In Messico i giornalisti muoiono per il nostro diritto di sapere la verità
Quando qualcuno uccide, mette a tacere o fa sparire un giornalista la società perde informazioni, smette di sapere, diventa un po’ più cieca e un po’ più sorda. In un regime che si vanta di essere democratico, in un paese che si presume repubblicano e governato dalla legalità, il diritto alla libertà di espressione è una delle garanzie individuali previste dalla costituzione, oltre che un diritto inalienabile difeso dalle Nazioni Unite.
Ma solo sulla carta. Il Messico ha aderito alla dichiarazione in difesa della libertà di espressione a livello internazionale, ha avviato meccanismi di protezione per i giornalisti e ha creato una procura specializzata in delitti contro la libertà d’espressione. Eppure in Messico la realtà non coincide con la carta. Questo paese democratico è nient’altro che una simulazione. Oggi il Messico è il paese dell’America Latina in cui l’esercizio del giornalismo è più pericoloso.
Si legge in un’analisi dei dati e delle statistiche di Reporters sans frontières (Rsf): “Il Messico è uno dei paesi più pericolosi del mondo per i giornalisti; le minacce e gli omicidi per mano del crimine organizzato – incluse le autorità corrotte – sono all’ordine del giorno. Questo clima di paura, associato all’impunità diffusa, genera autocensura e compromette la libertà d’informazione”.
Giornalisti che non si arrendono
Nella sostanza i giornalisti messicani, quelli che non hanno ceduto alla tentazione dei contratti pubblicitari, della manipolazione dell’informazione, del guadagno e dei benefici economici vari, si trovano tra due fuochi: da una parte le minacce e le pallottole del narcotraffico, dall’altra le pressioni politiche ed economiche del governo, che si tratti di quello federale, locale o municipale.
Nello stesso documento, Rsf afferma: “Nell’ultimo decennio sono stati uccisi 80 giornalisti e 17 sono scomparsi”.
Il 9 febbraio l’organizzazione indipendente Artículo 19 ha presentato il suo rapporto sui giornalisti scomparsi in Messico, aggiornato al gennaio del 2016 e con dati risalenti al luglio del 2003. In questi 13 anni sono scomparsi 21 giornalisti, ma il numero complessivo è già cresciuto. Nella lista non c’è Anabel Flores Salazar, “prelevata” all’alba dell’8 febbraio da un gruppo di uomini armati e in uniforme militare.
Le circostanze del rapimento di Anabel Salazar ricalcano il modus operandi dei narcotrafficanti, ma anche delle forze dell’ordine
Le circostanze del rapimento di Salazar ricalcano il modus operandi della criminalità organizzata e dei narcotrafficanti, ma anche delle forze dell’ordine. In ogni caso, che siano stati i narcos o lo stato a rapire Anabel, la sostanza è che l’impunità per chi entra in casa di qualcuno per ammazzarlo (com’è successo alla sindaca di Temixco, Gisela Mota Ocampo) o rapirlo è il risultato della combinazione criminale tra governo e trafficanti, un’unione malsana che può nascere per complicità, minacce, incapacità o tacito accordo.
Anabel Flores Salazar è stata prelevata in casa sua in una mattina che probabilmente era simile a tante altre ma che improvvisamente si è trasformata in un incubo, un incubo di impunità criminale che l’ha portata alla morte. Il suo corpo è stato ritrovato a Puebla, all’interno dei confini dello stato, appeso a un albero con la testa chiusa in un sacchetto di plastica. Un’immagine dell’orrore che si vive in Messico con un presidente incapace di combattere l’insicurezza e la violenza, sconfiggere i criminali e proteggere i cittadini.
I giornalisti messicani corrono seri rischi. Affrontano la corruzione locale e le minacce dei criminali che controllano le istituzioni della repubblica (statali e municipali) come fossero le loro “piazze”. Questa gente si impossessa dei territori nazionali e li trasforma in piazze criminali dominate da questo o quel cartello, organizzazione o cellula criminale.
Delle 35 persone assassinate tra il 1993 e il 2015 a causa del loro esercizio dell’attività giornalistica (come appurato dal Comitato per la protezione dei giornalisti, Cpj), tre sono state uccise a Città del Messico. Le altre 32 sono cadute in altri stati federali sotto i colpi dei narcotrafficanti, dei criminali, della polizia e dei governi locali corrotti. Sui casi di altri 42 giornalisti assassinati, il cui movente non è stato confermato, nessuno è avvenuto nella capitale.
Dei 21 casi di giornalisti scomparsi di cui parla Artículo 19 (22 se contiamo il rapimento di Anabel Flores Salazar) cinque sono avvenuti nello stato di Veracruz, quattro nel Michoacán, sei nel Tamaulipas, due nel Nuevo León, due nel Guerrero e uno a testa nei seguenti stati: Coahuila, San Luis Potosí, Sinaloa, Sonora e Tabasco.
Il presidenteEnrique Peña Nieto non ha evidentemente intenzione di combattere per difendere la libertà d’espressione
I giornalisti che lavorano negli stati più sperduti della repubblica corrono più rischi perché sono lontani dal cuore della giustizia, dalla concentrazione dei poteri, dalla sede del governo centrale. Laggiù nessuno vede o sente niente, nessuno indaga sulla loro morte. In questo clima d’impunità che si sparge dal centro del paese, i giornalisti sono esposti a governi corrotti, a violenti trafficanti e criminali che possono contare sulla protezione di poliziotti corrotti e sull’interferenza di pubblici ministeri e giudici per assassinare o rapire giornalisti senza temere alcuna punizione.
I giornalisti che, nonostante le minacce e le pressioni, rispettano l’impegno preso nei confronti della società di esercitare il diritto alla libertà d’espressione, vengono assassinati e rapiti. E questo, in un paese che vorrebbe essere democratico, è intollerabile.
Il presidenteEnrique Peña Nieto, che non si pronuncia con fermezza né offre una soluzione per farla finita con l’impunità, non ha evidentemente intenzione di combattere per difendere la libertà d’espressione. Lo dimostra il fatto che non ha chiesto al procuratore generale Arely Gómez di garantire alla procura speciale per i delitti contro la libertà d’espressione i mezzi e il personale necessari per indagare in ambito federale sulle aggressioni nei confronti dei giornalisti.
Soltanto estrapolando questi casi dall’ambito locale sarebbe possibile fare giustizia, ma la procura deve avere le risorse ministeriali necessarie e non essere, come adesso, un’istituzione decorativa che si dedica all’accumulo di numeri per produrre statistiche (oltre a cancellare senza criterio scientifico i casi di attacco contro la libertà di stampa e archiviarli come episodi estranei all’esercizio del giornalismo).
L’impunità a cui Peña dovrebbe porre fine, nel caso dei crimini contro i giornalisti, arriva al 98 per cento.
I proprietari dei mezzi di comunicazione, i giornalisti e la società in generale dovrebbero pretendere da Enrique Peña Nieto la fine degli omicidi dei giornalisti, che sono la forma più vile di censura nei confronti del diritto di noi messicani a sapere cosa succede in questo paese.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato sul sito di notizie messicano Sinembargo.