L’inchiesta che ha fatto dimettere la ministra Federica Guidi
“Se è un reato sbloccare opere pubbliche, sono quello che lo sta commettendo”, ha dichiarato il 4 aprile il presidente del consiglio Matteo Renzi, durante la direzione del Partito democratico (Pd): si riferiva all’indagine della procura di Potenza che coinvolge dirigenti di compagnie petrolifere, amministratori locali e imprenditori, ed è costata le dimissioni all’ex ministra dello sviluppo economico Federica Guidi.
Lo “scandalo dei petroli” rimanda a questioni di appalti e altri illeciti. Ma rimanda anche alle procedure, o “corsie preferenziali” accordate a progetti petroliferi, e a un certo emendamento inserito nella legge di stabilità del 2014, poi saltato e infine riproposto (è quello di cui parla la ministra Guidi al suo compagno, l’imprenditore Gianluca Gemelli, nella conversazione telefonica agli atti delle indagini).
L’indagine giudiziaria ha due filoni principali. Vediamo di che si tratta.
I due filoni dell’inchiesta
Il primo filone su cui indaga la procura di Potenza riguarda l’impianto Eni di Viggiano, dove viene trattato il petrolio estratto nella Val d’Agri. Riguarda possibili illeciti nello smaltimento di rifiuti pericolosi (sono così definiti i materiali tossici che richiedono precauzioni speciali, e ovviamente costose, nella gestione e nello smaltimento). L’accusa è di aver spacciato rifiuti pericolosi per rifiuti normalissimi, in modo da averne un vantaggio economico: questo portava anche a truccare i dati sulle emissioni inquinanti, in modo da non allarmare gli ufficiali sanitari. Gli indagati sono 37, mentre cinque funzionari del Centro oli dell’Eni di Viggiano sono agli arresti domiciliari con l’accusa di “attività organizzate per il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti”.
Il secondo filone di indagine riguarda Tempa Rossa, sito di pozzi petroliferi in concessione a Total Italia nell’alta valle del Sauro, sempre in Basilicata, ma con diramazioni che arrivano fino a Taranto, dove il greggio verrebbe trasferito e stoccato: ed è proprio qui che ci porta l’indagine.
Il sito di Tempa Rossa si trova in gran parte nel comune di Corleto Perticara e in altri due comuni vicini, in provincia di Potenza; qui ci sono sei pozzi già perforati e in esercizio (per altri due mancano ancora le autorizzazioni). Total progetta di estrarne 420 milioni di barili all’anno, cioè 2,7 milioni di tonnellate. Conta inoltre di trasferire il greggio sfruttando un oleodotto dell’Eni già esistente, il Viggiano-Taranto.
L’intero progetto quindi coinvolge due regioni: in Basilicata comporta la costruzione di un tratto di conduttura per allacciare Tempa Rossa a Viggiano, mentre in Puglia comporta la costruzione di due grandi serbatoi di stoccaggio da 180mila metri cubi ciascuno nell’area industriale tarantina, e l’ampliamento del molo petrolifero esistente, in modo che il greggio di Tempa Rossa possa essere imbarcato su petroliere per essere raffinato altrove.
Le indagini riguardano l’iter di autorizzazioni. È qui che diventa importante quel certo emendamento di legge che stava tanto a cuore a Gianluca Gemelli.
In Puglia infatti il progetto Tempa Rossa ha incontrato opposizioni molto decise. Un comitato di cittadini ha sollevato obiezioni su quei serbatoi di greggio nell’area industriale di Taranto, dove l’Eni ha già un parco serbatoi e una raffineria, quindi già sottoposta a gravi rischi ambientali. Solleva timori anche il futuro traffico di petroliere. Sotto la pressione dei comitati di cittadini, nel novembre 2014 il comune di Taranto ha approvato una delibera che blocca le infrastrutture di stoccaggio e l’ampliamento del molo petrolifero.
Poi però nel dicembre dello stesso anno il governo Renzi ha inserito una proposta di modifica nella sua legge di stabilità: l’emendamento diceva, in sostanza, che le opere relative a movimentazione e stoccaggio di idrocarburi provenienti da giacimenti nazionali rientrano nella definizione di “opere strategiche”.
Secondo le norme già nella legge di stabilità 2014, questo permette al governo di intervenire, in caso di progetti di portata interregionale, e assumersi la decisione finale senza aspettare un accordo tra le regioni coinvolte. “Sembrava un emendamento fatto apposta per scavalcare la delibera del comune di Taranto e sbloccare il progetto Tempa Rossa”, commenta Daniela Spera, fondatrice del Comitato Legamjonici: lei del resto lo aveva denunciato già allora, come altri comitati locali.
Tra i 23 indagati ci sono dunque imprenditori, intermediari, e alcuni amministratori locali
Il resto della storia è noto. L’emendamento era saltato dall’ultima versione della legge di stabilità, nel novembre 2015; la (ex) ministra Guidi si stava adoperando per reinserirlo. Su questo si inserisce l’operato di Gemelli. Secondo i magistrati, “sfruttando la relazione di convivenza che aveva col ministro allo sviluppo economico [Gemelli] indebitamente si faceva promettere e otteneva da Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total” di entrare nella lista delle aziende di ingegneria (la bidder list) prese in esame dalla multinazionale francese, in modo da partecipare alle gare per la progettazione ed esecuzione dei lavori del progetto Tempa Rossa.
Insomma, offriva un emendamento in cambio di un appalto. Tra i 23 indagati in questo filone di indagine ci sono dunque imprenditori, intermediari, e alcuni amministratori locali, mentre è già agli arresti l’ex sindaca di Corleto Perticara, Rosaria Vicino.
L’indagine della procura di Potenza non è ancora stata formalizzata. Un’altra indagine che coinvolge Tempa Rossa è arrivata invece a conclusione. Il 4 aprile il tribunale di Potenza ha condannato in primo grado gli ex dirigenti di Total Italia e alcuni amministratori locali per reati che vanno dalla turbativa d’asta alla corruzione e abuso d’ufficio. Qui si trattava di assegnazione degli appalti e di “pressioni” verso i proprietari dei terreni da espropriare. Decisamente, il petrolio italiano si sta rivelando molto sporco.