Un giorno il presidente Saddam Hussein invitò degli amici per un giro in barca sul fiume Tigri. Portò con sé alcune guardie del corpo, il segretario e me, il suo cuoco personale. Faceva caldo, era una delle prime serate primaverili di quell’anno. Non c’era nessuna guerra in corso, tutti erano di ottimo umore, e uno degli uomini della scorta, Salim, mi annunciò: “Mettiti seduto, Abu Alì, hai una giornata libera. Il presidente ha detto che oggi cucina lui per tutti. Farà la kofta”.
“Giornata libera…”. Sorrisi tra me e me, perché sapevo che con Saddam non esisteva niente del genere. E dato che si doveva mangiare la kofta, mi misi a preparare l’occorrente per la grigliata. Tritai carne di manzo e di agnello in parti uguali, la insaporii con cipolla, pomodoro fresco e prezzemolo, e misi il tutto in frigorifero, in modo che poi aderisse bene allo spiedo. Preparai anche una bacinella per sciacquare le mani, accesi il fuoco, tostai le pite, e affettai pomodori e cetrioli per un’insalata. Solo a quel punto mi sedetti.
In Iraq tutti gli uomini sono convinti di sapere come si cuoce la carne alla griglia. Si apprestano a grigliarla anche se non ne sono affatto capaci. Saddam non era da meno. Spesso i suoi ospiti mangiavano solo per gentilezza ciò che cucinava per loro: in fondo chi si azzarderebbe a dire in faccia al presidente di non gradire il cibo che ha preparato con le proprie mani?
Non mi piaceva quando Saddam si metteva ai fornelli. Tuttavia, quel giorno mi ero detto che era solo la kofta, cosa poteva andare storto? Se hai la carne pronta, già tritata e condita, basta metterne uno strato sottile sullo spiedo, schiacciare con le dita, adagiare per pochi minuti sulla griglia ed è fatta.
Saddam e amici aprirono una bottiglia di whisky e mandarono Salim in cucina per prendere la carne e l’insalata.
Restai seduto, in attesa degli eventi.
Mezz’ora più tardi ricomparve Salim, che reggeva il piatto con la kofta. “Te la manda il presidente”. Ringraziai dicendo che era molto gentile da parte del signor presidente, staccai la carne e l’avvolsi nella pita.
Assaggiai e… che bruciore! Ahi che bruciore!
“Acqua, presto, acqua!”.
Mandai giù qualche sorso, ma non provai alcun sollievo.
“Ancora un po’”.
Niente. Continuava a bruciare. Avevo le guance e le gengive infuocate, dagli occhi cominciarono a scendermi le lacrime.
Fui colto dal panico. “Veleno?”, pensai. Ma perché?! Per quale motivo?! Forse qualcuno ha cercato di avvelenare Saddam e invece l’ho mangiato io?!
“Un sorso d’acqua”.
Sono vivo?
“Un sorso d’acqua”.
Sono vivo… No, non è veleno…
Ma se non è veleno, allora che avrà combinato Saddam? Continuai a tracannare acqua per quasi venti minuti, cercando di eliminare il sapore piccante dalla bocca.
Fu così che scoprii il tabasco.
Saddam aveva ricevuto quella salsa in regalo, e dato che non gli piaceva mangiare piccante, decise di testarla sui suoi amici. E sul personale di servizio. Eravamo tutti lì a correre freneticamente in lungo e in largo sulla barca, bevendo acqua per neutralizzare l’effetto del tabasco, e nel frattempo Saddam si sbellicava dalle risate.
Salim tornò nel giro di una ventina di minuti per informarsi se avevo gradito la kofta. Mi fece uscire dai gangheri. Dissi: “Se fossi stato io a rovinare la carne in questa maniera, Saddam mi avrebbe piazzato un bel calcio nel sedere e mi avrebbe detto di rimborsargliela”.
A volte lo faceva. Se il cibo non gli piaceva, si faceva restituire i soldi. Per la carne, il riso, il pesce. Diceva semplicemente: “Questa roba fa schifo. Mi devi ridare cinquanta dinari”.
Fu per questo motivo che lo dissi. Ma certo non mi aspettavo che Salim avrebbe riferito le mie parole al presidente. Invece, quando Saddam gli chiese della mia reazione, lui rispose: “Abu Alì ha detto che se fosse stato lui a cucinare una cosa del genere, il presidente gli avrebbe dato un calcio nel sedere e si sarebbe fatto ridare i soldi”. Lo spiattellò in presenza di tutti gli ospiti di Saddam.
Il presidente gli ordinò di venire a prendermi.
Mi spaventai. E anche parecchio. Non avevo idea di come avrebbe reagito Saddam. Non si usava criticarlo. Non lo faceva nessuno: né i ministri né i generali, figuriamoci un cuoco.
Che potevo farci? Mi avviai. Ce l’avevo con Salim, perché mi aveva tradito, ma anche con me stesso per la mia stupida uscita. Vidi Saddam e i suoi amici seduti intorno al tavolo sul quale erano appoggiati la kofta e delle bottiglie di whisky aperte. Alcuni avevano ancora gli occhi arrossati, era evidente che anche loro avevano assaggiato il tabasco.
“Mi è giunta voce che la mia kofta non ti è piaciuta”, disse Saddam con un tono grave.
I suoi amici, le guardie del corpo, il segretario, erano tutti lì a fissarmi.
Avevo sempre più paura. Non potevo di punto in bianco mettermi a tessere le lodi della sua kofta, sarebbe stata una menzogna lampante.
Cominciai a pensare alla mia famiglia. Mi chiesi dove si trovasse mia moglie in quell’istante. E cosa stesse facendo. Mi domandai se i bambini fossero già tornati da scuola. Non sapevo bene cosa aspettarmi, ma ero certo che non sarebbe stato niente di buono.
“Non ti è piaciuta…”, ripeté Saddam.
E all’improvviso scoppiò a ridere.
Continuò a ridere e a ridere e a ridere. E tutti i commensali si unirono a quella risata.
A quel punto Saddam tirò fuori cinquanta dinari, e li passò a Salim dicendo:
“Hai ragione, Abu Alì, questa roba è troppo piccante. Ecco il risarcimento per la carne che ho sprecato. Ti preparo un’altra kofta, ma senza la salsa. La vuoi?”.
La volevo.
Me la servì senza tabasco. Quella volta gli era venuta molto buona, ma ripeto: è impossibile che qualcosa vada storto con la kofta. ◆ mb
Witold Szabłowski è un giornalista polacco. Tra i suoi libri pubblicati in Italia L’assassino dalla città delle albicocche (Keller 2019). Questo articolo è un estratto del suo ultimo libro, Come sfamare un dittatore (Keller 2023).
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Questo articolo è uscito sul numero 1528 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati