Cosa cambia nel nuovo divieto d’ingresso voluto da Trump
Circa un mese dopo aver promesso alla corte d’appello del nono circuito, in un tweet, che si sarebbero rivisti in tribunale (“See you in court”), Donald Trump ha dovuto fare un passo indietro rispetto al suo confuso ordine esecutivo del 27 gennaio. Il 6 marzo il presidente ha espresso una rinnovata volontà di “proteggere il paese dall’ingresso di terroristi stranieri”. Il nuovo ordine mantiene il nucleo centrale di quello originario – limitare l’ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di vari paesi a maggioranza musulmana e sospendere il programma di accoglienza dei profughi – ma è stato modificato in quattro punti.
Primo: l’ordine non impone più ai residenti permanenti legali negli Stati Uniti, i detentori cioè di green card, alcuna limitazione agli spostamenti (l’ordine originale negava ai residenti permanenti che visitavano uno dei paesi vietati la possibilità di tornare negli Stati Uniti).
Secondo: laddove il primo divieto era stato approvato dal presidente con validità immediata, provocando caos e sgomento per le persone in volo verso gli Stati Uniti nel momento in cui Trump aveva firmato l’ordine, adesso la revisione non avrà validità fino al 16 marzo.
Terzo: la nuova versione dell’ordine esecutivo sarà valida solo per le future domande di visto, non per le persone che già ne possiedono uno regolare, o che riusciranno a ottenerlo nei prossimi nove giorni.
Quarto: la lista dei sette paesi vietati è scesa a sei, ovvero Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. L’Iraq è stato escluso dalla lista in risposta alle insistenze del dipartimento di stato e del Pentagono, secondo i quali molti cittadini iracheni sono attivamente impegnati nella lotta al gruppo Stato islamico (Is). “Quelle forze governative irachene che hanno lottato per recuperare più di metà del territorio un tempo controllato dall’Is”, recita l’ordine, “hanno mostrato una forte determinazione, guadagnandosi un rispetto duraturo per aver combattuto un gruppo armato che è il nemico comune dell’Iraq e degli Stati Uniti”. Questa alleanza, insieme al rafforzamento degli esami delle credenziali da parte dell’Iraq nelle ultime settimane, “giustifica un diverso trattamento per l’Iraq”.
Un nuovo ostacolo costituzionale
Uno dei problemi legali del primo divieto esecutivo sembra quindi svanire con questa nuova versione: la presunta violazione della clausola di diritto a un regolare processo prevista dal quinto emendamento. Questa possibile violazione costituzionale era alla base del rifiuto, da parte del nono circuito, di annullare la sua ingiunzione di non applicare l’ordine. Secondo il tribunale, tenendo fuori del paese i residenti permanenti legali solo perché si trovavano a viaggiare in un paese preso di mira, l’amministrazione Trump potrebbe aver negato a un gruppo di persone le dovute notifiche e udienze. Inserendo un preavviso di dieci giorni ed eliminando le limitazioni per i possessori di green card, la squadra legale di Trump ha probabilmente messo al riparo il nuovo ordine esecutivo da ogni contestazione di violazione della clausola di regolare processo.
Tuttavia un altro ostacolo costituzionale potrebbe minacciare il nuovo ordine di Trump: le accuse di discriminazione religiosa. Il primo emendamento proibisce al governo di favorire una religione su un’altra, e la clausola di uguale protezione del quattordicesimo emendamento impedisce ogni discriminazione per motivi religiosi. Nella sua decisione di febbraio, il nono circuito ha notato che “molte affermazioni del presidente sulle sue intenzioni di approvare un ‘muslim ban’” e le prove che il primo ordine esecutivo “corrispondeva effettivamente a tale divieto” erano un motivo sufficiente per respingere in tribunale il travel ban”, ha dichiarato il nono circuito.
Manca una spiegazione che chiarisca perché queste limitazioni servono la causa della sicurezza nazionale
Comprendendo che questo imbarazzante precedente sarebbe stato un ostacolo, il team legale di Trump ha eliminato una riga fondamentale dall’ordine del 27 gennaio: una frase che permette le richieste d’asilo per i rifugiati da parte delle minoranze (vale a dire i cristiani) che sono stati vittime di “persecuzione su base religiosa”. Il nuovo ordine esecutivo sottolinea come questa significativa eliminazione non debba essere male interpretata.
La frase originale “non conteneva elementi che permettevano la discriminazione dei membri di una particolare religione”, recita l’ordine, “e non era motivata da preconcetto verso alcuna religione”. Sembra un eccesso di giustificazioni. L’eco della promessa, fatta da Trump in campagna elettorale, di vietare l’ingresso nel paese ai musulmani (una promessa che è ancora sul suo sito) continuerà a guastare i suoi progetti più elaborati e genererà sicuramente nuove cause legali.
La logica dubbia dietro ai divieti
Quando i tribunali chiederanno se il secondo tentativo di travel ban rappresenti una discriminazione religiosa incostituzionale, i discorsi, i comunicati stampa, le trascrizioni e i tweet di Trump saranno tutti citati come prova delle reali intenzioni del suo ordine. Il travel ban originale aveva un problema intrinseco che il nuovo ordine non corregge del tutto: la mancanza di una lucida spiegazione sul perché queste limitazioni servono la causa della sicurezza nazionale.
Il nuovo ordine include alcune frasi per ogni paese preso di mira (estratte da un rapporto del dipartimento di stato datato giugno 2016) che mirano a “dimostrare perché i loro cittadini continuano a rappresentare un elevato rischio per la sicurezza degli Stati Uniti”.
Ma la revisione ha il sapore del componimento di uno studente la cui prima versione non aveva alcun materiale a supporto della sua tesi, e che è stato poi rattoppato grazie alla consultazione di un paio di siti. La logica dietro ai divieti generalizzati rivolti ai cittadini di particolari paesi rimane dubbia. Anche se l’Iraq è oggi escluso dalla lista nera, l’ordine spiega che gli iracheni “dovrebbero essere soggetti a esami supplementari” per assicurarsi che non abbiano legami con l’“Is o altre organizzazioni terroristiche”.
I tribunali potrebbero domandarsi perché un simile metro di giudizio non debba essere esteso anche ai cittadini di Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.