Il centro per migranti di Conetta doveva essere già chiuso
Sandrine Bakayoko era una ragazza della Costa d’Avorio, aveva 25 anni. Era arrivata in Italia nel settembre del 2016 ed era in attesa dell’esito della sua richiesta d’asilo. È morta per una trombosi polmonare il 2 gennaio mentre si trovava nei bagni del centro di prima accoglienza di Conetta, un’ex base militare in provincia di Venezia, dove Bakayoko risiedeva insieme ad altre 1.300 persone.
A dare l’allarme il suo compagno, che l’ha trovata in fin di vita dopo che era stata colpita dal malore. La morte della ragazza ha scatenato una protesta dei richiedenti asilo ospitati nel centro di accoglienza, che accusano i gestori di aver chiamato i soccorsi in ritardo. Secondo i testimoni, infatti, la ragazza si è sentita male intorno alle 7, ma i soccorsi sono arrivati solo diverse ore dopo.
In una nota, però, l’ospedale di Piove di Sacco ha detto che i mezzi di soccorso sono partiti subito dopo aver ricevuto la chiamata. Gli operatori del centro, spaventati dalle proteste, si sono barricati in un container e negli uffici amministrativi della struttura. La protesta è durata diverse ore, 25 operatori sono rimasti chiusi nel centro fino alle 2 di notte del 3 gennaio, quando la crisi si è risolta con la mediazione delle forze dell’ordine.
La morte di Sandrine Bakayoko e le proteste dei richiedenti asilo hanno sollevato molte polemiche. C’è chi ha usato questo drammatico episodio per chiedere l’espulsione dei migranti e politiche migratorie ancora più restrittive.
Molti invece hanno puntato il dito contro il sistema di accoglienza italiano ancora dominato dalla logica dell’emergenza, nonostante il flusso di arrivi di migranti sulle nostre coste sia costante da anni. Il trasferimento dei richiedenti asilo nei centri di prima accoglienza è gestito dalle prefetture e dai vertici del ministero dell’interno, sulla base della disponibilità dei posti nelle diverse regioni italiane.
In questo meccanismo che tiene conto solo dei numeri, i prefetti finiscono per preferire alberghi, caserme e tendopoli, invece di strutture medio piccole, che consentirebbero una gestione più accurata e maggiori controlli. Questo sistema, regolato con appalti da decine di milioni di euro all’anno, finisce per favorire grandi cooperative e aziende di assistenza che si accaparrano molti appalti, spesso a scapito della qualità dei servizi.
Denunce inascoltate
In una pagina Facebook, un ospite del centro di prima accoglienza di Conetta denunciava da tempo le condizioni di vita disumane del campo allestito in una ex base missilistica dismessa, circondato da filo spinato e da vecchie strutture militari, in cui i dormitori erano stati costruiti all’interno di tensostrutture temporanee in cui venivano ammassate le brande per dormire. A Conetta c’erano già state delle proteste in passato da parte dei migranti che si lamentavano della mancanza di docce, dei servizi igienici e della scarsità dei pasti. Una delegazione della campagna LasciateCIEentrare aveva visitato il centro nel giugno del 2016 e lo aveva descritto così:
Il centro si trova a Conetta, un piccolo borgo in cui non ci sono servizi né spazi sociali, una tendopoli nel nulla. Alle tende si alternano casolari con letti a castello in stanze stracolme.
Le condizioni preoccupanti del centro erano state oggetto di un’interrogazione del parlamentare di Sel Giovanni Paglia nel novembre del 2016, rivolta all’allora ministro dell’interno Angelino Alfano. Nell’interrogazione Paglia descriveva “condizioni di soggiorno difficilmente compatibili con la parola accoglienza” e avvertiva che “una simile situazione potrebbe degenerare in qualsiasi momento”. Ecco cosa era scritto nell’interrogazione:
Il numero dei richiedenti asilo attualmente ospitati nell’ex base militare è ormai giunto a 1.256 unità;
le condizioni di alloggio, limitate di fatto a tende di diverse dimensioni, sono caratterizzate da sovraffollamento e condizioni ambientali estremamente disagiate. Le sette tende circondano l’intera base. Si va dalla tensostruttura più grande di 1.500 metri quadrati a quella più piccola da 340. Nella prima ci vivono in 400, la situazione più problematica è in una di quelle da 500 che accoglie 340 persone; si registra l’inadeguatezza dei servizi di mensa, che, ad un costo di euro 13 per persona al giorno, non prevedono nemmeno la possibilità di consumare i pasti seduti, data l’assenza di spazi dedicati al consumo.
Le denunce, tuttavia, sono state ignorate e il centro di Conetta ha continuato a funzionare a pieno regime. Quando è morta Sandrine Bakayoko il centro ospitava circa 1.300 persone, quasi 800 in più delle 530 che avrebbe potuto accogliere. Una delle ragioni del sovraffollamento di centri come questo è che i comuni del Veneto non danno disponibilità all’apertura di centri di accoglienza per richiedenti asilo: meno del 50 per cento dei comuni della provincia di Venezia ha aderito al sistema di accoglienza Sprar, quindi i migranti vengono spesso mandati dai prefetti in edifici militari riconvertiti in centri di accoglienza straordinari, lontani dalle città.
Queste strutture, però, spesso non sono adatte alla vita di centinaia di persone per lunghi periodi di tempo, e sono gestite da grandi cooperative che le amministrano in maniera poco trasparente, perché nel regime straordinario hanno meno obblighi di rendicontazione.
In questo caso la cooperativa che gestiva il centro di Conetta, la Ecofficina Edeco di Padova, è una realtà importante dell’assistenza ai profughi nel veneziano, è entrata nel settore nel 2011 e da allora gestisce tre strutture di accoglienza: Bagnoli a Padova, Cona a Venezia, Oderzo a Treviso, per un totale di quasi duemila ospiti. La cooperativa, però, è al centro di tre indagini delle procure di Rovigo e di Padova. Le accuse sono truffa, falso e maltrattamenti.
La procura di Padova sta indagando su un buco in bilancio da 30 milioni di euro nelle casse di Ecofficina per un presunto scambio di denaro tra la cooperativa e la società Padova Tre, che si occupa della raccolta dei rifiuti. Le altre due indagini riguardano: una denuncia per maltrattamenti e soprusi e la falsificazione di alcuni documenti per aggiudicarsi una gara di appalto.
Come ha mostrato l’inchiesta Mafia capitale, il sistema di accoglienza italiano gestito dalle prefetture rischia di alimentare fenomeni di malaccoglienza sulla pelle dei profughi, in quanto non esistono sistemi efficaci di monitoraggio dei centri. Come è stato sottolineato da molti specialisti, come Gianfranco Schiavone dell’Asgi, l’unica possibile alternativa è la distribuzione dei profughi sul territorio nazionale con il coinvolgimento dei comuni nell’assistenza e l’applicazione degli standard e dei controlli previsti dal Sistema nazionale per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Al momento solo il 14 per cento dei profughi accolti in Italia è ospitato da un centro Sprar. Se tutti gli ottomila comuni italiani fossero coinvolti nell’assistenza dei profughi, basterebbe che ogni centro ospitasse venti persone dando vita a un sistema più sostenibile, più trasparente e in ultima analisi più umano.