Se vi avventurate nelle profondità meno esplorate di Netflix – superate i “Drammi tv da guardare tutti d’un fiato” e i “Thriller d’azione anni ottanta”, girate a sinistra a “Perché hai guardato il film Lego Batman” e andate oltre la categoria “È Halloween!” – alla fine raggiungerete il nucleo più nascosto della piattaforma, dove giacciono strati dimenticati di contenuti fossilizzati dalla pressione dei livelli superiori. Qui sotto, se cercate a fondo, troverete Richie Rich.
Forse lo ricorderete come il protagonista di una vecchia serie a fumetti. Netflix l’ha immaginato come un “ragazzino che si è fatto da solo”: ha scoperto una nuova fonte di energia derivata da tutte le verdure che non ha mai mangiato ed è diventato così la persona più ricca del mondo. Vive in una villa con un parco divertimenti e una cameriera robot; suo padre è un balordo scansafatiche; la sua migliore amica, interpretata dalla futura superstar di Netflix Jenna Ortega, è una scroccona; un rapper di nome Bulldozah abita nella casa accanto, con un figlio che è amico di Richie. In confronto alla versione cupa e solitaria del personaggio interpretata da Macaulay Culkin nel 1994, qui la vita di Richie è bella, anche se non priva dei problemi che derivano dal fatto di essere un bilionario preadolescente.
Nel quarto episodio della serie, Richie non riesce a scrivere un tema sul Mago di Oz: sia il romanzo sia il film lo fanno addormentare, non sa come fare. Il figlio di Bulldozah gli suggerisce di ricreare il film con i suoi amici e amiche, e Richie gli dà ascolto. Ma appena comincia a lavorarci, le cose si complicano. Il personaggio del Leone ha riscritto la propria parte diventando un superganzo con tanto di moto. Anche Dorothy vuole essere alla moda: pensa che dovrebbe venire da Parigi, non dal Kansas, e si fa chiamare Véronique. La cameriera robot fa notare che l’Uomo di latta non può arrugginire, perché la latta non si corrode, e decide così di diventare l’Uomo di tungsteno al carbonio. Alla fine, il film viene girato in 3d, con dinosauri che viaggiano nel tempo, un asteroide e robot spaziali malvagi, una scelta che offende la cameriera di Richie. “Per una volta”, dice, “sarebbe bello vedere un modello positivo per i giovani robot”.
Un nuovo protagonista
Senza volerlo, quest’episodio solleva un interrogativo che aleggia sulla nostra epoca: cosa succede all’intrattenimento quando nel settore arriva un nuovo protagonista, armato di una quantità di denaro praticamente infinita? Cosa succede, in altre parole, quando compare Netflix?
La serie Richie Rich faceva parte della prima ondata di prodotti originali Netflix, lanciata alla fine di quel breve periodo in cui il pubblico generico riusciva ancora a seguire tutto quello che l’azienda produceva. Ha debuttato sulla piattaforma all’inizio del 2015, lo stesso anno di prodotti che probabilmente conoscete, e forse amate, come Master of none e Narcos. Netflix era reduce dall’enorme successo di House of cards, che l’azienda raccontava così: visto che gli abbonati amavano Kevin Spacey e il regista David Fincher e che avevano apprezzato l’omonima serie britannica, distribuita nel 1990, Netflix ha comprato un prodotto che metteva insieme tutti e tre. Aveva speso molto, ma poteva permetterselo perché sapeva cosa volevano guardare ancor prima di loro.
Richie Rich racconta una storia piuttosto diversa. Lo show è stato scritto e realizzato da una casa di produzione chiamata AwesomenessTV, recentemente acquisita dalla DreamWorks, che aveva da poco rilevato anche un’azienda chiamata Classic Media, controllata da un fondo d’investimento proprietario dei diritti d’autore di vari titolo poco usati e di personaggi di cartoni animati poco noti: He-Man, Voltron, Il gatto Felix, Casper, Baby Huey e, naturalmente, Richie Rich.
In origine la serie doveva andare in onda su YouTube ed era stata girata con un investimento proporzionato alla piattaforma. Ma come racconta Jeff Hodsden, uno dei creatori dello show, un giorno i dirigenti di Netflix si sono presentati sul set e un mese dopo si è sparsa la voce che avrebbero comprato la serie. Nelle puntate si vedono ancora gli stacchi dove sarebbero dovuti andare i messaggi promozionali. Nel 2014, l’anno in cui ha comprato Richie Rich, Netflix ha accumulato debiti per quattrocento milioni di dollari, che si sono aggiunti ai cinquecento milioni dell’anno precedente. L’obiettivo era espandere la programmazione originale. Così, da semplice distributore di dvd, l’azienda è diventata la principale piattaforma di contenuti del mondo: prendendo in prestito montagne di denaro. Nel 2015 ha raccolto sul mercato azionario 1,5 miliardi di dollari, con l’obiettivo di triplicare l’offerta di contenuti dell’anno precedente. L’anno dopo, un altro miliardo. Nel 2017 la cifra è salita a tre miliardi, con l’obiettivo di offrire ottanta film nell’anno seguente (in quel momento stava già lanciando in media un prodotto a settimana). Nei due anni successivi l’azienda ha raccolto altri otto miliardi.
Netflix stava creando una sorta di volano, in cui i finanziamenti raccolti sui mercati aiutavano a creare nuove produzioni, queste portavano nuovi abbonati e gli abbonati portavano più denaro. Ma per alimentare il circuito dei contenuti e degli abbonati, l’azienda aveva bisogno di continuare a vendere azioni, al punto che nel 2019 aveva circa quindici miliardi di dollari di debito a lungo termine. Così si è guadagnata il soprannome di Debtflix (dall’inglese _debt, _debito) nella stampa finanziaria, che continuava a chiedersi se quel livello d’indebitamento era sostenibile. Applicando a Netflix le logiche del settore dei mezzi di comunicazione, la situazione appariva incerta, ma l’azienda agiva secondo le regole dell’industria tecnologica: spendere mucchi di denaro per attirare clienti, cambiare le loro abitudini, e schiacciare la concorrenza fino a trasformare un intero settore.
Ed è esattamente quello che ha fatto Netflix. Il catalogo della piattaforma forse è stato costruito con il debito invece che con il capitale di rischio, ma la sua enormità ne rivela la provenienza quasi da un altro universo, qualcosa che solo la Silicon Valley avrebbe potuto immaginare. Le sue dimensioni cambiano di continuo, mentre divora e sputa contenuti: secondo gli ultimi dati resi noti dall’azienda, i titoli sono più di 16mila, migliaia dei quali originali, creati o acquisiti dalla piattaforma, destinati a rimanerci in teoria per sempre, anche se lentamente sepolti da nuovi film, serie e documentari.
Se si ipotizza, con una stima prudente, che la durata media di un titolo in catalogo sia di due ore – un titolo può essere qualsiasi cosa: da un’intera stagione di una serie a un film di un’ora – ci vorrebbero tre anni e mezzo di visione ininterrotta per guardare l’intero archivio di Netflix.
Si tratta di una quantità di contenuti superiore a quella che una persona può (o dovrebbe) guardare in una vita intera. Quando una decina di anni fa sono state gettate le fondamenta di questo incredibile catalogo, non avremmo mai potuto immaginarne l’ampiezza, l’abbondanza e il senso di disorientamento che si prova nei suoi labirintici corridoi.
Debiti su debiti
Una decina d’anni fa Reid Hoffman, fondatore di LinkedIn, ha tenuto un seminario a Stanford intitolato “La crescita fulminea permessa dalla tecnologia”. In quell’occasione ha esposto la sua teoria sulla crescita delle grandi aziende nel ventunesimo secolo: avrebbero rapidamente ridotto le spese e aumentato i profitti, usando i software e il vantaggio di essere i precursori per dominare interi settori. Reed Hastings, fondatore di Netflix e all’epoca anche amministratore delegato, è intervenuto allo stesso seminario nel novembre 2015. Netflix era sopravvissuta alla bolla tecnologica degli anni duemila e Hastings cominciava a percepire l’arrivo di un’altra crisi. “Nel 2000 raccogliere fondi era facilissimo, come se bastasse scuotere una lattina per tirarne fuori cinquanta milioni di dollari”, ha detto in quell’occasione. “Era incredibile. Non ho mai visto nulla di simile. Fino all’anno scorso”.
Le operazioni con capitale di rischio sono tornate ai livelli della bolla dei primi anni duemila alla metà dello scorso decennio. Nel 2015 sono state concluse operazioni di questo tipo per centotrenta miliardi di dollari, quasi quanto i due anni precedenti messi insieme. Nel 2021 la cifra aveva raggiunto un totale di 621 miliardi di dollari. Tutt’a un tratto per chi cercava una crescita fulminea c’era un sacco di denaro a disposizione.
Un fattore che può spiegare l’enorme afflusso di capitali ai fondi di rischio è la politica dei tassi d’interesse a zero (indicata con la sigla Zirp, zero interest rate policy). All’indomani della crisi finanziaria globale, la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) ha ridotto i tassi di interesse quasi a zero e li ha mantenuti bassi per più di un decennio. Di solito le banche centrali lo fanno per stimolare il credito e rendere più agevole prendere in prestito denaro.
Ma la cosa spinge anche gli investitori a prendere rischi maggiori: quando il tasso della Fed è intorno al 4,9 per cento, come oggi, è possibile ottenere rendimenti annui del 4,9 per cento quasi a rischio zero comprando titoli di stato statunitensi. Un buon affare. Ma quando il tasso è pari o vicino allo zero, i rendimenti sicuri sono minimi. Così il capitale si sposta lungo la cosiddetta “curva del rischio”, verso investimenti che possono ancora offrire guadagni significativi: immobili, azioni e, all’estremo, il capitale di rischio (venture capital), che accetta di perdere un numero enorme di scommesse – una stima prudente del tasso di fallimento delle startup è del 75 per cento – in cambio di pochi successi estremamente redditizi.
Queste attività hanno in pratica rimodellato il nostro mondo nell’ultimo decennio. Anzi, per dirla tutta, sono state progettate proprio con questo obiettivo. In Da zero a uno, la bibbia dei fondatori di startup, Peter Thiel scrive che la “legge di potenza” sembra applicarsi anche agli investimenti in capitale di rischio: “Il segreto più grande nel venture capital è che il miglior investimento di un fondo di successo è uguale o supera tutto il resto del fondo messo insieme”. La conclusione è che qualsiasi fondo degno di questo nome deve seguire due regole, in qualche modo simili a quelle di Fight club. “Primo: investire solo in società che hanno il potenziale di creare rendimenti pari al valore dell’intero fondo. Secondo: dato che la regola numero uno è così severa, non ci possono essere altre regole”.
Il libro di Thiel è una guida alla ricerca di imprese in “monopolio creativo”: quelle che costruiscono e dominano un mercato, arricchendo se stesse e i loro fondatori, i quali, nella visione di Thiel, potranno poi investire in ulteriori innovazioni. È questo il senso della relazione tra venture capital e tecnologia: trasformare continuamente il mondo.
Le aziende sono state incoraggiate a crescere a ogni costo e a preoccuparsi degli utili in un secondo momento, una strategia non inedita, ma che a un certo punto è stata spinta a nuovi estremi. Uber ha potuto bruciare miliardi di dollari in contanti per circa quindici anni, piegando il mercato, abbattendo le normative e i monopoli locali e alterando il comportamento dei consumatori, per poi quotarsi in borsa con una valutazione di 82,4 miliardi di dollari, mentre perdeva ottocento milioni di dollari a trimestre. WeWork ha potuto perdere miliardi di dollari a trimestre, comprando e ristrutturando immobili commerciali in trentanove paesi, il tutto nel tentativo di ridisegnare l’ambiente d’ufficio a immagine e somiglianza delle startup sostenute dal capitale di rischio – flessibile, aperto, pronto a crescere, con piccole comodità per tutti – senza mai realizzare profitti e infine dichiarando bancarotta l’anno scorso.
Queste spese sfrenate sono state evidenti ovunque e hanno dato vita a quello che l’editorialista del New York Times Kevin Roose ha definito il millennial lifestyle subsidy, una sorta di contributo allo stile di vita dei millennial, cioè autisti a richiesta, consegne a domicilio, servizi di pulizia, auto a noleggio, case in affitto: tutti servizi offerti in perdita grazie a investimenti di rischio in attesa di decollare. È così che i millennial sono arrivati a vivere come una massa di piccoli Raskolnikov: apparentemente in miseria, ma con un’abbondanza di servitori a disposizione.
Forse bisognerebbe pensare agli anni del picco della produzione televisiva come a una versione culturale dello stesso fenomeno, un altro prodotto secondario della battaglia industriale che infuriava negli spazi ancora vergini resi disponibili dalla tecnologia informatica.
Netflix è atipica anche se paragonata ad altre società di streaming, “una zebra tra cavalli”, come la definisce la studiosa di comunicazione Amanda D. Lotz nel suo libro Netflix and streaming video. Apple TV+ e Amazon Prime Video sono “complementi aziendali” di grandi società tecnologiche; Paramount+, Peacock e Disney+ sono estensioni di classici studi cinematografici e attingono al loro considerevole patrimonio di proprietà intellettuale; Max è un Frankenstein nato dalla fusione tra l’Hbo, l’unica antenata di Netflix ancora in vita, e una decina di canali di nicchia via cavo. Netflix è l’espressione più pura del modello di streaming, e la forza trainante che ha convinto anche altre aziende a spingersi oltre.
Il suo vasto catalogo ha cambiato l’industria della televisione, offrendo prodotti migliori e mostrando agli altri un modello da seguire, ma anche trasformando la natura stessa della tv. Un tempo la televisione aveva l’unico obiettivo di divertire il maggior numero di persone contemporaneamente, il che era anche ciò che la rendeva così stupida: “La televisione è ciò che è”, scriveva David Foster Wallace nel 1993, “per il semplice motivo che la gente tende a somigliarsi terribilmente proprio nei suoi interessi volgari, morbosi e stupidi, e a essere estremamente diversa per quanto riguarda gli interessi raffinati, estetici e nobili”. Il modello Svod (Subscription video on demand, abbonamenti video su richiesta) ha liberato la tv dalla legge dei numeri e dalla gabbia del tempo e ci ha fatto credere che i nostri raffinati e nobili interessi potessero trovarsi sullo schermo.
Lotz sostiene che, sganciandosi dall’obiettivo principale della tv tradizionale (cioè vendere un pubblico agli inserzionisti), il modello dello streaming “cambia completamente i calcoli della programmazione”. Questo perché “invece di lavorare con un solo pubblico”, scrive Lotz, “lo strumento on demand permette agli Svod di creare diverse audience”. Lotz mi ha fatto notare un’esperienza apparentemente banale, ma in realtà significativa e curiosa, diventata comune in questa epoca: vai in un Airbnb e accendi la tv, già aperta sull’account di qualcun altro, e vedi una marea di contenuti di cui non conoscevi neanche l’esistenza. Stesso televisore, stessa app, stesso abbonamento: eppure lo schermo si apre su un mondo alieno.
Incalcolabile abbondanza
A dicembre del 2023 Netflix ha fornito una mappa senza precedenti del suo catalogo, pubblicando per la prima volta un’analisi completa dei dati degli spettatori. Si tratta di un foglio di calcolo di meno di un megabyte che classifica 18.214 contenuti della gigantesca libreria di Netflix in base al numero di ore di visione nei primi sei mesi del 2023, arrotondate al centinaio di migliaia. Questo significa che la classifica non è nemmeno esaustiva, perché esclude i titoli con meno di cinquantamila ore di visione. Al primo posto c’è il thriller The night agent, su un agente dell’Fbi, con più di 812 milioni di ore di visione. In fondo c’é _ Il signor Kim, il mio maestro_, una commedia sudcoreana del 2003 con centomila ore, anche se questo posizionamento è il risultato del modo in cui Excel ordina il catalogo. Le ultime quattromila voci hanno tutte centomila ore di visione, cioè il valore minimo della classifica, e sono disposte in ordine alfabetico. Grazie alla notevole offerta internazionale di Netflix, la fascia inferiore del club delle centomila ore è piena di titoli in altri alfabeti: arabo, giapponese, coreano.
A parte i primi posti, dominati dai Netflix Original e dai film per bambini, non è chiaro perché certi titoli finiscano in determinate posizioni. Perché Memento si trova nel ghetto delle 300mila ore, mentre Coach Carter ha ventuno milioni di ore di visione? Forse Memento era disponibile solo in Slovacchia, forse è stato posizionato male nell’app. O forse non ha mai innescato quel meccanismo algoritmico-culturale che trasforma i titoli del catalogo storico in successi contemporanei. La classifica non lo spiega. Scorrendola, però, si capisce come le dimensioni dell’archivio hanno accentuato l’importanza del caso nelle nostre abitudini di consumatori.
Uno sguardo all’archivio può impressionarci per la sua vastità, ma in realtà è come sbirciare dal buco della serratura. Quando apro Netflix sul mio apparecchio, mi presenta subito un carosello di settantacinque nuove uscite; poi i dieci migliori programmi televisivi di oggi negli Stati Uniti; appena sotto altri settantacinque suggerimenti perché ho guardato il poliziesco Rebel ridge; ancora più giù una selezione algoritmica di trentatré prodotti “Scelti per te”; poi i “Drammi televisivi da guardare tutti d’un fiato”, ancora settantacinque. Segue “Altri titoli da guardare”, una combinazione di programmi guardati da mio figlio e da me. Poi ancora: “Le ultime dieci cose che non abbiamo finito di guardare”; infine una lista di ulteriori settantacinque titoli suggeriti perché ho guardato il thriller La fratellanza. E in più almeno trenta caroselli di circa settantacinque titoli ciascuno. È un sacco di roba, ma è solo una piccola fetta del catalogo.
Alla fine, ciò per cui paghiamo non è un singolo film o serie tv, o tre o dieci o cinquanta, ma piuttosto questo senso di incalcolabile abbondanza. Il che significa, a sua volta, che un solo titolo non può avere la stessa rilevanza che poteva avere nell’era della televisione in chiaro. In questo contesto, anche un grande successo può sembrare una specie di fallimento. Prendiamo Triple frontier, il thriller d’azione del 2019 con Ben Affleck e Oscar Isaac: è stato uno dei film di maggior successo della piattaforma in quell’anno, ma, come sottolinea Lotz nel suo libro, questo non significa che abbia particolare valore per l’azienda. Un budget di 115 milioni di dollari per un film è difficile da giustificare per Netflix a prescindere dal volume dell’audience, perché in fondo fornisce solo due ore di contenuti a una base di abbonati che paga soprattutto per un’offerta apparentemente infinita. Il dubbio di Lotz trova conferma nelle parole di Ted Sarandos, il responsabile dei contenuti della piattaforma, che durante una riunione, a quanto pare citando proprio quel titolo, ha chiesto un miglior bilanciamento tra budget e pubblico. Questo succedeva a metà del 2019, quando la stampa finanziaria cominciava a farsi domande sulla sostenibilità del modello di Netflix.
Matt Stoller, un saggista molto critico verso i monopoli, ha citato questo episodio in un post del suo blog dedicato alle difficoltà di Hollywood. La sua teoria è che Hollywood sia diventata così grande da non riuscire più a capire cosa vuole davvero il pubblico. Stoller cita il successo di Ritorno al futuro, un film del 1985 che è diventato un cult e ha guadagnato centinaia di milioni di dollari. Come ricorda il saggista, tutto era successo lentamente: il film aveva debuttato a luglio in circa 1.400 sale, ed era arrivato a 1.550 entro la fine di agosto, rimanendo in almeno mille cinema fino al periodo natalizio (oggi un film hollywoodiano ad alto budget di solito debutta in circa quattromila sale e sparisce in poche settimane). Ritorno al futuro, scrive Stoller, “arrivò in un mercato dove c’era un’interazione costante tra le creazioni artistiche e il pubblico (e gli intermediari) che ne determinava il successo e la validità. Oggi invece, secondo Stoller, il pubblico è soggetto a una sorta di alimentazione forzata di contenuti, come se gli fosse offerto il programma di quattromila sale alla volta.
La zombificazione della cultura è stata resa possibile in parte dai mezzi di comunicazione digitali, ormai simili a creature artificiali
La situazione è particolarmente critica nell’ambito dello streaming, dove il tasso di abbandono (il numero di persone che annullano un abbonamento) è ciò che incide davvero sui profitti. Almeno per Netflix. Per un’azienda come la Apple, in cui l’attività di streaming è quasi un aspetto marginale, i titoli prodotti rimangono nascosti nell’app e nessuno ne parla più, a prescindere da quanto sono costati e dal valore dei talenti coinvolti. In alcuni casi, le piattaforme hanno perfino deciso di non pubblicare film già pronti per poterne registrare le perdite nelle dichiarazioni fiscali. Questi sono gli incentivi del mercato dello streaming spinti al paradosso: l’intrattenimento di massa è totalmente scollegato dai segnali che arrivano dal mercato, paradossalmente a opera di entità che conoscono le nostre abitudini di consumo come non era mai successo in passato.
Questo non significa che le piattaforme non abbiano successo e che le persone non guardino la tv in streaming. Nel 2023 Netflix ha accumulato 183 miliardi di ore di visione. Ma può spiegare l’ascesa della cosiddetta mid tv (televisione mediocre): spettacoli costosi, abbastanza brillanti e con cast di qualità, che però riescono a essere al massimo “carini”, per citare il critico televisivo del New York Times James Poniewozik. È innegabile che nel lungo viaggio della tv qualità da una serie come The Wire a una come The Bear, si è insinuata una certa stanchezza: commedie con poche battute, drammi senza intensità, una decisa tendenza a scrivere trame nostalgiche e incentrate sui traumi dei protagonisti e un sacco di riprese fatte in Canada.
La prima generazione di titoli di alto livello è stata creata da veterani della tv tradizionale in cerca di libertà espressiva, persone che conoscevano i rudimenti del mestiere, cosa tiene lo spettatore incollato allo schermo durante la pubblicità: ritmo, struttura, dialoghi credibili. Ma da circa dieci anni non è più così, e alla fine ci si trova davanti allo stesso problema di Richie Rich: quando anneghi nei soldi, è facile dire sì a tutto.
Alla vecchia maniera
Forse l’effetto più disorientante di questa situazione è lo scollamento tra quello che guardiamo e quello che pensiamo di guardare. È un tema costante della critica televisiva da Mad men in poi, ma è difficile negare che da allora le cose siano decisamente peggiorate. Davanti alle cifre di Netflix ci si rende conto che la tv di qualità non è per forza il risultato del modello di streaming, ma piuttosto il felice prodotto collaterale di un’industria in transizione, che forse oggi somiglia in qualche modo a una piccola sottocultura.
Prendiamo per esempio I think you should leave, lo spettacolo comico diventato fonte inesauribile di meme da condividere sui social media. È difficile pensare a un’altra serie le cui battute siano diventate così rapidamente di uso comune online; eppure l’ultima stagione, uscita nella prima metà del 2023, non è nemmeno tra i primi tremila titoli di Netflix: occupa il 3.181° posto. Precisiamo: la serie è uscita a maggio, quindi i dati riflettono solo il primo mese di visione; gli episodi sono molto brevi, circa quindici minuti, e ce ne sono solo sei a stagione, quindi il criterio delle “ore viste” la penalizza sicuramente. Tuttavia non è nemmeno tra i primi cinquecento titoli nel rapporto sugli ascolti della seconda metà del 2023, che usa criteri di misurazione leggermente diversi.
Rumore bianco di Noah Baumbach, con Adam Driver e Greta Gerwig, una delle uscite più pubblicizzate di due inverni fa, è stato il 547° titolo più visto nella classifica dell’inizio del 2023, superato, tra gli altri, da White chicks, un film del 2004 dei fratelli Wayans. Rumore bianco è stato un fallimento se paragonato a Fubar, una serie con Arnold Schwarzenegger di cui non avevo mai sentito parlare, e alla prima stagione di , uscita nel 2021 e a quanto pare tra i maggiori successi di Netflix, con entrambe le stagioni nella top 10 della piattaforma. Neanche di questa serie avevo mai sentito parlare né conosco qualcuno che ne sappia qualcosa. Forse è un problema mio. Ma forse è anche vostro.
Ricordate Hannah Gadsby, la comica australiana autrice di Nanette, il monologo del 2018 onnipresente nei discorsi dell’era del MeToo? Gadsby ha prodotto un altro show nel 2023, Something special, di cui non sapevo nulla prima di studiare le classifiche di Netflix. È nelle ultime posizioni, superato da lavori di comici mai amati dalle élite (come Andrew Santino e Leanne Morgan) e, in particolare, da una figura che suscita soprattutto ostilità: Shane Gillis, il cui Beautiful dogs è stato però uno degli spettacoli di stand-up comedy più visti dell’anno. Ovviamente il compito dei mezzi d’informazione non è solo raccontare al pubblico cos’è più in voga, e Nanette è stato sicuramente molto più visto di Something special, in parte anche grazie a quanto se n’è parlato sui mezzi d’informazione. Ma il fatto è che per anni nessuno di noi ha avuto la minima idea di cosa stesse succedendo in quel mondo: ci siamo affidati ai suggerimenti di amici, social media, giornali, riviste e siti web, tutti accecati allo stesso modo.
Netflix ha continuato a produrre i suoi rapporti, e io ho continuato a osservare con stupore le prime posizioni. The night agent, Outer banks, One piece, La mia prediletta, Who is Erin Carter?, The gentlemen, sono tutti nella top 5 di Netflix secondo i tre rapporti diffusi finora. Non conosco nessuno che li abbia guardati e non credo di aver mai letto nulla al riguardo prima di cominciare a scrivere quest’articolo. Sembrano reliquie di un mondo parallelo in cui certe novità non sono mai arrivate, a dimostrazione di quanto sia commercialmente saggio fare le cose alla vecchia maniera. E fanno pensare ai grandi discorsi che circondano ogni episodio dei programmi televisivi più alla moda, usati per cercare di capire lo spirito del tempo, lo zeitgeist. E se alla fine il geist del nostro zeit consistesse semplicemente nel guardare tutta di fila una serie basata su un romanzo di Harlan Coben (chi?) e intitolata Un inganno di troppo? È stato il titolo più visto su Netflix nella prima metà di quest’anno.
Uber e zombie
Alcuni economisti hanno criticato la politica dei tassi d’interesse a zero perché facilita la nascita delle cosiddette “imprese zombie”: aziende che sopravvivono solo grazie alla disponibilità di capitali a basso costo, che si trascinano rifinanziando il debito, senza mai fallire. Una specie di creature artificiali. Proprio a questo mi riferisco quando penso a come il mondo della tecnologia si è impossessato della cultura. Negli ultimi anni queste strategie commerciali, e il fiume di denaro usato per realizzarle, hanno dato vita a una sorta di zombificazione della cultura, cancellando davanti ai nostri occhi un mondo che sembrava vivo e reale.
Questo zombificazione è stata resa possibile in parte dai mezzi di comunicazione digitali, aziende tenute a galla dall’esuberanza degli investitori e dalla disponibilità di denaro a basso costo, cosa che è diventata evidente solo a posteriori. Quando l’anno scorso Vice ha dichiarato bancarotta, il Financial Times l’ha definita un “fenomeno Zirp” e un “inceneritore di denaro”, che aveva raccolto centinaia di milioni di dollari da investire in una crescita mai arrivata. Allo stesso modo BuzzFeed ha accumulato enormi finanziamenti da capitale di rischio, dando ascolto a investitori che chiedevano crescita più che profitti, e ora è indebitata fino al collo. L’imprenditore statunitense repubblicano Vivek Ramaswamy ha comprato le sue azioni a basso costo, conducendo poi una crociata per rendere il sito più conservatore.
Entrambe le aziende, insieme a tante altre imprese più piccole, puntavano a generare profitti da un’economia di scala. Questi profitti non sono mai arrivati, ma l’intero settore del giornalismo si è comunque reinventato a immagine e somiglianza di queste testate: veloci, disinvolte, poco attente alla qualità e soprattutto sempre pronte a sfornare riassunti e articoli sulla tv.
