Nel 1981 Malcolm Forbes, eccentrico e straordinariamente ricco editore di giornali, chiese ai suoi collaboratori se potevano mettere insieme un numero speciale sui quattrocento statunitensi più ricchi. L’idea gliel’aveva ispirata Caroline Schermerhorn Astor, la miliardaria newyorchese che all’inizio del novecento invitava regolarmente l’alta società della città nella sua sala da ballo sulla Quinta strada, che si diceva potesse ospitare circa quattrocento persone. È del tutto possibile che Forbes abbia visto qualcosa di sé in Astor. L’editore, che finì per entrare nella sua stessa lista, viveva come un sultano e ospitava celebrità e politici sull’Highlander, uno yacht da quaranta metri. Possedeva un castello in Normandia, dodici uova di Fabergé e una collezione di mongolfiere fantastiche: a forma di sfinge, di busto di Beethoven, di uovo di Fabergé, di castello della Normandia e, naturalmente, una a immagine di un sultano, alta quanto era lungo il suo yacht.
Secondo una breve storia della rivista scritta dal figlio Malcolm Forbes Jr., meglio conosciuto come Steve, la redazione non era entusiasta dell’idea di suo padre. Realizzò uno studio di fattibilità, concludendo che non sarebbe stato possibile scoprire chi fossero queste quattrocento persone. Forbes rispose che se non ci avessero pensato loro, avrebbe trovato altri giornalisti disposti a farlo. “Alla fine capitolarono”, scrive suo figlio. Il progetto richiese un anno di tempo, decine di voli e migliaia di interviste. In cima alla primissima lista dei quattrocento di Forbes c’era Daniel K. Ludwig, un magnate dei trasporti marittimi, che secondo le stime della rivista possedeva un patrimonio di più di due miliardi di dollari. Tenendo conto solo dell’inflazione, oggi sarebbero almeno 5,8 miliardi, una fortuna che porterebbe Ludwig al 182° posto dell’ultimo elenco Forbes 400, alla pari con altri sette. Starebbe insieme a Fred Smith, il fondatore dell’azienda di trasporto FedEx; a Gary Rollins, l’amministratore delegato della Rollins, che possiede diverse imprese di disinfestazione; e a Peter Gassner, il presidente dell’azienda informatica Veeva. Ricchezze di questo livello non sembrano interessare più molto i giornali. Per conoscere meglio Gassner, per esempio, bisogna leggere il ritratto pubblicato sul blog dell’Hacienda business park di Pleasanton, in California, dove ha sede la Veeva. E si scoprirà che non possiede mongolfiere.
L’elenco si allunga
Dal 1987 Forbes ha pubblicato un’altra lista, che all’inizio era più breve ma poi si è allungata: l’elenco dei miliardari di tutto il mondo. L’edizione di quest’anno contiene l’incredibile cifra di 2.668 nomi. La raccolta delle informazioni per entrambe le liste è guidata da Kerry Dolan, una giornalista di Forbes. Il progetto coinvolge almeno 92 giornalisti, compresi quelli delle redazioni all’estero della rivista (in Russia, Polonia, Messico e altri paesi), ognuna delle quali ha testimoniato il trionfo del capitalismo globalizzato. Dolan lavora a Forbes da quasi trent’anni, e dal 1994 si occupa dell’America Latina, che ha contribuito ad allungare la lista dei miliardari. In passato, dice, era molto più difficile stilare questi elenchi: “Non potevo semplicemente andare su internet, guardare la borsa di São Paulo e cercare di capire chi possedeva cosa”. Ma una rivista finanziaria brasiliana pubblicava un libro su tutte le più grandi aziende del paese, e Dolan aveva un contatto in Brasile che glielo spediva negli Stati Uniti. Cominciava dalle informazioni finanziarie su queste aziende.
Oggi il processo è diventato in un certo senso più facile, perché è migliorato l’accesso alle informazioni, e allo stesso tempo più difficile, perché ci sono molti più miliardari. L’elenco del 2022, per esempio, ha 573 nomi in più rispetto a quello del 2020, poco prima dell’inizio della pandemia. Quell’anno il mondo stava sfornando nuovi miliardari a un ritmo di circa uno ogni 17 ore, ha osservato Forbes. In cima alla nuova lista c’è Elon Musk, con un patrimonio netto stimato di 219 miliardi di dollari. Dietro di lui c’è Jeff Bezos, con 171 miliardi. Da qui si prosegue con: Bernard Arnault e famiglia (158 miliardi), Bill Gates (129), Warren Buffett (118), Larry Page (111), Sergey Brin (107), Larry Ellison (106), Steve Ballmer (91,4) e Mukesh Ambani (90,7), l’uomo più ricco dell’Asia e, confesso, la persona più in alto in classifica di cui non avevo mai sentito parlare.
Il passaggio a un’economia postindustriale altamente finanziarizzata è stato favorito dall’amministrazione di Ronald Reagan
Se continuiamo a scorrere la lista, considerando solo gli statunitensi, la maggior parte dei nomi è familiare: dalle vaste fortune create dalla Silicon valley alla Walmart (gli eredi più ricchi del fondatore Sam Walton hanno circa 65 miliardi ciascuno) fino alla Nike (47,3 miliardi), all’ex moglie di Jeff Bezos (43,6) e alla vedova di Sheldon Adelson (27, miliardi). Ma alla fine, si cominciano a incontrare nomi meno noti: Thomas Peterffy, immigrato dall’Ungheria comunista e pioniere del mercato azionario computerizzato (numero 80, 20,1 miliardi). Robert Pera, che ha fondato una cosa chiamata Ubiquiti Networks ed è stato divertente scoprire che ha frequentato la mia stessa università (numero 127, 14,6 miliardi). A tal proposito, c’è poi Dustin Moskovitz, che a Harvard divideva la stanza con un altro ragazzo che avrebbe avuto la bella idea di creare un social network (numero 167, 11,5 miliardi). In poco tempo, si arriva ai Peter Gassner del mondo, e ce ne sono tanti: secondo Forbes negli Stati Uniti ci sono 735 miliardari, che in totale possiedono più di 4.700 miliardi. Dieci anni fa ce n’erano solo (“solo”) 424. Vent’anni fa 243. Continuano a moltiplicarsi e la loro ricchezza cresce, anche – o soprattutto – perché il resto di noi resta indietro.
Da dove escono fuori? Dipende dalla persona a cui lo chiediamo. Un ottimista potrebbe dire che un’economia che produce tanti miliardari è un’economia in crescita, il che è certamente vero per quella statunitense. Niente di sbagliato in questo. Negli anni cinquanta l’economista Simon Kuznets rese popolare l’idea che le disuguaglianze fossero uno sfortunato effetto collaterale della crescita economica, in grado però di autoregolarsi: ogni volta che fossero diventate eccessive, sosteneva Kuznets, la politica sarebbe intervenuta. La cosiddetta curva di Kuznets mostrava l’impennata delle disuguaglianze prima che fosse lentamente ridimensionata dalla ridistribuzione. Kuznets credeva che le società più ricche alla fine sarebbero state le più uguali.
Ma negli ultimi dodici anni il sistema politico statunitense ha prodotto un’aliquota fiscale marginale massima del 37 per cento (in calo rispetto al picco del 94 per cento ai tempi di Kuznets) e un presidente miliardario apertamente ostile al processo democratico, insieme a 332 nuovi miliardari. Anche la curva di Kuznets è caduta in disgrazia, sostituita da qualcosa chiamato onda di Kuznets, che mostra alti e bassi di disuguaglianza che si susseguono. Branko Milanović, l’economista che ha proposto questo modello, pensa che potrebbe volerci almeno una generazione per ridurre il picco attuale.
Nel suo libro Ages of American capitalism, lo storico dell’università di Chicago Jonathan Levy descrive l’epoca del capitalismo in cui viviamo come quella del caos: un’epoca in cui il capitale è diventato più libero, liquido e volatile, in grado di passare costantemente da crescite a crolli e in contrasto con la stabilità – e la prosperità ampiamente condivisa – che ha caratterizzato l’economia industriale del dopoguerra. Levy parte dal 1981, lo stesso anno in cui Forbes concepì la sua lista. Quello fu l’anno in cui la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti), sotto il presidente Paul Volcker, aumentò i tassi d’interesse al 20 per cento con l’obiettivo di fermare l’inflazione. Ci riuscì, ma la decisione, osserva Levy, ebbe conseguenze profonde e accelerò la transizione degli Stati Uniti dalla produzione di beni a una forma di capitalismo mai vista prima di allora. Il valore del dollaro salì alle stelle, rendendo le esportazioni ancora meno attraenti e le importazioni più convenienti. Molte fabbriche fino a quel momento redditizie dovettero chiudere, perché non potevano produrre i guadagni incredibili assicurati agli investitori da un tasso d’interesse così alto.
