La commissione parlamentare che vuole incastrare Hillary Clinton sui fatti di Bengasi
L’ex segretaria di stato Hillary Clinton testimonia oggi davanti a una commissione parlamentare che indaga sulla morte, avvenuta nel 2012 a Bengasi in Libia, dell’ambasciatore statunitense Christopher Stevens, di un altro diplomatico e di due guardie del corpo private al servizio della Cia.
La commissione è stata criticata sia da parlamentari democratici sia da almeno due repubblicani, costretti ad ammettere recentemente che aveva lo scopo di nuocere politicamente a Clinton nella sua corsa alle presidenziali del 2016. In un momento in cui le possibilità dell’ex first lady di assicurarsi la nomination democratica sono più alte che mai – all’indomani della rinuncia del vicepresidente Joe Biden – uno degli ostacoli principali alla sua candidatura è ancora rappresentato da un possibile scandalo sugli errori di giudizio commessi durante il suo mandato al dipartimento di stato.
I fatti
Quella condotta dalla commissione parlamentare è l’ottava inchiesta sull’attacco contro la missione diplomatica statunitense e la base operativa della Cia in Libia da parte di un gruppo di miliziani jihadisti, avvenuto dopo che la coalizione occidentale di cui gli Stati Uniti facevano parte ha deposto l’ex leader libico Muammar Gheddafi.
Ogni indagine è arrivata più o meno alla stessa conclusione: le sedi diplomatiche statunitensi a Bengasi non erano abbastanza protette rispetto al contesto di violenza e caos, e inoltre tutte le richieste fatte nei mesi prima dell’attacco per ottenere più agenti e mezzi di sicurezza erano state ignorate o respinte.
Le indagini hanno attribuito i mancati rinforzi alla confusione burocratica nella gestione della sicurezza della missione e alla sua natura temporanea (visto che nella città portuale erano state trasferite durante la guerra tutte le sedi diplomatiche e istituzioni estere che normalmente si trovano nella capitale Tripoli). Il dipartimento di stato ha stabilito la responsabilità di quattro suoi funzionari e li ha rimossi dai loro incarichi.
Sono nate negli anni molte teorie del complotto, che hanno riguardato di volta in volta le strategie e le azioni conflittuali del dipartimento di stato e della Cia nel conflitto libico, un tentativo dell’amministrazione Obama di coprire i fatti, richieste di aiuto partite durante l’attacco e negate da Washington, lacune ed errori da parte dei servizi segreti sul terreno. Dalle varie indagini è però emerso che queste teorie erano tutte prive di fondamento.
Perché un’altra inchiesta
Quando ha dovuto spiegare qual era il senso dell’ennesima inchiesta sulla vicenda, il deputato della South Carolina Trey Gowdy non ha fornito nessuna risposta precisa, limitandosi a citare una lista di elementi già toccati dalle indagini precedenti. La questione sembrava piuttosto che, al di là delle responsabilità già accertate, non ci fosse stato un esame sufficiente sul ruolo di Clinton. Nelle precedenti testimonianze sugli attacchi alla Camera e al Senato, Clinton si è assunta la responsabilità di non aver garantito una sicurezza adeguata all’avamposto diplomatico, precisando però che non era a conoscenza di richieste specifiche per un rafforzamento delle misure di protezione.
Nonostante le smentite di Gowdy, è ormai chiaro che la commissione sia stata un progetto bipartisan per discreditare Clinton. Lo ha infatti ammesso il leader della maggioranza alla camera Kevin McCarthy, che in un’intervista alla Fox ha ammesso che la commissione ha avuto come obiettivo e risultato di far diminuire i consensi della candidata, ritenuta inizialmente “imbattibile”. E anche un altro repubblicano, il deputato Richard Hanna, ha dichiarato che “gran parte dell’inchiesta era mirata contro la persona Hillary Clinton”. Anche un maggiore dell’aeronautica statunitense che ha collaborato con la commissione d’inchiesta ha detto ai giornalisti che questa indagine aveva più l’obiettivo di colpire Clinton che non di fare chiarezza sull’assalto.
Cosa può emergere ancora?
Uno dei risultati ottenuti finora dalla commissione è stato quello di aver scoperto che nel periodo da segretario di stato Clinton usavaun server di posta elettronica privata sia per il lavoro sia per la corrispondenza personale. Si tratta di una pratica non illegale ma non raccomandabile per chi ricopre un incarico di responsabile della diplomazia. L’uso di un indirizzo di posta privato permetteva a Clinton di evitare richieste da parte della stampa di rendere pubblici i contenuti della sua corrispondenza, anche se oggi tutti i messaggi sono ormai passati nelle mani del dipartimento di stato.
Effetti collaterali
Il tentativo di screditare Clinton nella sua campagna verso la Casa Bianca potrebbe trasformarsi in un boomerang per i repubblicani. Nelle primarie repubblicane l’imprenditore Donald Trump ha già attaccato l’ex governatore della Florida Jeb Bush per il fatto che suo fratello, l’ex presidente George W. Bush, ha sempre preso le distanze dagli attentati dell’11 settembre. L’amministrazione Bush aveva ricevuto diverse segnalazioni su minacce terroristiche che andarono perse nei meandri della burocrazia. Trump ha già fatto notare che è difficile per Bush sostenere che il fratello non ha avuto nessuna responsabilità negli attacchi del 2001 e al tempo stesso accusare Clinton di aver commesso degli errori sulla vicenda degli attentati di Bengasi.