Lee Kuan Yew, il padre padrone di Singapore
Intelligente e pragmatico, schietto e determinato, “un modello per i leader mondiali di ieri e di oggi”, come l’ha descritto Barack Obama, “una perdita tanto per la comunità internazionale quanto per Singapore” nelle parole del presidente cinese Xi Jinping. Nonostante abbia governato per trent’anni con il pugno di ferro, Lee Kuan Yew, il padre-padrone della Singapore moderna morto di polmonite a 91 anni il 23 marzo, rimarrà alla storia come l’uomo alla base del miracolo che ha visto la città-stato diventare dal nulla uno dei paesi più ricchi del mondo, centro economico e finanziario internazionale e un modello di ordine, pulizia ed efficienza.
Lee criticava l’atteggiamento eccessivamente liberale delle democrazie occidentali, dove la libertà individuale andava a scapito delle società ordinate, e pretendeva di dimostrare che non necessariamente il successo economico deve andare di pari passo con la democrazia. Il Partito d’azione popolare da lui fondato nel 1954 continua a governare il paese ininterrottamente dal 1959, quando il Regno Unito concesse a Singapore l’autogoverno.
Fino alle sue dimissioni nel 1991, per trent’anni Lee ha guidato la piccola potenza asiatica con un misto di paternalismo autoritario e riforme economiche che abbracciavano il libero mercato mantenendo per lo stato un ruolo di primo piano. La ricetta di Lee includeva anche un’enfasi particolare data all’istruzione, con l’inglese come lingua d’insegnamento principale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: uno dei paesi con il pil pro capite più alto del mondo e un livello di corruzione ridotto ai minimi termini (tra le misure per disincentivare il legame tra corruzione e politica, stipendi stellari per il premier e i ministri) che ha favorito massicci investimenti stranieri privati e portato Singapore all’apice del successo economico.
Tutto ciò, però, a un prezzo. Come Lee stesso candidamente ammetteva, senza usare il pugno di ferro, senza limitare la libertà dei cittadini, non sarebbe mai stato possibile realizzare il miracolo. “Mi accusano spesso di intromettermi nella vita privata dei cittadini. Sì, se non lo facessi, se non l’avessi fatto, oggi non saremmo qui”, ha detto nel 1986 in un discorso alla nazione. In nome dell’ordine e della pulizia, dunque, negli anni settanta vietò agli uomini di portare i capelli lunghi e oggi chi scrive sui muri o non tira lo sciacquone è punito con multe salatissime.
Per salvaguardare la sicurezza, invece, gli oppositori politici sono stati eliminati, la stampa libera ridotta quasi a zero. “Dobbiamo rinchiudere senza processo chiunque disturbi, che siano comunisti, sciovinisti linguistici o estremisti religiosi. Se non lo facciamo il paese andrà in rovina”, ha spiegato sempre nel 1986. La tranquillità con cui riconosceva che la chiave del miracolo era evitare il caos con qualsiasi mezzo non ha impedito ai leader dell’occidente democratico di esprimere la loro ammirazione per Lee. Henry Kissinger una volta disse che, di tutti i leader mondiali incontrati in mezzo secolo, nessuno gli ha insegnato di più del padre della patria di Singapore. Lee non ha mai nascosto nemmeno la sua antipatia per la stampa libera, sia nazionale sia straniera. Non a caso il paese è al 150° posto nella classifica della libertà di stampa di Reporter senza frontiere.
Tra le vicende che l’hanno visto direttamente coinvolto nella lotta personale contro i giornali che lo criticavano, è rimasta leggendaria quella contro la Far eastern economic review, un settimanale di Hong Kong che oggi non esiste più. Nel 2006 Lee accusò di diffamazione il direttore del giornale, Derek Davies, perché in un articolo avrebbe definito “corrotti” lui e suo figlio Lee Hsien Loong, attuale primo ministro. Dow Jones, proprietaria della rivista, fu costretta a pagare i danni. Già negli anni ottanta un numero della rivista era stato tolto dalla circolazione nella città-stato e ristampato localmente senza pubblicità, facendo perdere all’editore i soldi degli inserzionisti.