Quando la Fed cominciò ad allentare la presa, l’ampia disponibilità di credito creò un paradiso speculativo di cui beneficiò una nuova classe industriale che si sentiva poco obbligata nei confronti della forza lavoro e molto obbligata nei confronti degli azionisti. In genere l’economia cresce quando s’investe in produttività, ma quell’espansione fu diversa: Levy scrive che fu “l’unica mai registrata, prima o dopo, in cui la quota d’investimenti fissi del pil diminuì”. In altre parole, gli industriali statunitensi stavano investendo meno nella produzione – navi, fabbriche, camion – perché guadagnavano di più speculando. In effetti, spesso chiudevano le fabbriche e compravano all’estero. Era l’epoca dei predatori aziendali, che avrebbero registrato enormi profitti mentre lasciavano gli statunitensi senza lavoro. Possiamo vederla, in sostanza, come la nascita della separazione tra Wall street e main street, tra il settore finanziario e l’economia “reale”.
Questo passaggio a un’economia postindustriale altamente finanziarizzata è stato favorito dall’amministrazione di Ronald Reagan, che ha deregolamentato il settore bancario, ridotto l’aliquota massima dell’imposta sul reddito dal 70 al 28 per cento e ha preso di mira i sindacati, il capro espiatorio politico dell’economia lenta e inflazionistica degli anni settanta. La tecnologia informatica e l’ascesa delle economie emergenti avrebbero amplificato e accelerato queste tendenze, trasformando gli Stati Uniti nel leader dell’economia globalizzata. E, cosa altrettanto importante, la rivoluzione tecnologica ha creato per gli imprenditori nuovi modi di accumulare enormi fortune: il software non è affatto economico da sviluppare, ma richiede meno lavoratori e investimenti fissi, e può essere riprodotto e spedito in tutto il mondo istantaneamente e praticamente senza costi. Considerate che oggi il motore del capitalismo del novecento, la Ford, dà lavoro a circa 183mila persone e in borsa vale 68 miliardi di dollari, mentre Google ne impiega circa 156mila e vale circa 1.800 miliardi di dollari. Questa nuova economia sarebbe stata gestita da e per i lavoratori della conoscenza, che avrebbero raccolto la maggior parte dei profitti e quindi avrebbero avuto più soldi da spendere per i servizi, un settore destinato a sostituire – anche se non l’ha mai fatto completamente – la manifattura, ridimensionata da questa trasformazione. “Durante gli anni di Reagan”, scrive Levy, “emerse qualcosa di nuovo e specifico che non è mai più scomparso: un capitalismo dominato dall’aumento del valore dei titoli”, cioè un’economia in cui l’aumento del valore di azioni, obbligazioni e immobili sarebbe, anche se in modo tutt’altro che intuitivo, il carburante della crescita economica. È stato un buon momento, in altre parole, per possedere molti beni. E possedere patrimoni è quello che fanno i miliardari.
Nel suo libro Il capitale nel XXI secolo (Bompiani 2014), l’economista francese Thomas Piketty osserva che nel nuovo ordine economico è quasi impossibile per gli straricchi non arricchirsi: “Oltre una certa soglia”, scrive, “tutte le grandi fortune, siano di origine ereditaria o imprenditoriale, crescono a ritmi estremamente alti, indipendentemente dal fatto che il loro proprietario lavori o meno”. Piketty usa gli esempi di Bill Gates e Liliane Bettencourt, l’erede del patrimonio della L’Oréal. Bettencourt “non ha mai lavorato un giorno in vita sua”, scrive, ma dal 1990 al 2010 la sua ricchezza e quella di Gates sono aumentate a un tasso annuale di circa il 13 per cento. “Una volta messa insieme una fortuna, il capitale cresce secondo una dinamica tutta sua”, osserva l’economista francese. Piketty spiega che le fortune più grandi tendono a crescere più velocemente: indipendentemente da quanto spendano i loro proprietari per vivere, questi soldi costituiscono una percentuale così piccola del loro reddito che ne restano ancora molti da reinvestire.
Piketty scriveva tutto questo nel 2013, quando l’economia si stava ancora riprendendo dalla crisi finanziaria del 2008. Quella ripresa è stata sostenuta da diversi anni di tassi d’interesse vicini allo zero, tenuti fermi dalla Fed in base alla teoria che, con un’ampia disponibilità di credito, l’economia sarebbe tornata in salute. Ma i bassi tassi d’interesse producono due risultati: spingono gli investitori a correre più rischi alla ricerca di rendimenti migliori (idealmente creando posti di lavoro) e gonfiano il valore dei titoli. Gli investimenti privati e il capitale di rischio hanno beneficiato notevolmente di questi tassi, aiutando sia la Silicon valley sia gli esperti di finanza di Wall street a rimettersi in sesto. Anche nei settori meno dinamici dell’economia, il denaro a buon mercato ha permesso un’esplosione di riacquisti di azioni, per un valore di circa 6.300 miliardi di dollari nei primi dieci anni del nuovo millennio, cioè circa il 4 per cento del pil statunitense nello stesso periodo, più di quanto il Pentagono spende attualmente per la difesa. Anche questo ha reso più ricchi i proprietari di capitali.
Gli anni dell’amministrazione di Donald Trump hanno potenziato ulteriormente questa tendenza, paradossalmente con l’inizio della pandemia di covid-19. Quando la Fed e il congresso degli Stati Uniti sono intervenuti per sostenere i mercati e aiutare l’economia, hanno alimentato l’ennesimo boom delle borse, questa volta spingendo un numero maggiore di statunitensi a cercare di ottenerne una parte, investendo in qualsiasi cosa, dalle azioni della Tesla ai jpeg di scimmie. Tra i piccoli investitori ci sono stati vincitori e vinti, mentre in totale la classe dei miliardari si è ulteriormente arricchita. Negli ultimi cinque anni la fortuna di Jeff Bezos è più che raddoppiata, mentre quella di Elon Musk, grazie anche all’entusiasmo dei piccoli investitori, è aumentata di venti volte.
Quando diventi miliardario non succede niente di speciale. Non c’è una lucetta rossa che si accende all’agenzia delle entrate
Quando diventi miliardario, non succede niente di speciale. Non c’è una lucetta rossa che si accende all’agenzia delle entrate. Nella fascia più bassa della categoria non è neanche una condizione stabile, perché le fluttuazioni della borsa spingono le persone dentro e fuori dal circolo dei miliardari ogni giorno. La cosa incredibile è quante poche informazioni abbiamo il diritto di avere su di loro. Su questi 735 statunitensi che hanno accumulato, come minimo, il pil di una piccola nazione insulare possiamo sapere solo quello che rivelano ai giornalisti o che non possono nascondere. E sicuramente alcuni di loro sono più bravi di altri a nascondere.
Ho chiesto a Dolan qual era il profilo di un miliardario che non avrebbe mai trovato. Secondo lei è qualcuno che negli anni novanta ha venduto tranquillamente la partecipazione in un’azienda per, diciamo, 250 milioni di dollari e poi li ha investiti bene. Oggi una persona del genere potrebbe usare la sua ricchezza per fare quello che vuole: comprare camion carichi di cimeli nazisti, cercare di convincere un sindaco a privatizzare le fogne della sua città o forse entrambe le cose, e non lo sapremo mai. In effetti, non deve neanche essere stato tanto intelligente nell’usare i suoi soldi. Se ha parcheggiato 250 milioni in un fondo legato all’andamento delle principali aziende quotate nel 1992 e li ha lasciati lì, oggi varrebbero più di quattro miliardi (Dolan mi ha detto che però nessuno sarebbe stato abbastanza pazzo da puntare tutti i suoi soldi sulla borsa). Sarebbe scivolato attraverso il miliardo di dollari come un tuffatore olimpico. E oggi sarebbe solo un tizio o una tizia con un conto pazzesco in banca, alcune idee interessanti sul trattamento delle acque reflue e la più grande collezione al mondo di anelli a forma di teschio.
Secondo Dolan, il tipo di miliardario più facile da scoprire è uno la cui ricchezza deriva dalla partecipazione in un’azienda quotata in borsa, probabilmente fondata da lui o magari ereditata. Chi possiede più del 5 per cento delle azioni di un’azienda deve renderlo noto, compreso il numero esatto di azioni che detiene. Ma quando si va oltre quello che è rintracciabile sui mercati, queste cifre sono praticamente solo una combinazione di dichiarazioni e ipotesi plausibili. Molti miliardari, per esempio, detengono partecipazioni in aziende che non sono quotate in borsa e potrebbero non esserlo mai, e se lo fossero, potrebbero valere anche di più. Molti possiedono partecipazioni in vecchie aziende non quotate che valgono miliardi e vendono scarpe (New Balance), hardware (Menards) o merende (Mars): tutte queste hanno creato miliardari. Per attribuire un valore a queste aziende, Forbes le confronta con quelle simili quotate in borsa. Tutti i presunti miliardari hanno l’opportunità di commentare le affermazioni della rivista. Alcuni forniscono informazioni più dettagliate, ma la maggior parte no.
La lista di Bloomberg
Nel 2012 Bloomberg ha lanciato una sua lista di miliardari, assumendo giornalisti da Forbes. Oggi la classifica include i primi cinquecento al mondo ed è aggiornata quotidianamente. Anche Forbes ha una classifica in tempo reale, che aggiorna in base ai mercati, e solo una rapida occhiata alle prime dieci posizioni mostra notevoli differenze nelle stime. Bloomberg, per esempio, concorda sul fatto che Musk è l’uomo più ricco del mondo, ma stima che il suo patrimonio netto sia di circa 15 miliardi inferiore a quello di Forbes. Al numero sette, le classifiche divergono: Bloomberg ci mette Sergey Brin (119 miliardi), mentre Forbes ha Larry Ellison (115,7 miliardi).
Alcune differenze tra gli elenchi di Forbes e Bloomberg sono semplicemente il prodotto di metodi diversi. Quello di Bloomberg è molto più trasparente, ma la sua lista comprende un quinto dei nomi di quella di Forbes (per ora), nonostante la sua redazione sia molto più numerosa. Per ognuno dei cinquecento miliardari, Bloomberg offre una valutazione che va da una a cinque stelle in base alla sua fiducia nella stima, al livello di collaborazione del miliardario e a quanto il patrimonio si basi su investimenti in aziende. Solo pochi ottengono cinque stelle. Chi ha beni avvolti nel mistero riceve un punteggio inferiore. Eppure, nonostante la sua precisione, la lista di Bloomberg ha un buco voluto: non contiene il nome di Michael Bloomberg, il fondatore e socio di maggioranza dell’agenzia Bloomberg, grazie alla quale è diventato plurimiliardario, tanto da entrare nella lista di Forbes.
Oggi il direttore della Bloomberg’s
wealth, la sezione di Bloomberg che si occupa di gestione delle finanze, è l’inglese Pierre Paulden, che coordina più di 25 giornalisti e redattori, anche se spesso attinge alla più ampia redazione dell’agenzia, che è di 2.700 persone. Paulden, come Dolan, ha notato che negli anni i miliardari vogliono essere scoperti sempre meno. Infatti, quando uno sconosciuto dichiara alla stampa di essere miliardario, Paulden e i suoi collaboratori considerano l’annuncio con grande cautela: “Il più delle volte, ormai, il tipo di miliardari che stiamo cercando, non ci vuole tra i piedi”.
Negli ultimi anni la redazione di Paulden ha scoperto alcune fortune nascoste. Ha indagato su Leo KoGuan, un uomo d’affari di Singapore, dopo che un giorno ha detto su Twitter di essere il terzo azionista della Tesla. “Poi è scomparso”, dice Paulden. Alla fine è riemerso e i giornalisti sono stati in grado di confermare le sue partecipazioni grazie a quello che Paulden chiama uno “sforzo globale”, sia consultando i bilanci sia parlando con i soci. Allo stesso modo, Bloomberg ha rivelato che Changpeng Zhao, l’amministratore delegato della borsa di criptovalute Binance, era molto più ricco di quanto si pensasse: era l’undicesima persona più ricca del mondo. Bloomberg ha stimato che, al momento di pubblicare la notizia, la sua fortuna fosse di 96 miliardi di dollari, ma ha aggiunto che molto probabilmente era più grande, perché la cifra non includeva le criptovalute che possedeva personalmente.
Senza nome
Sia Bloomberg sia Forbes si considerano prudenti nelle loro stime sulla ricchezza. Ma esiste un altro censimento, fatto da una società di ricerca chiamata Wealth-X, che lo è molto meno. Nel 2021 contava 927 miliardari solo negli Stati Uniti, circa 203 in più rispetto a Forbes. Non ne nomina nessuno. Forse ha ragione su questi 203 miliardari senza nome. Forse no. È frustrante non sapere – o meglio, sapere che non potrai mai sapere con certezza – ma ancora più frustrante sapere che saperlo non cambierebbe nulla.
Nell’estate 2021 giravo per il quartiere di San Francisco in cui sono cresciuto, che è stato notevolmente modificato nell’ultimo decennio, come ogni angolo della città, dalle enormi fortune della Silicon valley. Oggi San Francisco ospita 81 miliardari, almeno secondo Wealth-X. Sono circa uno ogni diecimila abitanti, la più alta concentrazione al mondo. Mentre camminavo, mi sono imbattuto in un cartello scritto a mano appeso alla finestra di un vecchio edificio edoardiano. Diceva: “BASTA MILIARDARI! 999.999.999,99 DOLLARI SONO SUFFICIENTI!”. Il sentimento che esprimeva era comicamente francescano: stranamente in linea con i valori liberali contemporanei e allo stesso tempo apertamente tollerante nei confronti della disuguaglianza estrema. Perché andrebbe bene avere 999 milioni e non un miliardo? Cosa succede davvero quando l’ultimo centesimo porta una persona oltre quel confine?
Una delle cose più spaventose dei miliardari è che sono solo persone, con tutta la fragilità che ne consegue
Abbiamo l’impressione di vivere in un’epoca definita dalla rabbia verso i miliardari, ma la maggior parte degli statunitensi in realtà non ha molta voglia di far fuori i ricchi. Non molto tempo fa hanno eletto un miliardario alla presidenza. Nel gennaio 2020, e poi di nuovo nel luglio 2021, l’istituto di ricerche Pew ha intervistato gli statunitensi per vedere se pensavano che i miliardari fossero un bene o un male per il paese, o nessuna delle due cose. Nel 2020 il 58 per cento degli intervistati ha dichiarato che non erano nessuna delle due cose. A un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, la percentuale era cambiata di poco: era scesa al 55 per cento. Circa il 29 per cento pensa che siano un male e il 15 per cento che siano un bene. Non siamo esattamente nell’ottobre 1917.
Tuttavia, un gruppo si è distinto dagli altri: quello dei giovani tra i 18 e i 29 anni. Il 50 per cento di loro crede che i miliardari siano dannosi per il paese. C’è di che meravigliarsi? La loro è una generazione che è cresciuta remando nella tempesta dell’economia che ha prodotto tutta questa disordinata ricchezza: lavorando (o non trovando lavoro) in settori mandati in rovina dai tizi con gli smanicati in pile di Midtown a New York o sconvolti dal software di un nerd diventato così ricco che i nipoti dei suoi nipoti vivranno come principi, e pagando affitti osceni a padroni di casa milionari che sono stati abbastanza intelligenti da nascere vent’anni prima di loro. Da questo punto di vista, i miliardari sono il distillato più puro della brutalità e della stupidità con cui si può organizzare una società.
Mentre gli straricchi si moltiplicavano, alcuni statunitensi sono andati alla deriva verso una sorta di gnosticismo, la sensazione che viviamo in un mondo gestito da un gruppo demoniaco di plutocrati. A destra c’è tutta l’indecorosa storia su George Soros, immaginato come il subdolo burattinaio che si nasconde dietro tutto, dalle carovane di migranti centroamericane alle manifestazioni di protesta per l’uccisione di George Floyd. Anche se non è un miliardario, Klaus Schwab, il presidente del World economic forum di Davos, in Svizzera, è invece immaginato come una sorta di James Bond cattivo al servizio degli interessi dei ricchi, che complotta per farci vivere di carne di grillo nell’ambito di qualcosa chiamato “grande reset”. A sinistra le inquietanti rivelazioni su Jeffrey Epstein e i suoi legami con diversi miliardari hanno portato a febbrili speculazioni sulle fonti della sua ricchezza e sulle circostanze del suo suicidio prima del processo in cui era accusato di abusi sessuali e traffico internazionale di minorenni.
Ma non è necessario pensare a nessun miliardario come a un diavolo per trovare inquietante la pura concentrazione di potere che hanno. Al contrario, una delle cose più spaventose dei miliardari è che sono solo persone, con tutta la fragilità che ne consegue. Pensate al disperato tentativo di Musk di presentare il programma televisivo Saturday night live. O ai goffi sforzi di Bill Gates per trovare una fidanzata a cinquant’anni. Ai messaggi a sfondo sessuale di Bezos. Come Mark Zuckerberg provi ad avere un comportamento normale. Alle campagne presidenziali destinate al fallimento di Tom Steyer e di Bloomberg, entrambe nella stessa tornata elettorale, ed entrambe per spodestare un altro miliardario che ha comunque perso. Ci sono davvero alcune cose che i soldi non possono comprare e i miliardari lo dimostrano con la stessa frequenza con cui dimostrano il contrario.
Il genio della lampada
Naturalmente, c’è anche molto che il denaro può comprare. Non solo yacht e quadri di Picasso, ma anche avvocati, politici e il silenzio. Puoi finanziare una causa contro un sito web che non ti piace e farlo sparire. Commissionare uno yacht così grande da non poter prendere il mare a meno che tu non smonti un ponte a tue spese. Finanziare una rivolta libertaria contro un presidente in carica e far fallire il suo programma. Lanciare una macchina nello spazio. C’è un ottimo motivo per cui il genio della lampada impedisce di avere desideri illimitati.
Ho assistito personalmente agli effetti inebrianti di questa follia circa dieci anni fa. Lavoravo in un ristorante a Manhattan quando un ricco cliente venne due volte nell’arco di circa un mese. All’epoca mi dissero che era un miliardario, anche se non posso affermare con certezza che lo fosse davvero. Sembrava di sì. La prima volta spese qualcosa come diecimila dollari di vino, a cui aggiunse una mancia del 20 per cento, aumentando di circa duemila dollari la cassa comune delle mance. Quella sera ogni cameriere guadagnò seicento dollari. Mi coprì quasi l’affitto del mese.
Poi, non molto tempo dopo, si sedette a uno dei miei tavoli. Questo causò un piccolo trambusto: il maître mi fece sapere chi era e il sommelier mi esortò a mandarlo da lui non appena avesse espresso curiosità per un vino. Andai lì, elencai a lui e a chi lo accompagnava le specialità del giorno e presi l’ordinazione. Non dimenticherò mai quello che voleva: un hamburger. “Qualcosa da bere?”, chiesi speranzoso. “Sì”, disse, “un bicchiere di cabernet”. Penso che quella notte spese circa cento dollari, com’era suo diritto. Perché oltre a essere follemente ricco, era anche una persona come le altre. E a volte tutto ciò che si vuole è un cheeseburger e un bicchiere di vino.
Il problema dei miliardari non è che sono sociopatici, anche se certamente alcuni lo sono. È che il loro potere non è accompagnato da nessuna responsabilità. Abitano – o non abitano, come spesso succede – sopra le nuvole, in grattacieli altissimi. Volano verso isole private su jet privati e fanno chissà cosa quando sono lì. I loro yacht ci ricordano che, qualunque cosa dicano i documenti, non sono cittadini di nessuna nazione, e se proviamo a collocarli da qualche parte, possono semplicemente andare altrove. S’innamorano di certe idee – risolvere i problemi dell’agricoltura africana, resuscitare le teorie di von Mises e Hayek, colonizzare Marte, diventare presidenti – e possono spendere somme quasi illimitate nel tentativo di trasformarle in realtà. Anche se falliscono del tutto o in parte, resteranno miliardari e non c’è molto che noi possiamo fare al riguardo. Non sono stati eletti per ricoprire quel ruolo, quindi non possiamo votare contro di loro. Non sono diventati miliardari incassando uno stipendio, quindi non c’è nessuno su cui fare pressione perché li licenzi. Non hanno infranto nessuna legge per guadagnare un miliardo di dollari (o almeno di solito no), quindi non possiamo denunciarli. Hanno più soldi di Dio, come si suol dire negli Stati Uniti, quindi anche lui non può farci niente. E finché qualcosa non cambierà, vivremo in un mondo sostanzialmente distorto dalla forza di gravità delle loro fortune. ◆ bt
Willy Staley è un giornalista del New York Times Magazine.
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Questo articolo è uscito sul numero 1460 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati