Se dovessi scegliere quale opera narrativa rifletteva con più chiarezza la società all’inizio del 2020, io punterei sulla serie tv I may destroy you – Trauma e rinascita di Michaela Coel. Nel raccontare l’ascesa alla notorietà come scrittrice e commentatrice culturale di una giovane donna e la sua lotta contro le conseguenze di uno stupro, la serie tocca i vari dibattiti sociali e politici che hanno definito i primi decenni del secolo: il potere dei social network, il pregiudizio razziale, la violenza sessuale e perfino la crisi climatica.
Quando la serie è andata in onda, la politica era già entrata in uno stato di caos: la fine dell’epoca di Donald Trump negli Stati Uniti, il culmine delle proteste del movimento Black lives matter dopo l’uccisione di George Floyd, l’inizio della pandemia di covid-19. Le società democratiche si erano trovate a dover prendere decisioni cruciali ma, nella strana nuova logica dei social network, la quantità di energia profusa nel contrastare l’irrazionalità, nel livore e nella paranoia era tale da minare la speranza nel progresso.
In questo ambiente così teso, la scelta di Coel della commedia non è solo acuta, ma anche saggia. In una scena che mi è rimasta impressa, Arabella (la protagonista, interpretata dalla stessa Coel) accetta un lavoro come influencer per promuovere una startup vegana, ma comincia ad avere la sensazione di essersi venduta a un’azienda che difende gli interessi della classe media bianca. Alla fine decide di sabotarne il messaggio, abbuffandosi di pollo fritto durante una diretta in streaming. Coel è maestra nel creare quella che potremmo definire una suspense morale, in cui il pubblico trattiene il fiato in attesa non del colpo di scena, ma della posizione che assumerà la serie. L’autrice vuole che concordiamo con il punto di vista della protagonista e ci convinciamo che la crisi climatica è un problema della classe media bianca? Coel sostiene questa idea con un ritmo incalzante. Quando Arabella festeggia con gli amici dopo aver sciolto il suo contratto con i vegani, dà l’impressione che per lei questo sia un grande atto di ribellione. Tuttavia, alla fine dell’episodio, poco prima dei titoli di coda, è mostrato un veloce montaggio di scene di devastazione provocate dal clima.
Opere di finzione come I may destroy you sono tra i modi in cui affrontiamo le questioni politiche più attuali. Parlo di narrativa, ma potrei parlare anche di arte nel senso più ampio del termine: romanzi, album di musica pop, film, videogiochi, installazioni artistiche. Il romanzo di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella (1985) critica l’oppressione patriarcale; l’album Lemonade di Beyoncé (2016) afferma valori antirazzisti; la serie di giochi per la PlayStation Horizon di Guerrilla games/Sony (nata nel 2017) riflette sulle conseguenze del disastro climatico. Il talento degli artisti che intrecciano queste tematiche nelle loro opere è straordinario, ma è lecito chiedersi se le opere d’arte contribuiscano al dibattito politico o se non facciano altro che rifletterlo. I may destroy you indica i dibattiti in corso? O fa compiere a quei dibattiti dei passi in avanti, come potrebbero fare un teorico, una giornalista o un professore?
La questione del ruolo dell’arte nella sfera politica risale almeno all’antica diatriba tra poesia e filosofia di cui parla Platone, che si chiede quale forma di pensiero sia più adatta a mostrare la via verso la giustizia. Nel novecento il ruolo politico dell’arte è stato un argomento centrale nel lavoro di molti filosofi, da Theodor Adorno a Walter Benjamin, alla disputa tra W.E.B. Du Bois e Alain Locke. Oggi però ha senso porre la questione del rapporto tra arte e politica nel contesto della crisi in cui la democrazia sembra essere entrata negli ultimi dieci anni. Le risposte intellettuali dominanti hanno semmai allontanato ulteriormente l’arte dalla sfera della rilevanza politica.
È una crisi che ci è diventata familiare: polarizzazione, scomparsa del consenso, violenza del discorso pubblico, diffusione della disinformazione. Uno dei modi per far fronte a questa situazione è stato una sorta di ritorno all’ordine: una richiesta di fatti, imparzialità, obiettività. Diversi scienziati e giudici hanno finito per incarnare nell’immaginario pubblico questo ostinato bisogno di una calma razionalità. Pensiamo a Chris Whitty, consulente del governo per la sanità pubblica in Inghilterra, che tira dritto dignitosamente mentre è avvicinato da due teppisti che negano il covid-19, o al composto intervento di Brenda Hale – ex presidente della corte suprema britannica, famosa per la sua spilla a forma di ragno – mentre decreta che la sospensione del parlamento voluta dall’allora primo ministro Boris Johnson è illegale.
I filosofi analitici, tra cui di recente Michael Hannon, hanno osservato che per difenderci dalla polarizzazione dobbiamo coltivare la virtù dell’obiettività. Perfino nell’ambito degli studi sul cinema e sull’arte, tradizionalmente votati alle critiche postmoderniste della razionalità, alcuni critici come Erika Balsom hanno suggerito che “potrebbe essere necessario salvare” i vecchi princìpi dell’illuminismo e dell’empirismo. Contemporaneamente gli scienziati sociali hanno testato vari approcci per rendere l’elettorato più razionale: i miei colleghi dell’università di Liverpool, nel Regno Unito, insieme ai ricercatori dell’università di Dundee, hanno testato come strumento di protezione contro le notizie false un software che cerca di pensare come un filosofo. Tutto questo riporta ai nostri tentativi di aprirci una strada che ci avvicini all’idea di sfera pubblica ideale, definita in modo memorabile da Jürgen Habermas come una sfera in cui niente, a parte la “forza dell’argomento migliore”, dovrebbe strutturare la nostra comunicazione.
L’arte permette al pubblico di affrontare questioni che stanno al cuore degli scontri politici sospendendo momentaneamente il giudizio su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato
L’altra risposta alla crisi democratica è stata, al contrario, un appello ad abbandonare la discussione pacata, a favore della rabbia in quanto forza politica, dell’indignazione, del dire la verità in faccia al potere. Forse ricorderete il successo del breve saggio politico Indignatevi! (Add editore 2011) del diplomatico francese Stéphane Hessel, che all’epoca aveva 93 anni. La sua rabbia era indirizzata soprattutto al trattamento riservato ai palestinesi e all’avidità della classe finanziaria (il titolo di Hessel è servito a dare il nome agli indignados, un movimento spagnolo contro il governo), ma da allora l’argomentazione a favore del discorso pieno di passione è stata sposata da movimenti che vanno da Extinction rebellion a Black lives matter. In un periodo di crisi, le discussioni difficili diventano, come ha detto l’attivista Greta Thunberg alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite di Glasgow nel 2021, solo un “bla bla bla”, a cui possiamo contrapporre una martellante presa di posizione. Anche nel campo della filosofia il discorso appassionato si è conquistato nuovi difensori, come la citatissima analisi della rabbia in quanto emozione politicamente produttiva della filosofa Amia Srinivasan.
La razionalità deliberativa e il discorso appassionato – o, sintetizzando, obiettività e attivismo – emergono dunque come gli ideali gemelli del discorso pubblico per la nostra epoca. In quanto ideali, sono stati invocati sia l’uno contro l’altro sia insieme. A fargli appello è l’intero spettro politico, anche se le diverse parti dubitano delle reciproche rivendicazioni di obiettività e mettono in discussione la reciproca legittimità dell’attivismo degli avversari. Però la cosa interessante da notare è che nessuno di questi ideali ha davvero senso nel regno dell’estetica, se con questo termine così controverso indichiamo le caratteristiche del discorso che è più facile trovare nell’arte. Ambiguità, ironia, indeterminatezza, complessità irrisolta, meraviglia, disorientamento, allegoria, allusione: queste modalità di discorso sono troppo imprecise per l’obiettività e troppo poco impegnate per l’attivismo, perciò non possono essere sostenute da nessuna delle due parti in causa.
Consideriamo per esempio ciò che i due ideali di discorso politico avrebbero da dire sugli elementi più estetici di un’opera d’arte con temi sociali, come Non cadrà più la neve (2020), un eccellente film polacco di Małgorzata Szumowska e Michał Englert che affronta il tema della crisi climatica. Con una flessione magico-realistica, il film mappa l’arrivo di Żenia, un attraente massaggiatore ucraino con poteri misteriosi, in una comunità privilegiata e reclusa in Polonia. Żenia se ne va in giro a offrire i suoi massaggi che fanno fare bellissimi sogni ai nuovi ricchi polacchi, sollevandoli momentaneamente dalla loro solitudine e dal loro terrore esistenziale. Solo verso la fine il film lascia emergere il suo significato allegorico e diventa il ritratto di una società globale angosciata ma inattiva, che si dirige come un sonnambulo verso il disastro del riscaldamento globale. Ambientato in un inverno particolarmente nevoso, il film si conclude con una sequenza di cartelli che annunciano: “Le previsioni dicono che dopo il 2025 non ci sarà più neve”.
Il film è indubbiamente compiuto sotto il profilo artistico: una recensione ha colto nel segno definendolo “ricco di allusioni sociopolitiche e modulazioni d’umore delicate e vibranti”. Questa maestria artistica potrebbe comunque sembrare piuttosto inutile dal punto di vista del confronto dei nostri ideali. Sotto il profilo dell’attivismo, tutto questo riflettere su massaggiatori magici non basta a darci una scossa e spingerci ad agire. Dal punto di vista dell’obiettività, l’allegoria del film non è una grande guida alla verità. Perfino la sua previsione finale non sembra fondarsi su dati di fatto scientifici.
Dubbi di questo tipo potrebbero essere espressi in modo diretto da chi è ostile all’arte, ma ultimamente cominciano a emergere con sempre maggiore evidenza anche in ambito artistico. La svolta in direzione dei fatti e dell’obiettività si può osservare per esempio nel lavoro del collettivo londinese Forensic architecture, le cui installazioni offrono controindagini empiriche di diverse violazioni dei diritti umani. Lodando questo nuovo spirito di ricerca, il curatore e artista Paolo Cirio ha invocato una svolta verso “il realismo documentale” nelle arti, la fine cioè del relativismo postmodernista a favore di presentazioni dei fatti relativamente asciutte e basate sulla ricerca. L’attivismo, dal canto suo, è una forza visibile nell’arte da molto più tempo. È stato definito “artivismo” o “arte socialmente impegnata” e lo si può vedere per esempio nella mostra Documenta di quest’anno a Kassel, in Germania, interamente dedicata alla presentazione dell’attivismo artistico dal basso che si muove lungo percorsi contrari all’imperialismo e alla globalizzazione.
Per quanto valide dal punto di vista politico, queste tendenze non spiegano cosa possa esserci di valido in quegli aspetti delle arti che le differenziano da altre forme di attività politica. Magari concordiamo sul fatto che le arti dovrebbero poter mostrare una posizione, ma non abbiamo ancora chiaro cosa potrebbero essere dal punto di vista sociale, oltre a un’estensione della normale attività politica. Se siamo d’accordo sul fatto che oggi la democrazia è in crisi, le modalità artistiche del discorso che sembrano intrattenere solo un rapporto indiretto con le lotte politiche – ambiguità, indeterminatezza, allusione, complessità, meraviglia e via dicendo – possono produrre qualche beneficio?
Uno sviluppo importante nella trama di I may destroy you comincia quando, durante un rapporto sessuale consensuale, il partner di Arabella si toglie il preservativo senza che lei abbia dato il suo consenso. Dopo molto dolore e rabbia lei rivela in pubblico cosa le ha fatto quel ragazzo, e il racconto sfocerà nell’esclusione di quest’ultimo dalla scena letteraria della quale fanno entrambi parte. Il racconto del momento in cui Arabella prende in mano la sua vita, tuttavia, diventa anche una narrazione del momento in cui si fa prendere la mano: in rete diventa una voce che denuncia diverse ingiustizie e il suo fervore la porta a litigare con i suoi amici. La serie mette dunque in primo piano due questioni al centro del dibattito pubblico – la violenza sessuale sperimentata dalle donne e la cosiddetta cancel culture – e le accosta in una vicinanza tesa.
Coel mette ancora una volta in scena quella suspense morale: l’ansia che da spettatori avvertiamo sulla direzione in cui andrà il giudizio morale dell’autrice. Arabella, che sta anche affrontando il trauma di un precedente stupro, è giustificata nella sua rabbia o si è spinta, per così dire, troppo oltre? Invece di rispondere a queste domande, però, la serie si limita a mantenere il suo sguardo sulla situazione in sé. La prevalenza dell’abuso sessuale e il terribile costo emotivo che questo comporta per chi gli sopravvive esistono, e la serie ce li fa vedere. Il titolo della serie (I may destroy you in italiano significa “posso distruggerti”) allude a tutti questi temi. La cosa davvero magistrale nel modo in cui l’autrice li affronta è la sua capacità di mantenerli a fuoco senza saltare a conclusioni etiche.
Un’opera d’arte – un romanzo, una serie tv, una rappresentazione teatrale, un dipinto – può mantenerci sospesi in uno spazio di contemplazione di una realtà sociale senza costringerci ad arrivare a una conclusione. A differenza di un’argomentazione o di una chiamata all’azione, l’arte può mantenerci in quello spazio che precede il “quindi” finale. È questa sua indeterminatezza a distinguerla tanto dagli approcci obiettivi quanto da quelli attivisti alla discussione politica, in cui chi parla cerca di portare il pubblico a concordare con un’affermazione sulla base dell’argomentazione o del sentimento. Quindi che beneficio può esserci nella possibilità di fermare il pensiero prima dell’invocazione finale a credere o ad agire?
Ho un sospetto: tanto le argomentazioni obiettive quanto quelle attiviste, per quanto necessarie al funzionamento della democrazia, si fondano su una dinamica di opposizione. Che questa opposizione sia sulla base della correttezza o della moralità, la dinamica sottintesa al confronto richiede che una delle due parti perda, ceda alla forza superiore dell’“argomento migliore”.
Idealmente, tra esseri umani razionali questo dovrebbe succedere in modo semplice, senza risentimento. Ma nella vera vita politica è impossibile districare il disaccordo politico dall’appartenenza a un gruppo e dall’interesse personale. Gli psicologi sociali che studiano il cosiddetto effetto di ritorno di fiamma hanno scoperto, per esempio, che le persone tendono ad arroccarsi nelle loro posizioni anche di fronte a prove neutrali ma in conflitto con le loro idee. Questo è facilmente confermato nell’esperienza di tutti i giorni: se un oppositore politico afferma qualcosa di convincente, è raro che ci limitiamo a correggere le nostre idee; più spesso ci ritiriamo in un silenzio incupito a rimuginare su una possibile replica. Come nel caso della disputa nel paese di Lilliput sul modo migliore per rompere un uovo raccontata nei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1726), anche le controversie più banali possono diventare una questione di vita o di morte se animate dall’antagonismo di parte.
Non sto affatto dicendo che argomentazione razionale e persuasione attivista in democrazia non siano necessarie. Certo che lo sono. Ma se l’attuale crisi della democrazia è in parte causata da un intensificarsi della polarizzazione e dall’antagonismo di gruppo, allora forse potremmo trarre beneficio anche da forme di pensiero non basate su uno scontro di posizioni. L’arte può offrire proprio questo genere di spazio di pensiero strano e indeterminato, in cui per un istante l’antiteticità tace. Le opere d’arte offrono la possibilità di cambiare le regole nel gioco del discorso; permettono di riflettere su questioni sociali condivise senza dover per forza invocare l’umiliante opposizione tra chi ha ragione e chi ha torto.
Allontanandoci da Coel e mettendo a fuoco il contributo che le arti hanno dato ai tanti cambiamenti sociali del novecento, diventa opportuno dire qualcosa su questo modello. Per esempio, il lento progresso dei diritti dei gay nella maggior parte delle democrazie nella seconda metà del secolo scorso sembra essere stato reso possibile, almeno in parte, da opere d’arte che, pur non adottando una posizione apertamente attivista, hanno abituato il loro pubblico a osservare i rapporti tra persone dello stesso sesso come qualcosa che merita interesse. Il racconto La camera di Giovanni di James Baldwin (1956), il dipinto Peter getting out of Nick’s pool di David Hockney (1966) o, per fare un esempio più recente, il fumetto Il blu è un colore caldo di Julie Maroh (2010) non avanzano richieste politiche, ma creano mondi di finzione in cui è possibile contemplare vite queer.
Anche pensare a questioni più specifiche di società particolari potrebbe rendere più sopportabile il dibattito politico, eliminando il bisogno di prendere una posizione. Per esempio, mentre Italia e Germania facevano i conti con il ricordo del fascismo e del nazismo nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, è stato necessario porre più e più volte, per diversi decenni, l’interrogativo insolubile sul grado di colpa dei cittadini comuni. Il film Amarcord di Federico Fellini (1973) o il romanzo Il lettore di Bernhard Schlink (1995) mostrano entrambi, pur con stili profondamente diversi, il comportamento di persone comuni rimaste intrappolate in un fervore politico imperdonabile, senza però trasmettere su di loro un netto giudizio morale. È importante sottolineare che non si sta invocando un’assoluzione. Prese nei loro contesti d’origine, possiamo piuttosto pensare a queste opere d’arte come a un modo per permettere ai cittadini italiani o tedeschi di riflettere su una questione ancora controversa senza trarre immediatamente delle conclusioni, senza timore di sbagliarsi, senza dividersi immediatamente tra salvati e dannati.
Allora, l’arte contribuisce alle discussioni politiche o si limita a rifletterle? Possiamo cominciare a offrire una risposta. L’arte, forse la sola tra tutte le forme di confronto che abbiamo a disposizione, permette al pubblico di affrontare questioni che stanno al cuore degli scontri politici sospendendo momentaneamente il giudizio su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Lo spazio dell’estetica non è pienamente politico né anti-politico, ma si colloca di traverso. Ci permette di partecipare alla politica sollevandoci dal peso di assumere una posizione. Naturalmente non sto suggerendo che questa modalità estetica e indeterminata sia migliore dell’obiettività o dell’attivismo. Suggerisco piuttosto che la sfera pubblica democratica richiede una pluralità di modalità di discorso diverse tra loro, tra cui le arti giocano un ruolo specifico.
Per concludere, come d’abitudine nella riflessione filosofica, occupiamoci delle obiezioni. La prima è quella in cui è più comune imbattersi: dov’è la prova, dove sono gli esperimenti empirici che dimostrano questi teorici benefici dell’arte? Per esempio, tornando al film polacco magico-realistico Non cadrà più la neve, come possiamo dimostrare che abbia determinato qualche cambiamento, per i singoli spettatori o per la società in generale, nel dibattito sul clima?
Potrebbe capitare di dover rispondere a domande di questo tipo, in particolare nella pratica ormai comune di misurare gli effetti del pensiero. Vediamo questa tendenza nella monotona richiesta da parte dei finanziatori culturali e accademici di dimostrare gli effetti non solo delle arti ma anche della ricerca nel campo delle scienze umane. Distribuire questionari alle persone che hanno visto mostre artistiche o film, come suggerito dall’Arts council England, un ente pubblico britannico, sembra però paragonabile al tentativo di catturare una farfalla con un hula-hoop: i cambiamenti in ciò a cui le persone credono richiedono tempo e moltissime esperienze, ciascuna delle quali (si tratti di un’opera d’arte o di qualcos’altro) giocherà una piccolissima parte, difficile da distinguere con precisione. Quindi dove possiamo cercare delle prove? Alcuni studi di psicologia sociale misurano gli effetti che alcune componenti comuni delle opere d’arte hanno sulla persuasione politica, per esempio quelli della narrativa o dell’umorismo, e questo può forse offrire una prova preziosa ma indiretta del ruolo positivo delle arti in quel contesto. Ma forse l’unico esperimento reale per misurare l’effetto delle arti sul discorso pubblico dovrebbe coinvolgere due società parallele, identiche sotto tutti i punti di vista tranne che per la produzione artistica, totalmente assente in una delle due. Si dovrebbero governare queste due società e valutare se in quella priva di arte i problemi politici siano affrontati con maggiore o minore efficacia.
Secondo me, anziché distribuire questionari dopo le mostre dovremmo cercare prove nella storia delle arti. Mi sembra piuttosto evidente che ci sono molti cambiamenti sociopolitici a cui le arti non hanno in realtà contribuito positivamente (per esempio la chiusura del buco dell’ozono o le politiche sul fumo). È però difficile immaginare il grande cambiamento politico nell’ambito del multiculturalismo, dei diritti umani o dei diritti dei gay avvenuto nelle democrazie moderne negli ultimi cinquant’anni senza invocare il modo in cui questi temi sono stati affrontati nella sfera della produzione artistica e culturale. Potrei spingermi a dire che ci sono posizioni politiche a cui non siamo riusciti a dare una più ampia portata culturale attraverso le arti – per esempio l’attivismo contro l’evasione fiscale o il recente movimento dell’altruismo efficace – e che proprio per questo non si sono radicate nella coscienza di un segmento più ampio della popolazione.
La seconda preoccupazione che spesso è espressa sul possibile contributo che l’arte può offrire al discorso politico riguarda la sua capacità di penetrazione. Forse, direte, opere d’arte di qualità eccezionale possono permettere ai cittadini di affrontare questioni politiche divisive senza le trappole dell’antagonismo. Ma gli scettici sulla crisi climatica andranno a vedere un film d’autore polacco che è un’allegoria sul riscaldamento globale? Gli omofobi leggevano La camera di Giovanni nel 1956? I may destroy you non si rivolge a un pubblico in larga misura già metropolitano e progressista? Insomma, i dibattiti generati dall’arte coinvolgono solo persone già d’accordo tra loro?
La domanda “ma chi ha visto quell’opera?” allude a un più ampio problema che riguarda la sfera pubblica: chi sta parlando a chi, e attraverso quali mezzi di comunicazione. Se abbiamo una concezione abbastanza ampia dell’arte – tale da includere, per esempio, i videogiochi e la musica pop – allora la sua portata è sicuramente molto grande, pur segmentandosi sempre lungo linee demografiche. Per chiamare in causa uno stereotipo, può succedere che i conservatori siano attratti da forme artistiche tradizionali mentre i progressisti lo siano da quelle che, per forma o contenuto, mettono in discussione lo status quo. Quando questo succede, quando un’opera d’arte si prefigge anzitutto di esprimere una posizione, potremmo effettivamente avere la sensazione che le arti predichino ai convertiti. Se però una qualsiasi opera d’arte tenta di creare uno spazio di pensiero in cui è possibile l’indeterminatezza e in cui si verifica qualcosa di diverso rispetto al prendere una posizione, allora il dibattito va in un’altra direzione.
Se il valore di un’opera d’arte è permettere di occuparci di politica senza l’antagonismo di parte, allora dovremmo sentirci a nostro agio a confrontarci con quelle creazioni artistiche, a prescindere dal nostro convincimento politico. Il valore delle arti, in altri termini, s’intreccia al valore stesso della democrazia, e questa è già di per sé una buona ragione per cui lo stato dovrebbe sostenerle e promuoverle. ◆ gim
Vid Simoniti insegna filosofia all’università di Liverpool, nel Regno Unito, dove dirige anche il corso di laurea magistrale di arte, filosofia e istituzioni culturali. Questo articolo è uscito su Aeon, giornale online di cultura e filosofia, con il titolo What does art do?.
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Questo articolo è uscito sul numero 1489 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati