La scrittura cura la cattiva memoria
Dalla fondazione della scrittura in Iraq al perché è importante scrivere. Un estratto da Specchi. Una storia quasi universale (Sperling & Kupfer), ultimo libro pubblicato in Italia dallo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano.
La fondazione della scrittura
Quando l’Iraq non era ancora l’Iraq, nacquero là le prime parole scritte. Sembrano orme di uccello. Mani abili le disegnarono, con cannucce affilate, sull’argilla.
Il fuoco, che aveva cotto l’argilla, le conservò. Il fuoco, che distrugge e salva, uccide e dà vita: come gli dèi, come noi. Grazie al fuoco, le tavolette di fango continuano a raccontarci, adesso, quel che era stato raccontato migliaia di anni fa in quella terra fra i due fiumi.
Ai nostri giorni, George W. Bush, forse convinto che la scrittura fosse stata inventata in Texas, ha scatenato con allegra impunità una guerra di sterminio contro l’Iraq. Ci sono state migliaia e migliaia di vittime, e non solo di gente in carne e ossa. È stata assassinata anche molta memoria.
Numerose tavolette di fango, storia viva, sono state rubate o distrutte dai bombardamenti. Una delle tavolette diceva:
Siamo polvere e nulla.
Tutto quel che facciamo non è altro che vento.
La pietra che parla
Quando Napoleone invase l’Egitto, uno dei suoi soldati trovò, sulle rive del Nilo, una grande pietra nera, tutta incisa di segni.
La chiamarono Rosetta. Jean François Champollion, studioso di lingue perdute, passò la sua giovinezza ad arrovellarsi su questa pietra. Rosetta parlava in tre lingue. Due erano state decifrate. I geroglifici egizi no. Continuava a essere un enigma la scrittura dei creatori delle piramidi.
Una scrittura molto ingannevole: Erodoto, Strabone, Diodoro e Orapollo avevano tradotto ciò che avevano inventato, e il sacerdote gesuita Athanasius Kircher aveva pubblicato quattro volumi di sciocchezze. Tutti erano partiti dalla certezza che i geroglifici fossero immagini che integravano un sistema di simboli, e che i loro significati dipendessero dalla fantasia di ogni traduttore.
Segni muti? Uomini sordi? Champollion interrogò la pietra Rosetta durante tutta la sua giovinezza, senza ricevere altra risposta che un ostinato silenzio. Il poveretto era ormai roso dalla fame e dallo scoraggiamento, quando un giorno si prospettò una possibilità che nessuno aveva mai avanzato: e se i geroglifici fossero suoni, oltre a essere simboli? Se fossero anche qualcosa di simile alle lettere dell’alfabeto?
Quel giorno si aprirono le tombe e il regno morto parlò.
Scrivere no
Circa cinquemila anni prima di Champollion, il dio Thot era andato a Tebe e aveva offerto a Thamus, re dell’Egitto, l’arte dello scrivere. Gli spiegò quei geroglifici, e disse che la scrittura era il miglior rimedio per curare la cattiva memoria e la poca sapienza.
Il re rifiutò il regalo: «Memoria? Sapienza? Questa invenzione produrrà l’oblio. La sapienza risiede nella verità, non nella sua apparenza. Non si può ricordare con la memoria altrui. Gli uomini registreranno, ma non ricorderanno. Ripeteranno, ma non vivranno. Verranno a sapere molte cose, ma non ne conosceranno nessuna».
Scrivere sì
Ganesha è un panzone perché gli piacciono moltissimo le caramelle, e ha delle orecchie e una proboscide da elefante. Ma scrive con mani da uomo. Lui è maestro di iniziazioni, è colui che aiuta la gente a iniziare le sue opere. Senza di lui, in India niente avrebbe un inizio.
Nell’arte della scrittura, e in tutto il resto, l’inizio è la cosa più importante. Qualsiasi principio è un grandioso momento della vita, insegna Ganesha, e le prime parole di una lettera o di un libro sono fondanti tanto quanto i primi mattoni di una casa o di un tempio.