Così, proprio mentre i vecchi segnali in arrivo dal mercato diventavano superati, al loro posto sono stati prodotti nuovi segnali artificiali, con un’offerta di programmi tv in costante crescita verso cui indirizzarli. E i feed dei social media, non rappresentativi del pubblico, sono stati usati per rimettere tutto in circolo, sparando messaggi in questo nuovo ecosistema come fossero i fasci di luce di una sfera a specchi.
Con il senno di poi, è difficile non chiedersi se questa situazione abbia creato un branco di zombie, che hanno cominciato a seguirsi a vicenda lungo uno strano percorso lastricato di tanti Nanette, titoli più interessanti da analizzare per come coinvolgono lo spettatore che da guardare. I creatori di questi spettacoli sapevano a malapena chi fosse il loro pubblico – e in effetti l’accesso ai dati degli spettatori è stata una delle richieste avanzate durante lo sciopero degli sceneggiatori dello scorso anno – ma potevano accedere alle critiche scritte da qualche giovane appena laureato. Con ogni probabilità i programmi hanno cominciato a riflettere questi input e si sono creati strani circuiti di feedback. Possiamo solo fare ipotesi su come sia successo. Quello che possiamo dire con certezza è che l’abisso tra discorso d’élite e discorso popolare che si è spalancato in questi anni è stato favorito dall’invasione del mondo tecnologico nella cultura pop.
Ora che il rigore fiscale si fa sentire, Netflix ha messo fine all’era dell’espansione. Ci sono stati licenziamenti. Il nuovo responsabile del settore cinematografico, Dan Lin, ha cancellato i progetti più costosi che non avrebbero trovato un pubblico sufficiente. E, cosa forse più importante, nel 2022 Netflix ha introdotto una fascia “con annunci pubblicitari”, coinvolgendo nuovamente proprio quei protagonisti da cui qualche anno prima aveva liberato la televisione. Questo non significa certo la fine della tv intelligente e creativa. Baby reindeer, per esempio, la serie più interessante, brillante e coraggiosa realizzata quest’anno da Netflix, è stata anche uno dei suoi maggiori successi. Ed è stata prodotta nel Regno Unito, a migliaia di chilometri da Hollywood, che si sta riprendendo solo ora dallo sciopero degli sceneggiatori, con una sostanziale riduzione della produzione.
Il produttore e scrittore James Schamus ha lamentato quella che definisce la “uberificazione” di Hollywood, alimentata dalle piattaforme di streaming: Netflix e le sue concorrenti avrebbero degradato il talento creativo, passando dal sistema che prevedeva la condivisione dei profitti a quello in cui gli sceneggiatori lavorano per una retribuzione fissa su commissione. Il paragone con Uber è particolarmente azzeccato, perché l’azienda di San Francisco – indiscusso campione dell’era Zirp – ha contribuito a creare un mondo chiaramente migliore sotto diversi aspetti, ma peggiore, forse in modo meno percettibile, per altri: meno caratteristico, meno interessante e a volte forse anche meno utile.
Secondo gli ultimi dati, a New York ci sono più di centomila veicoli di Uber o simili e le strade di Manhattan non sono mai state così trafficate. I tempi di risposta delle ambulanze peggiorano di mese in mese. Un recente articolo del New York Times raccontava una corsa in taxi dal terminal di Port Authority al Museo d’arte moderna: un percorso di appena undici isolati durato più di mezz’ora. L’articolo citava uno studio secondo cui più della metà delle auto in circolazione sono a noleggio: i classici taxi gialli sono stati sostituiti da un’anonima flotta di berline e suv, prenotabili comodamente con un’app, che servono le richieste del mercato così bene da bloccare le strade della città.
Forse è proprio in questa direzione che sta andando l’intrattenimento: sempre nuovi prodotti disponibili. Come non era mai successo in passato. Più di quanto si possa sognare. E per accedere alle novità basta premere un tasto, come avete sempre sperato che fosse. Se poi tutto questo sia in grado di portarvi dove volete, è un’altra faccenda. La buona notizia è che se vi annoiate, potete sempre guardare il cellulare. ◆ svb
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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati