Lo vedo. Se ne sta in piedi fiero, con le spalle indietro; è basso e tarchiato come un pitbull. La sua voce è fiera come la sua postura, forte e profonda, con un marcato, caldo accento andino. Quando ha il viso a riposo, la mascella larga e la testa quadrata gli danno un’aria severa. Ma mio padre è un artista, perciò il suo viso non è quasi mai a riposo. La maggior parte delle volte è solcato da un sorriso ampio e cordiale. Tiene il manico del charango nella mano sinistra, e lo suona con la mano destra, lisciandogli il pelo come se fosse vivo. La sua grande mano copre quasi tutta la cassa armonica.

Nei miei primi ricordi familiari avevamo un solo charango. Era uno di quelli tradizionali, fatti con la corazza di un armadillo, con ancora i peli sul dorso. Quando mio padre lo mostrava a qualcuno per la prima volta ripeteva sempre la stessa battuta: “Quando i capelli gli diventano troppo lunghi lo porto dal barbiere!”. La casa del charango era sopra il pianoforte, accanto alla porta d’ingresso, appeso per il manico in modo che mio padre potesse prenderlo e suonarlo facilmente. Faceva parte di una specie di murale che papà aveva creato appendendo gli strumenti alla parete. Mi ricordo che sistemava coreograficamente le quenas e le zampoñas, tracciandone i contorni e piantando dei piccoli chiodi negli angoli tra le canne della zampoña o direttamente nei fori delle quena. Papà aveva provato a insegnarmi a suonare la quena, ma avevo le dita troppo piccole e usciva sempre l’aria dai fori, e in più non riuscivo a stringere le labbra in modo da indirizzare il soffio nell’imboccatura. Così ero rimasta al flauto dolce. Quella parete, il pianoforte con sopra il murale degli strumenti, era una specie di focolare. D’estate l’aria torrida filtrava dalla zanzariera – i miei genitori rifiutavano testardamente di accendere il condizionatore – e mio padre si appisolava a torso nudo sulla sua poltrona reclinabile. Mi ricordo che il sudore gli faceva brillare la pelle scura come una pietra levigata dal fiume e che il suo dolce russare somigliava al rimbombo sommesso di un’ondata di caldo in arrivo.

Tiene il manico del charango nella mano sinistra, e lo suona con la mano destra, lisciandogli il pelo come se fosse vivo. La sua grande mano copre quasi tutta la cassa armonica

Una volta, siccome il mio fratellino Sebastián faceva i capricci, mio padre aveva preso una quena dalla parete e l’aveva usata per picchiarlo. Poi, senza fiato ed esasperato, si era stravaccato sullo sgabello, gettando la quena sopra il pianoforte. Era tutta scheggiata e rotta. Io ero scioccata, non perché mio padre aveva picchiato Seby, ma perché aveva rotto uno strumento. Si era fatto 16 ore di volo, tra andata e ritorno, per comprare quella quena. Ho ancora davanti agli occhi l’immagine di papà a Tarija, in Bolivia: divide pan e queso de cabra con sua madre morente, le dà un bacio per salutarla e prende l’autobus per andare in città. Entra in un negozio di strumenti e fa un accordo con il negoziante, un amico di un amico di un cugino. Prima di comprare la quena la suona, proprio lì, nel negozio. Il suono è fresco e chiaro come il vento. La prende.

Tornati negli Stati Uniti, ogni domenica i miei genitori caricavano me e Seby sul furgoncino di famiglia e ci portavano dall’altra parte della città, nel comprensorio per pensionati dove viveva la signora Dobson, la nostra maestra di pianoforte. Una di queste domeniche, la signora Dobson aveva organizzato un recital. Aveva chiesto a tutti di suonare, anche ai genitori. Io avevo eseguito alcuni brani insieme ad altri bambini imbranati. Poi arrivò il turno di mio padre. Suonò la storia del charango: è una storia che bisogna suonare, e mio padre la conosceva bene. Si mise a sedere sul bordo del divano coperto di plastica della signora Dobson, con il charango appoggiato sul ginocchio. Mio padre raccontava mentre il charango cantava.

La storia cominciava, come sempre, con il giovane inca e l’armadillo. I due sono amici, e passano insieme le giornate esplorando la giungla, procurandosi da mangiare e cantando.

Le mani di mio padre si muovevano veloci, la sinistra passando da un tasto all’altro, la destra pizzicando le corde. Suonava gli accordi intrecciandoli come strisce di stoffa colorata in un tessuto. Rossi, gialli, arancio – maggiori, primari e brillanti – e poi un altro paio di battute – verdi, blu e minori – per dare profondità. La musica era calda come una coperta, come un albero di Natale pieno di fili di luci, come i paracadute arcobaleno che lanciavamo in aria alle elementari. Ricordo che mi ci sedevo sotto mentre il drappo scendeva lentamente verso di me. Anche allora, me ne stavo lì sbalordita e immobile.

Mentre mio padre raccontava dell’uomo e dell’armadillo, le dita della sua mano destra si alternavano tra melodie arpeggiate e accordi. O meglio, sicuramente si alternavano, ma i passaggi erano talmente rapidi che tutto ciò che sentivo era simultaneo, melodie squillanti accompagnate dalle pennate degli accordi. Il charango sembrava al sicuro nella sua presa salda. Incredibilmente, papà non aveva nemmeno bisogno di guardarlo. Raccontava e suonava. Le sue dita sapevano sempre dov’era la corda successiva, la sua mano intorno al manico dello strumento si spostava per raggiungere i diversi tasti, senza esitazioni.

L’armadillo era innamorato della luna, diceva papà. La desiderava. Di notte la chiamava e le faceva la serenata. Le mani di mio padre si spostavano a ogni passaggio della storia. Descriveva la tristezza dell’armadillo quando la luna era velata dalle nuvole, e il charango gemeva. Singhiozzava in blu e verde.

Sara Zollo

Ho sempre ammirato mio padre per la delicatezza con cui suonava, con quelle sue mani da bruto. Erano rozze, piene di calli che si era fatto suonando il charango e la chitarra. E cicatrici, cicatrici dappertutto. Solo di alcune mi ha raccontato come se le è procurate. Sul dorso della mano sinistra aveva una linea orizzontale. Il primo suo lavoro negli Stati Uniti era stato in una fabbrica di materassi. Quando raggiungeva una certa quota gli davano un bonus, perciò lavorava veloce con la cucitrice per graffettare insieme i tessuti. Un giorno, per sbaglio, gli restò il palmo attaccato alla gommapiuma. Ora quando mio padre chiude il pugno le nocche gli scricchiolano come una macchina che passa sulla ghiaia.

Scherzava sempre dicendo che i nostri insegnanti di musica non riuscivano a credere che lui fosse capace di suonare, con quelle mani così brutte. “Non sanno cosa posso fare!”. E non lo sapevano. Al pianoforte, le sue mani pesanti erano leggere, sbarazzine e gioiose come un carosello. Alla chitarra erano precise e intricate. Al charango erano gentili. Non mi ha mai sconcertata la rapidità con cui riusciva a cambiare ruolo: cantante, amante, musicista, rissaiolo, sergente di ferro. Interpretava ognuno di questi ruoli con dedizione e buon umore. “Prima di fare a botte”, diceva, “do una possibilità a chi mi sta di fronte”. Alzava i pugni. “Il destro è più debole, ma è veloce. Il sinistro è lento, ma quando colpisce fa più male”.

Finita la canzone mio padre aveva tolto le mani dal charango per rivolgere un gesto al pubblico. Le sue mani e la sua voce volavano sopra la ciotola di cristallo del punch della signora Dobson, piena di Mountain Dew e sorbetto, volavano sopra il tavolino da caffè nel centro della stanza, sui bambini seduti a terra, sui genitori indietro, sulle sedie. Raccontava di come l’uomo e l’armadillo si guardavano le spalle a vicenda, si proteggevano l’un l’altro, tra tutte le creature della giungla.

Mio padre è cresciuto facendo a botte. Ha cominciato a lavorare come lustrascarpe, che non evoca immediatamente immagini di violenza. Però una precondizione per lustrare le scarpe sulla plaza era assicurarsi un posto dove piazzare il proprio banchetto. Mio padre mi raccontava sempre che gli altri ragazzi erano più grandi, e ogni giorno lo prendevano a botte. Tornava a casa zoppicando, si faceva rimettere in sesto dai suoi fratelli e poi ogni mattina tornava in piazza, per settimane. Anche se perdeva sempre, alla fine era diventato una tale seccatura che i ragazzi più grandi gli avevano lasciato un angolino. Ogni moneta guadagnata la portava a sua madre, che era single. Lei scoppiava a piangere, ma prendeva i soldi.

Le mani di mio padre tornano sul charango. Descrive il lento ritorno della luna, e la gioia dell’armadillo. La musica si tinge di nuovo di colori brillanti.

Ogni notte l’uomo e l’armadillo cominciano a fare la serenata alla luna. Preparano duetti da dedicare alla sua bellezza, inventano strumenti in suo onore.

Anch’io avevo delle cicatrici sulle mani, già allora, da bambina, mentre imparavo a suonare il piano. Ci passo sopra con la punta delle dita. Prima la saetta bianca e spessa lungo la nocca del mio dito medio destro, che mi sono fatta infilando la mano in un recinto per accarezzare un pitbull che credevo mansueto (vedendo l’osso sono quasi svenuta), poi il taglio quasi impercettibile sulla punta del mio indice sinistro. A sei anni mi avevano lasciata a casa da sola con mio fratello più grande e mi sono quasi mozzata la punta del dito. Mi ricordo che penzolava, attaccato a meno di un millimetro di pelle, mentre aspettavo che i miei genitori tornassero a casa.

Infine, le mie dita percorrono il cerchio bianco alla base del mio polso sinistro, quasi un centimetro di diametro. Intorno ai sette anni mi era spuntata una verruca sul polso, e a mio padre dava così sui nervi che alla fine aveva deciso di togliermela. Per inciderla aveva usato un tagliaunghie per i piedi e un coltello, il tutto mentre io strillavo come un’ossessa. Mi ricordo che mi urlava contro: “Perché gridi? Ti sto aiutando!”. Continuava a scavare nella ferita, anche dopo aver tolto la verruca, per assicurarsi che non si ripresentasse. Girava le pinze dentro di me come se dovesse estrarre i piroli dal ponte di una chitarra per cambiare le corde.

Per mio padre, il dolore è semplicemente un fatto della vita, un’altra striscia di colore nella trama. Affronta il suo con incrollabile stoicismo. Una volta, mentre stava costruendo una pergola di legno, per sbaglio si è schiacciato un dito con il martello, picchiando talmente forte che gli si è aperto in due. L’ho visto entrare in casa, pulirsi la ferita, riattaccarsi il pollice con lo scotch e tornare a lavorare. Se il dolore è una nota, il corpo è uno strumento, manipolato dalla forza di volontà per suonare qualsiasi canzone. Mio padre mi ha insegnato a far sembrare una passeggiata tre lavori e i turni di 14 ore. A casa si spogliava dell’abito di scena e si rabberciava con garze e ibuprofene. Rammendato e pronto per la prossima esibizione.

Non ho mai imparato a suonare bene il charango. Mio padre ha provato a insegnarmelo, mi diceva di premere le corde finché non mi facevano male, per farmi venire i calli. Io però non mi sono mai esercitata e le mie dita sono rimaste morbide. Temo che non suonerò mai la storia come lui. Ma posso descriverla.

Mio padre raggiunge il climax. Le mani si fermano e il charango tace. Una notte, l’armadillo s’incammina senza l’uomo. Cantando alla luna piena, passeggia fino alla riva del lago Titicaca e vede il riflesso della luna nell’acqua calda e scura. L’armadillo è sbigottito. “Com’è possibile che le luna sia così vicina?”. Così si tuffa nell’acqua per raggiungerla.

Curiosamente, mio padre sceglie questo momento per aggiungere un po’ di umorismo alla storia. “Lo sanno tutti, gli armadilli non sanno nuotare”. Riesco a vedere l’armadillo che sputa, gli occhi sbarrati, in preda al panico. L’acqua nera come l’inchiostro, spietata, gli entra nella trachea, poi nei polmoni. Chissà se ha continuato ad amare la luna anche in quel momento, mentre affogava.

Mi ricordo la notte in cui mio padre ha tentato di strozzarmi. Io gli avevo risposto male e lui mi aveva afferrata per il collo sottile, spingendomi contro una libreria sollevandomi fino a farmi sfiorare appena il tappeto con la punta degli alluci. Un vaso era caduto dalla libreria e si era rotto in mille pezzi. Il giorno dopo, a scuola, la mia migliore amica mi ha chiesto come mi ero fatta i tagli sui piedi. Gli occhi di mio padre sembravano duri, come biglie nere, e le sue dita salde e callose mi toglievano l’aria come se stessero premendo le corde di una chitarra. Mi domando quali urla flebili e acute sia riuscito a tirarmi fuori.

Il giorno dopo, quando l’uomo trova il corpo dell’armadillo sulla sponda del lago, decide di costruire un oggetto dalle spoglie del suo amico, per continuare a fare serenate alla luna per l’eternità. Questa è la storia del charango.

Quando mio padre ha finito, rimango seduta in silenzio. È ancora sul divano della mia maestra di piano, un’esplosione disgustosa di fiori pastello stampati e curve scomode. Si posa lì per un momento, fa un respiro e rimette a posto lo strumento.

Tra i sette e i 17 anni sono diventata ancora meno malleabile e obbediente. Per reazione, le sue mani sono diventate più ferme, più veloci e più dure. Sono scappata un anno prima di compiere 18 anni, ho troncato ogni comunicazione quando ne avevo venti. Sono mesi che non parlo con lui. Passeranno molti altri mesi, forse anni o addirittura di più prima che io ci parli di nuovo. Mi chiedo ancora cosa abbia pensato quando mi ha tenuta lì appesa al collo, saldamente nelle sue mani. Voleva rompermi e rincollarmi in una configurazione migliore? Doveva sapere che ero troppo testarda per spezzarmi. Al massimo poteva lasciarmi addosso una cicatrice, indurendo la mia scorza e rafforzando la mia determinazione.

Mio padre è dovuto passare per tre maschi prima di avere una femmina. Lo vedo quando sono appena nata. Sono così piccola che riesce a tenermi con un braccio solo, la mia testa nella sua mano callosa. Mi culla contro il suo stomaco robusto e canta ninne nanne spagnole per farmi addormentare. Sono nata con una testa piena di capelli neri e folti. Li accarezza dolcemente sulla mia testa soffice.

Mi hija. ◆ fas

Valerie Argentina Calvo lavora come social media manager e graphic designer e vive a Chapel Hill, in North Carolina, Stati Uniti. Statunitense di origini boliviane, scrive di temi come l’identità, i luoghi e l’assimilazione. Questo racconto è uscito su Longreads con il titolo The charango.

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Questo articolo è uscito sul numero 1601 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati