L o chiameremo K. Lavora per una rivista di moda di Hong Kong ed era abituata a cambiare al volo le interviste da mettere in pagina. Negli ultimi anni, però, il suo lavoro è diventato più noioso e stancante. “Negli ultimi anni” significa dopo le proteste del 2019, la legge sulla sicurezza nazionale del luglio 2020, la pandemia e tutti gli altri grandi cambiamenti che Hong Kong ha attraversato di recente. Anche se K. non si è mai occupata di attualità, politica o giustizia, la situazione del paese influisce pesantemente sul suo settore.
In passato la scelta di chi intervistare dipendeva dalle tendenze culturali, dalle scelte editoriali, dalle pubblicità e dalla forza dei temi, ma oggi bisogna attenersi a tutt’altri criteri. Gli intervistati da che parte stanno? Sono gialli (a favore del movimento per la democrazia) o blu (dalla parte della polizia che ha represso il movimento)? Per mettere un personaggio in copertina bisogna tener conto anche delle sue posizioni politiche? Cosa bisogna evitare di scrivere?
Queste domande sono via via diventate più pressanti, non solo nella quotidianità di K. A tre anni dall’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale, che ha istituito i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere, il mondo dell’informazione è stato stravolto da nuove, invalicabili, linee rosse. Nell’informazione culturale la trasformazione è più lieve rispetto a quella che ha investito chi si occupa di attualità e società, ma con la nuova legge ci sono argomenti che si salvano? Se si parla di cantanti, recensioni di ristoranti o libri, si può essere certi di non incorrere nella censura?
Fuori dai denti
“Pensi che non voglia intervistare cantanti che si sono schierati politicamente come Anthony Wong o Denise Ho?”, mi chiede Hongyan, un critico cinematografico che dirige una rivista. Nel 2019, quando era uscito il film Beyond the dream, aveva intervistato il regista Kiwi Chow. All’epoca Chow era conosciuto solo come uno dei registi di Ten years, un film collettivo che immaginava Hong Kong nel 2025 sotto la totale influenza cinese. Beyond the dream è stato uno dei dieci migliori film di Hong Kong del 2020. Un’opera campione d’incassi che ha vinto anche il Cavallo d’oro al festival di Taipei. Hongyan aveva chiesto a Chow se intendesse trattare anche temi politici e lui aveva risposto un convinto sì.
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“Solo dopo ho saputo che stava lavorando a Revolution of our times, il documentario sulle proteste del 2019 e 2020. Avrei voluto contattarlo, ma non potevo perché dirigo una rivista”. E spiega: “Se provassi a intervistare Anthony Wong o Denise Ho il mio editore mi richiamerebbero immediatamente. Da quando è stata introdotta la legge sulla sicurezza nazionale, si fa un sacco di scrupoli”. Ci sono altre personalità che dal luglio 2020 appaiono raramente sui mezzi d’informazione. Molte sono indagate o già sotto processo. Dopo la proiezione in anteprima al 74° festival di Cannes, Revolution of our times ha vinto il premio a Taipei ed è stato proiettato in Giappone, in Europa e in Nordamerica. Ma nel frattempo a Hong Kong gli investitori si sfilavano dal nuovo progetto di Kiwi Chow, gli attori lo abbandonavano, gli accordi per l’uso delle location saltavano e, anche se in teoria a Hong Kong nessun regista è esplicitamente messo al bando, i critici (compreso Hongyan) non avevano il coraggio di intervistarlo. Questa situazione è durata fino al gennaio 2023, quando Kiwi Chow ha finito di girare Say I do to me, un film commerciale, e ha cominciato a promuoverlo. Il suo nome è riapparso sui mezzi d’informazione tradizionali, ma niente in confronto alla copertura ricevuta per Beyond the dream. Anche se il momento era passato, Hongyan è riuscito a intervistarlo di nuovo per la sua rivista. “Certo, ero pieno di domande e mi rendevo conto che avrei avuto molti limiti, ma mi sono convinto che girando intorno al problema sarei almeno riuscito a disegnarne i contorni. Se quando eravamo uno spazio libero dovevamo fare attenzione a cosa ci dicevano registi e attori, ora mi concentro su cosa non dicono e sugli argomenti che cercano di evitare: i contorni del problema, appunto”.
L’esperienza di K. è molto simile: “Dopo il 2019 il mondo dell’informazione è diventato ridicolo. Nessuno prende l’iniziativa, tutti hanno paura di sembrare provocatori”. I redattori delle pagine culturali non avevano mai vissuto queste sensazioni.
Un elemento fondamentale delle riviste di moda è la pubblicità, che è cambiata: i marchi, grandi e piccoli, hanno selezionato attentamente le personalità con cui collaborare, eliminando quelli “potenzialmente pericolosi”. K. racconta che alcune aziende avevano puntato su una giovane attrice per poi scaricarla quando lei si è esposta pubblicamente a favore dei movimenti per la democrazia. “È tutto molto triste”, commenta.
Hongyan racconta che negli ultimi anni ha fatto una sola intervista completamente libera, a una cantante. “Ha detto apertamente che stava valutando se restare o andar via, e ha parlato di censura. Tutta la redazione faceva finta di lavorare, ma avevamo le lacrime agli occhi. E non credo solo per le sue belle parole. Era tanto tempo che qualcuno non si esprimeva con coraggio durante un’intervista”. Ovviamente poi Hongyan non è riuscito a pubblicarla. “L’editore era preoccupato che potesse succedere all’artista qualcosa, e lo capisco. Bisogna usare tutte le cautele, fare un passo alla volta. Da giornalista e autore sono stato censurato diverse volte e da direttore ho a mia volta censurato. È inevitabile”.
Gialli e blu
Dal 2019 la popolazione di Hong Kong si è divisa in gialli e blu, una separazione che si è gradualmente estesa a tutti i settori. Celebrità, registi, ristoranti, canali tv, aziende di moda si sono schierati, a prescindere dal fatto che fossero più o meno attivi politicamente. Questa presa di posizione è diventata un tratto identitario e, oltre a rovinare le relazioni familiari e quelle affettive, ha investito i giornali, il modo in cui sono letti e i contenuti che offrono, anche i più leggeri. K. ricorda che nel 2019 questa divisione toccava ogni aspetto della sua vita e che, nel settore delle pubbliche relazioni, era quasi vietato parlare di politica. La polarizzazione era ancora più evidente sul web.
L. è un giornalista che lavorava per quotidiani e supplementi culturali prima di diventare autore di contenuti video. Accorgendosi che la libertà d’espressione per i giornalisti si stava drammaticamente restringendo, insieme a dei colleghi ha deciso di specializzarsi in ambiti più leggeri come la cucina e la moda. Per avere una linea riconoscibile, avevano deciso di non recensire ristoranti o negozi “blu”. “Prima di cominciare un video, facevamo ricerche sui social network e intervistavamo i vicini: se si trattava di un esercizio commerciale che simpatizzava per i blu, non l’avremmo coperto”. Ma anche così bisognava stare attenti. I video rendono visibili molti dettagli che possono sfuggire all’intervistatore. Anche un piccolo adesivo poteva scatenare l’odio in rete.
Chen Jing ha lavorato come redattrice culturale per cinque anni, prima di diventare una freelance. L’ultima testata per cui ha lavorato a tempo pieno era una rivista. La legge sulla sicurezza nazionale non era ancora entrata in vigore, ma gli arresti erano più frequenti. Una delle interviste che ricorda con più piacere è quella a Dalu Lin Kok-cheung, ex direttore creativo che avrebbe vinto le elezioni distrettuali del 2019 grazie anche a una campagna molto all’avanguardia. All’epoca Chen Jing credeva che non fosse rischioso chiedergli cosa pensava della comunità di quel distretto. Poi, racconta, “ci ho ripensato: e se gli fosse successo qualcosa?”. Negli ultimi anni gli intellettuali, i parlamentari, gli analisti politici e i leader delle liste civiche che parlavano più spesso con la stampa sono stati arrestati o si sono trasferiti in altri paesi. “Oggi a Hong Kong non ci sono più molti esperti da intervistare su uno specifico tema”, si lamenta Y., un giornalista. “Quelli con cui ho lavorato in passato se ne sono andati, specialmente chi si occupava di politica e società civile. Il tessuto sociale è cambiato”.
Secondo S., ex redattore di una rivista culturale, la libertà di stampa a Hong Kong ha raggiunto il suo punto più basso. Negli ultimi anni è cresciuto l’uso di pseudonimi, mentre sono sempre meno le persone disposte a farsi fotografare. Il fenomeno è talmente vasto , racconta Y., che “gli art director hanno creato soluzioni per aggirare il problema, come coprire i volti con maschere tribali. Alla fine alcuni servizi sono forse più interessanti e potenti”.
Chen Jing è convinta che negli ultimi due o tre anni il suo lavoro sia diventato più stimolante e creativo: “Non mi aspetto più un’opinione sulla politica, ma chiedo sempre ai miei interlocutori quali valori si sono persi. Qualsiasi osservazione sui temi sociali è interessante”. Quando le chiediamo cosa cercano i lettori delle riviste culturali risponde senza tentennare: “Coraggio”. Ma precisa: “Non bastano parole coraggiose, serve che l’intervistato sia coraggioso. E anche l’intervistatore. Un insieme di fattori che non è facile mettere insieme”. Anche S. ammira i giornalisti che cercano di rimanere in prima linea e trovano gli spazi per parlare di quel che ritengono interessante: “Si vede la loro etica dagli articoli che scrivono”.
Anche se ci sono redattori giovani che resistono come Chen Jing, l’intero settore sta andando incontro a cambiamenti strutturali. “Meno persone sono disposte a intraprendere la professione”, dice il presidente dell’associazione dei giornalisti di Hong Kong, Chen Langsheng. Nel 2019 gli iscritti erano novecento, il numero più alto nella storia dell’associazione. All’inizio del 2023 erano meno della metà, di cui solo duecento ufficialmente iscritti. Si è creato così un gap generazionale: secondo S. con meno giornalisti esperti nelle redazioni culturali diventa difficile anche formare quelli alle prime armi.
Senza voce in capitolo
Nonostante tutto, il gruppo editoriale per cui lavora Y. cerca ancora nuove leve da assumere. In una società in cui i diritti vengono cancellati, afferma, il problema più grande è che i più giovani si ritrovano senza voce in capitolo. “Puoi frequentare l’università, ma non fondare un’associazione studentesca; puoi vivere la tua vita, ma il tuo diritto di voto e di dissenso sono limitati al punto che dubiti di avere ancora qualche peso. È per questo che i giovani si sentono impotenti e soffrono di depressione”. Hongyan una volta ha confessato: “Non scrivere è già diventata la regola base. L’assurdità è che c’è sempre qualcosa su cui fare un articolo, ma c’è anche sempre un motivo per non scriverlo”.
Negli ultimi anni Hongyan è entrato in contatto con un gruppo di artisti della Cina continentale. “Hanno tante idee molto più potenti di quelle degli artisti di Hong Kong. Ma appena si tocca la politica, perdono la voce. Sono liberi, entusiasti e pieni d’iniziativa, a parte quando il discorso vira sul politico. Nella Repubblica popolare questo vale anche per le riviste letterarie e culturali”. Hongyan è pessimista: “Questo non è il futuro di Hong Kong, sta già succedendo”.
“Tra partire e restare, abbiamo scelto di creare”, ha scritto Y. sul suo profilo social. “Siamo in un tempo sospeso. Non sappiamo come sarà la città tra sei mesi, né dove saremo il mese prossimo. È una follia”. Eppure ci sono ancora persone che continuano a lavorare nei mezzi d’informazione e a raccontare Hong Kong. “Se ancora esistiamo, abbiamo il dovere di farlo”. ◆ cag
◆ Nel marzo 2019 centinaia di migliaia di persone parteciparono a una manifestazione contro una norma che avrebbe permesso l’estradizione verso la Cina continentale delle persone ricercate dalle autorità di Pechino. Le proteste durarono mesi e a settembre la governatrice Carrie Lam ritirò la norma senza però rispondere alle altre richieste dei manifestanti. Le manifestazioni continuarono fino all’arrivo della pandemia. Nel maggio 2020 la tensione è salita di nuovo quando Pechino ha deciso d’imporre a Hong Kong la legge sulla sicurezza nazionale, che introduce i reati di sovversione, sedizione, terrorismo e collusione con organizzazioni straniere. Bbc
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Questo articolo è uscito sul numero 1536 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati