“Voglio solo avere un figlio sano”, dice Shazia, trentenne di Jhelum, nel nord del Pakistan. Ha attraversato il paese nella speranza di avere un bambino che possa sopravvivere oltre i sette anni. Sposata a un cugino di secondo grado, ha subìto due aborti spontanei e un aborto indotto, e i suoi due figli sono morti a sette e tre anni.
Seduta nella sala con aria condizionata di uno dei principali ospedali di Karachi, Shazia appare visibilmente nervosa. È arrivata nella clinica di consulenza genetica accompagnata dalla sorella e ora confida le sue preoccupazioni: “Tutti i miei figli muoiono. Durante la gravidanza sembrano sani, ma sei mesi dopo il parto cominciano a mostrare delle anomalie e soffrono moltissimo prima di morire”. Dopo i primi due figli, che hanno vissuto una vera agonia, Shazia ha deciso di interrompere la terza gravidanza. Poi ha avuto due aborti spontanei.
Il marito è cugino di primo grado di sua madre. Come in molte famiglie consanguinee, nella sua c’è un’alta percentuale di tumori. La consanguineità implica l’unione tra “due persone con uno o più antenati in comune”, il che aumenta la probabilità che un figlio abbia una malattia genetica. In parole semplici, ciascuno di noi ha due copie di ciascun gene, ereditate dai genitori. Se sia la madre sia il padre hanno una copia alterata di un gene, aumenta la probabilità che il figlio erediti le due copie difettose e che la malattia si manifesti. E poiché le persone di una stessa famiglia hanno geni simili, le possibilità che il bambino riceva queste copie di geni alterati aumentano.
Shazia si è rivolta all’ospedale dell’università Aga Khan (Akuh) per sapere se poteva sperare di avere un figlio sano. Il suo ottimismo non è infondato perché, anche quando entrambi i genitori sono portatori dello stesso disturbo recessivo, cioè hanno il gene mutato senza avere la malattia, la probabilità che il figlio erediti entrambe le copie difettose è del 25 per cento: esistono quindi tre possibilità su quattro che il figlio sia sano, anche se potenzialmente sarà un portatore.
Portatori inconsapevoli
Una malattia autosomica (cioè dovuta a un’alterazione dei cromosomi non sessuali) recessiva si sviluppa solo se entrambi i genitori sono portatori. “Tutti sono portatori di qualcosa”, spiega il dottor Salman Kirmani, genetista e direttore della divisione per la salute materno-infantile dell’Akuh. “In media, un essere umano è portatore di due o tre malattie, ma può non esserne consapevole. Sposarsi all’interno della stessa famiglia aumenta la probabilità che si formi una coppia di portatori”, aggiunge.
Questo non significa che se avete quattro figli uno sarà malato, un altro perfettamente sano e due saranno portatori: ogni volta che avviene la fecondazione – durante il concepimento – c’è il 25 per cento di possibilità di avere un figlio sano, il 25 per cento di averne uno malato e il 50 per cento di avere un figlio portatore sano. E la probabilità è la stessa per ogni gravidanza. Questo spiega perché alcune malattie genetiche, come la talassemia, la fibrosi cistica e l’atrofia muscolare spinale (Sma), sono più diffuse in Pakistan che nei paesi occidentali: per l’alto tasso di consanguineità.
Poiché tutti i figli di Shazia sono morti, è molto difficile stabilire se la condizione di cui soffrivano era effettivamente genetica. Non è l’unica a trovarsi in questa situazione. Nel rilevamento del 2017-2018, quasi la metà delle donne tra i 15 e i 49 anni in Pakistan dichiarava di aver sposato un cugino di primo grado. Ma queste cifre non tengono conto delle persone che vivono all’interno della stessa comunità. Per esempio, spiega il dottor Kirmani, “se interpellate una coppia che viene da una particolare comunità, potrebbe rispondervi che loro non si sposano tra cugini. Ma se appartengono a una comunità piccola e unita, sicuramente ci sono degli antenati in comune”.
Un’altra pratica frequente è quella di sposarsi all’interno della stessa casta, perpetuando così generazioni di consanguineità: “In Pakistan ci sono villaggi isolati in cui gli abitanti spesso sposano i cugini di primo grado per generazioni”.
Come Shazia, anche Akbar e Fatima si sono rivolti alla clinica di consulenza genetica con i loro due figli, di tre e un anno. I due bambini mostravano segni di rachitismo e risposte motorie più lente della media dei bambini della loro età. Marito e moglie sono figli di due sorelle e sono imparentati anche per linea paterna, quindi il loro livello di consanguineità è ancora più alto. Preoccupati per la salute del prossimo figlio, sono venuti in ospedale sperando di scoprire come ridurre il rischio di anomalie. Non è la prima volta che chiedono consiglio a degli specialisti. A Lahore avevano già consultato un medico che si era limitato ad attribuire la situazione all’uso di sposarsi tra cugini. Ma ignorare il contesto socioculturale all’origine di queste unioni e incolpare le singole persone è sbagliato.
