono leggere notizie su Donald Trump o trovare immagini sulla crisi dei migranti: spunti per l’insegnamento basati su temi di grande attualità. Diverse pagine sono dedicate ai social media, Instagram compreso. E poi si illustrano le differenze tra un articolo di cronaca, un reportage, un commento e un post. “Cerco di spiegare agli studenti come funzionano gli algoritmi. Allo stesso tempo progetto spesso insieme a loro le mie pagine sui social, di modo che possano riconoscere in prima persona le diverse realtà presentate: la mia, per esempio, contiene un sacco di video di cucina”, sorride Kallio.

Durante la nostra conversazione le due insegnanti tornano ripetutamente su un punto: la cosa più importante è la discussione. Cercano di coinvolgere gli studenti trattando temi d’attualità con l’ausilio di un sito web appositamente pensato per loro dalla tv pubblica finlandese Yle, che offre video brevi su quello che succede in Ucraina o a Gaza e notizie scientifiche da discutere in classe.

Secondo diversi docenti, insegnare un uso consapevole dei mass media a bambini nati in famiglie non finlandesi, per esempio somale o siriane, è più difficile. “Ho notato che tendono con più facilità a credere alla disinformazione. E poi ovviamente usano social media o siti web in lingue che non conosciamo, e questo rende più difficile il nostro intervento”, dice Kallio. Anche Pekkala è d’accordo: la sfida principale è insegnare un uso consapevole dei mezzi d’informazione a un numero sempre crescente di immigrati e ai finlandesi più anziani. “Abbiamo una fitta rete di biblioteche che offrono corsi di formazione tecnologica per gli anziani”, dice l’esperto di pedagogia, “e poi formatori che lavorano con l’informazione. Al momento stiamo cercando soluzioni che funzionino per i migranti”.

Lingua e populismo

Spesso gli immigrati arrivano da contesti molto diversi da quello finlandese, da paesi autoritari dove tv e giornali hanno soprattutto il compito di diffondere la propaganda di regime. Tra loro la sfiducia nei confronti delle autorità statali è profondamente radicata. È un dato che contrasta totalmente con il modo di pensare dei finlandesi, la cui impermeabilità alla disinformazione è invece basata su una solida fiducia negli specialisti, nella politica e nei mezzi d’informazione tradizionali. In Finlandia, per fare un esempio, le teorie del complotto sui vaccini contro il covid hanno avuto scarso seguito. Molti sostengono che dipenda anche dalla lingua: il finlandese è così specifico e complesso che gli stranieri impegnati a diffondere disinformazione, cioè principalmente i russi, commettono facilmente errori grammaticali che finiscono per smascherarli.

Naturalmente questo non significa che i finlandesi non votino per i populisti: il partito nazionalista Veri finlandesi (Perussuomalaiset) ha ottenuto il 20 per cento alle elezioni del 2023 e fa parte della coalizione di governo. “Ma il loro successo non è dovuto alla disinformazione”, dice Pekkala. Secondo lui è semplicemente il risultato della diffusione delle posizioni di estrema destra nell’elettorato.

Quando gli chiediamo se pensa che il modello finlandese sia esportabile, Pekkala risponde con modestia: “Non abbiamo un modello standard. La nostra è una strategia globale basata sul contesto in cui è immersa la nostra società. Non si può applicare esattamente allo stesso modo altrove, non funzionerebbe”. Ed è vero: ogni paese dovrebbe trovare il modello che fa al caso suo. Ma è anche vero che l’importanza che la Finlandia dà all’educazione ai mass media, confermata dall’esistenza di un dipartimento apposito, indica qual è la strada da seguire. E poi, in fondo, i metodi descritti dagli insegnanti dell’istituto di Hervanta possono benissimo funzionare ovunque. ◆ ab

Da sapere
La propaganda del Cremlino

◆ “L’Unione europea non è mai stata così bersagliata dalla disinformazione. E non ne ha mai avuto tanta paura. ‘C’è un aumento rilevante sia della quantità sia della qualità di queste campagne’, ha lanciato l’allarme un alto funzionario europeo”. A meno di un mese dalle elezioni europee del 9 giugno, scrive il sito d’informazione Eunews, Bruxelles ha mobilitato tutti gli strumenti a sua disposizione: in prima linea il Servizio europeo d’azione esterna (Seae), ma anche l’Osservatorio sui media digitali (Edmo). Inoltre è entrato in vigore il Digital services act, la legge europea che regola gestione e rimozione dei contenuti illegali online: “C’è un rischio e vogliamo essere preparati”, spiega la fonte di Eunews. La minaccia è la macchina propagandistica del Cremlino: “Il 15 maggio gli ambasciatori dei 27 paesi membri hanno approvato nuove sanzioni nei confronti di quattro media russi alla luce della loro attività di disinformazione. A quanto si apprende, si tratta di Voice of Europe, Ria Novosti, Izvestia e Russia Gazeta. Che si aggiungono ad altri 14 colpiti dal divieto di trasmissione e dalla sospensione delle licenze”. Alcuni stati europei, però, non hanno ancora applicato le sanzioni, nemmeno quelle decise contro Sputnik e RT dopo l’invasione dell’Ucraina. “Nonostante le azioni preventive intraprese dall’Unione suggeriscano tutt’altro, ‘non presumiamo, almeno dagli indicatori di oggi, che ci sarà una campagna di manipolazione dell’informazione così massiccia per le elezioni’, dice la fonte. Resta il fatto che da gennaio l’Edmo ha rilevato un trend in crescita per quanto riguarda la disinformazione sulle politiche dell’Unione o le sue istituzioni”.

“Negli ultimi anni”, continua Eunews, “il Seae avrebbe individuato più di 17mila casi di disinformazione, una ‘tendenza in crescita’, ma ‘solo la punta dell’iceberg’, perché ‘più si cerca, più si trova’. In termini generali, le campagne di disinformazione ‘non sono mai costruite su un tema totalmente inventato’, ma ‘sfruttano un dibattito esistente’ e il ‘malcontento interno’”. I temi più ricorrenti sono l’Ucraina, il clima, le migrazioni e la comunità lgbt. “Il problema è che, insieme alla capacità dell’Unione di rilevare campagne di manipolazione, ‘sono migliorate anche le tecniche usate dai disinformatori’. Che sempre più spesso usano strumenti come l’intelligenza artificiale e lanciano campagne trasversali ‘contemporaneamente su più piattaforme’”. È il caso dell’operazione russa Doppelganger, smascherata a maggio del 2022, in cui erano stato clonati i siti di vari mezzi d’informazione – tra cui quelli della Bild, dell’Ansa e del Guardian – per diffondere articoli, video e notizie false. “Dalle indagini di Edmo è emersa anche la vicenda dei domini ‘Pravda’, attivati nell’arco di una settimana in 19 paesi dell’Unione europea. Una rete di pubblicazioni coordinate che utilizzava sempre lo stesso tipo di fonti, le agenzie di stampa controllate da Mosca”.

Anche la Commissione europea ha alzato al massimo il livello d’allerta, costruendo la propria politica contro la disinformazione su tre pilastri: oltre all’Edmo, esiste un codice di condotta sulla disinformazione firmato attualmente da 44 attori tra piattaforme online, associazioni di categoria e operatori del settore pubblicitario, e soprattutto da febbraio è entrata in vigore la legge Ue sui servizi digitali. Che non si occupa solo delle possibili influenze straniere, ma di tutti i “rischi sistemici”.


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Questo articolo è uscito sul numero 1564 di Internazionale, a pagina 59. Compra questo numero | Abbonati