Il dottor Kirmani crede che le unioni tra consanguinei siano spesso oggetto di critiche semplicistiche invece che di analisi sfaccettate. “Negli ambienti più istruiti del Pakistan, e soprattutto tra i medici, prevale una forte ostilità verso i matrimoni tra cugini. Si tende a colpevolizzare le coppie”, spiega. “Ma è una crudeltà! Se tenessi una conferenza davanti a un centinaio di medici e chiedessi quanti di loro sono sposati a cugini oppure hanno genitori che sono cugini tra loro, probabilmente metà della sala alzerebbe la mano. Alcuni potrebbero non alzarla per l’imbarazzo”, continua.
La consanguineità è talmente radicata nella società pachistana, sottolinea, che non ha senso attaccare le scelte individuali. Sarebbe stato lecito pensare che Kirmani, da genetista, fosse fortemente contrario alle unioni tra cugini. Ma lui è convinto che il matrimonio tra un uomo e una donna sia una questione che riguarda solo loro. “I medici come me, i personaggi pubblici o gli esponenti religiosi non dovrebbero influire su quello che le persone decidono di fare. Il principio fondamentale è l’autonomia”. Certamente ci sono dei rischi, e i medici dovrebbero informare i pazienti. Ma è essenziale capire che anche in un’unione tra non consanguinei c’è “l’1 o il 2 per cento di possibilità di alterazioni genetiche alla nascita”. E c’è sempre la possibilità che anche qualcuno al di fuori della famiglia sia portatore di un gene mutato.
Molti sostengono la necessità di proibire i matrimoni tra consanguinei. Di fatto, una decina di anni fa nel Sindh e nel Khyber Pakhtunkhwa le assemblee provinciali hanno approvato una legge che rende obbligatorio per le coppie sposate sottoporsi al test per la talassemia. Ma, come avviene per altre leggi, questo provvedimento non solo non è applicato, ma non considera neanche le potenziali conseguenze negative, in particolare per i gruppi emarginati. “Supponiamo che un uomo e una donna in un villaggio o in una comunità ristretta facciano il test ed entrambi risultino positivi”, dice il dottor Kirmani. “In casa fervono i preparativi per le nozze, è già tutto stabilito, che si fa? Gli si dice ‘andate ognuno per la sua strada’?”. Inoltre non sono previste misure rigorose per tenere riservate queste informazioni. “Spesso si dà la colpa di tutto alla donna, e niente resta privato. Se la coppia decide di rinunciare al matrimonio, è più facile per l’uomo trovare una nuova compagna al di fuori della famiglia, senza neppure rivelare di essere un portatore”. Mentre la donna sarebbe “condannata dall’intera comunità del villaggio: ‘il suo sangue è cattivo, non sposarla’”.
Considerando le conseguenze potenzialmente catastrofiche di uno screening di massa, le leggi sui test genetici devono essere valutate con la massima attenzione, tenendo conto dei contesti locali. “Queste norme, inoltre, tendono anche ad aumentare la sfiducia nella comunità medica, in una società che già non si fida dei medici”, aggiunge Kirmani.
Oggi all’estero esiste una cura per la talassemia ma è molto costosa
Da una parte, commenta, “non si può valutare la questione con un occhio esclusivamente sanitario e dire: ‘È una stupidaggine, perché dovremmo permettere al nostro paese di fare cose stupide, sarebbe meglio far rispettare le leggi dal momento che la gente non ragiona con la sua testa’. Dall’altra, non dovremmo tenere una posizione puramente culturale per cui ‘se rientra nella nostra cultura non dobbiamo discuterne’”.
Anche educare le persone sui rischi comporta delle sfide. “Come spiegare a una coppia una malattia che non ha mai visto o conosciuto? Come educarla veramente, presentando un quadro accurato, in modo che possa prendere una decisione informata?”, si chiede Kirmani. Quando la patologia è ereditaria è più facile consigliare i pazienti, perché hanno visto da vicino il suo impatto negativo. Ma i medici devono essere consapevoli delle disparità socioeconomiche tra i pazienti. “Non posso usare due pesi e due misure: dire a una famiglia istruita ‘fai questo test da 500 dollari, saprai quali sono i rischi e poi potrai scegliere’ e andare in una comunità rurale e affermare ‘non ti azzardare a sposare tuo cugino’. Devo seguire un criterio unico”.
I figli vicini
Per complicare ulteriormente la questione, Kirmani ricorda alcuni “vantaggi” percepiti delle unioni consanguinee. “Immagina di essere un genitore che vive in una zona remota. Conosci tutti i ragazzi di lì perché sono della tua famiglia. Se vuoi un matrimonio fuori della famiglia, allora tua figlia dovrà sposare una persona che vive a duecento chilometri dal villaggio. Una volta celebrate le nozze, lei se ne andrà e tu non potrai più vederla”. Il “desiderio di tenere i figli vicini” spinge i genitori a farli sposare con i parenti.
In secondo luogo, villaggi diversi hanno usanze diverse, e certi genitori si preoccupano di come la figlia può essere trattata in una famiglia lontana e sconosciuta.
Alcuni studi, inoltre, hanno riscontrato che in Pakistan “essere sposati a un cugino di primo grado da parte materna o paterna è associato a una minore probabilità di abusi”. Questa percezione incoraggia i genitori a dare in sposa le figlie a parenti stretti, nella speranza che se ci fossero contrasti potrebbero intervenire facilmente.
Nel 2019, il British Medical Journal ha raccontato il caso di Javed Tahir, un giovane di Islamabad che soffriva di distrofia muscolare dall’infanzia. Questa malattia ereditaria lo avrebbe lentamente portato “a una completa paralisi”. Tahir, deciso a rompere la tradizione, voleva essere il primo a sposarsi fuori della famiglia. Aveva cercato una moglie per circa dieci anni, ma a causa della sua condizione non ne aveva trovata una, e alla fine sposò una cugina. Situazioni come quella di Tahir dimostrano che spesso è difficile, se non addirittura impossibile, spezzare il cerchio. Allo stesso modo, le donne che vivono nelle aree rurali e hanno interazioni limitate con gli uomini al di fuori della famiglia riducono le loro possibilità di incontrare potenziali corteggiatori con cui non siano imparentate. In questo contesto, si possono capire i rischi legati ai matrimoni tra cugini. Prendiamo per esempio una famiglia con una storia di talassemia. Un figlio è morto a dieci anni per le complicanze della malattia (la maggioranza delle persone che hanno questa condizione in Pakistan muore tra i dieci e i vent’anni). “Ora i genitori vogliono avere un altro figlio. Il test rivela che sono portatori. Li informi che il bambino avrebbe il 25 per cento di probabilità di essere malato”, dice il dottor Kirmani. Come medico, lui può proporre una diagnosi prenatale tra la dodicesima e la quattordicesima settimana di gestazione. Se c’è il 75 per cento di probabilità che il feto non abbia ereditato il gene della patologia, i genitori possono essere rassicurati e scegliere di portare avanti la gravidanza.
Ma se il test dà una diagnosi positiva, quali sono le opzioni dei genitori? “Non esiste una cura per la talassemia. Perciò l’unica alternativa è interrompere la gravidanza. È una scelta personale”, dice il genetista. Spiega che si può provare un grande senso di colpa. Le madri pensano spesso che sia colpa loro o che qualcosa sia andato storto durante la gravidanza. Per motivi medici ed etici, l’interruzione di gravidanza è una decisione ragionevole nel caso di malattie che porterebbero sofferenza, dolore, una vita breve o una qualità della vita estremamente bassa. E la talassemia rientra in questa categoria.
In altri paesi, compreso il vicino Iran, dove ci sono risorse adeguate la sopravvivenza è salita fino a cinquant’anni. “Da noi non supera i vent’anni, e sono venti terribili anni di trasfusioni di sangue ogni due settimane”, denuncia Kirmani. “In un qualunque centro per la cura della talassemia, vi sembrerà di essere in una specie di aeroporto internazionale. C’è una grande sala dove 25-50 bambini sono seduti in poltrona e guardano la tv mentre ricevono una trasfusione. Spesso questi bambini finiscono con l’avere un eccesso di ferro nel sangue, che comporta gravi complicazioni per il cuore e gli organi interni. Non possono frequentare regolarmente la scuola perché sono costantemente bloccati in questo ciclo”.
Oggi all’estero esiste una cura – un trapianto di midollo osseo – ma è molto costosa e quindi inaccessibile per gran parte dei pachistani. Nel paese ci sono dieci milioni di portatori di beta-talassemia, e ogni anno questa malattia è diagnosticata a circa cinquemila bambini. “Quanti di loro possono ricevere la terapia?”, chiede Kirmani. Costi e trattamenti a parte, è un’esperienza estremamente dolorosa per i genitori, che piombano in un “ciclo infinito di povertà” che li rende, per una ventina d’anni, “finanziariamente ed emotivamente devastati. Anche gli altri figli risentono della situazione, perché la madre non può dedicarsi a loro e il padre deve guadagnare per pagare le continue trasfusioni”.
Kirmani aggiunge che anche se questi genitori si rivolgono ai medici nessuno gli dà consigli efficaci per impedire che abbiano altri figli talassemici. “Abbiamo visto famiglie con due o tre figli malati”. I medici dovrebbero “parlare ai moulvis (maestri religiosi), ai leader delle comunità, fare opera di sensibilizzazione. Se restiamo nelle nostre torri d’avorio convinti che noi siamo istruiti mentre i pazienti non sanno cosa fanno, questo ciclo continuerà”.
La lotteria
Come la talassemia, anche l’atrofia muscolare spinale (Sma) comporta gravi sfide per la popolazione pachistana, per la sua incidenza e “per le risorse limitate e la difficoltà ad accedere alle cure” nel paese. Sebbene in Pakistan sia una patologia frequente, raramente riceve l’attenzione che merita. “Non ha la visibilità della talassemia perché si muore nei primi due anni di vita”. Nelle forme più gravi di Sma il neonato nasce sano, ma prima che arrivi a sei mesi “i genitori si rendono conto che qualcosa non va. Non muove la testa, non muove braccia e gambe e perde lentamente la forza nei muscoli, smette di respirare oppure ha un respiro molto corto. Non riesce a deglutire, perciò il latte finisce nei polmoni, subentra la polmonite e il bambino muore”, spiega Kirmani. Ha incontrato molte famiglie dove due o tre figli soffrono di Sma. Ci mostra, incorniciata nel suo ufficio, la prima fiala della terapia genica sviluppata per questa patologia che ha somministrato. La multinazionale Novartis ha lanciato un “programma di accesso controllato”, in cui sostanzialmente fornisce un centinaio di dosi di Zolgensma (onasemnogene abeparvovec) in tutto il mondo, dato che è un trattamento molto caro (costa 2,1 milioni di dollari).
“Non l’hanno definita una lotteria perché non potevano”, dice Kirmani. “Ma è proprio questo. In tutto il mondo, ogni medico riporta i dati del suo paziente e tutte le informazioni. Ogni due settimane viene comunicato l’esito della lotteria. E chi è stato selezionato riceve la dose”. Kirmani ha presentato cinquanta casi, ma solo cinque pazienti hanno ricevuto la dose. Gli altri 45 sono morti. Per quasi tutti l’attesa è fatale. Kirmani ha telefonato a due famiglie per annunciargli che il figlio era stato selezionato e invitarle a portargli il bambino, ma si è sentito rispondere che era morto una settimana prima.
Considerando le spaventose conseguenze e la dura realtà di queste patologie, il dibattito sulla consanguineità diventa ancora più complesso. Da un lato, il principio dell’autonomia individuale è di primaria importanza; dall’altro, non si può ignorare la mancanza di risorse di gran parte della popolazione.
Ma considerando l’inefficacia delle leggi e delle politiche nazionali, la questione non può essere semplificata o risolta a colpi di divieti. Serve uno sforzo collettivo capace di coinvolgere medici, religiosi e comunità locali perché lavorino insieme e trovino soluzioni pragmatiche e realistiche, che tengano conto delle sfide concrete che la maggioranza dei cittadini è costretta ad affrontare. Solo allora, forse, potremo evitare che molte altre persone, come Shazia, implorino di avere un bambino sano. ◆ gc
◆ Il matrimonio tra cugini è molto diffuso nei paesi del Medio Oriente, in Pakistan e in Afghanistan. In Europa non è diffuso ma è consentito dalla legge, anche se il governo norvegese vorrebbe vietarlo, sia per prevenire la nascita di bambini malati sia per ridurre il rischio di matrimoni forzati. In Cina, Corea del Nord, Corea del Sud, nelle Filippine, a Taiwan e in 24 dei cinquanta stati degli Stati Uniti è proibito per legge. L’Economist ha da poco pubblicato un articolo intitolato “Il matrimonio tra cugini va bene nella maggior parte dei casi”. “Nonostante il rischio genetico piuttosto modesto, nella cultura occidentale prevale il disagio rispetto a questo tipo di unioni”, scrive il settimanale. Ma, specifica, c’è un limite ai matrimoni sani tra consanguinei. Si dice che Charles Darwin, il padre della biologia evoluzionista che sposò sua cugina nel 1839, fosse preoccupato per la sua situazione matrimoniale. I Darwin ebbero dieci figli, ma tre morirono da piccoli e tre dei sopravvissuti non ebbero figli. Secondo alcuni storici i figli dei Darwin soffrivano di anomalie genetiche per il fatto che entrambi i genitori avevano una lunga storia di matrimoni tra consanguinei.
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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati