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Jeff Bezos, il National Enquirer e un vero dramma americano

Jeff Bezos a Seattle, Stati Uniti, 18 giugno 2014. (Mike Kane, Bloomberg via Getty Images)

Nemmeno il più bieco giornale scandalistico poteva inventarsi una storia come questa. L’uomo più ricco del mondo, il boss di Amazon Jeff Bezos, ha accusato David Pecker, editore del National Enquirer e di altri tabloid, di aver cercato di ricattarlo sfruttando alcune fotografie intime sue e della sua amante. Pecker è un amico fidato del presidente Donald Trump.

Tutto è cominciato il 9 gennaio quando l’Enquirer ha fatto sapere di voler rivelare una relazione extraconiugale di Bezos, con tanto di messaggi a luci rosse. La storia è arrivata in edicola pochi giorni dopo.

A quel punto Bezos ha ingaggiato alcuni investigatori privati per individuare la fonte delle soffiate sulla sua vita privata. Il 7 febbraio il miliardario è passato al contrattacco con un lungo intervento sul sito Medium in cui ha accusato il National Enquirer di averlo ricattato minacciando di rendere pubbliche alcune fotografie a meno che non avesse chiuso la sua disputa con il tabloid.

Bezos ha citato i presunti legami imprenditoriali tra Pecker e l’Arabia Saudita, il cui regime è accusato di aver ucciso Jamal Khashoggi, opinionista del Washington Post, di proprietà dello stesso Bezos. Nel suo intervento Bezos ha descritto una fitta tela di intrighi che coinvolgono la Casa Bianca, la famiglia reale saudita, i procuratori federali, la Amazon, uno dei più rispettati quotidiani del paese (forse il più rispettato) e l’Enquirer. Al centro di tutto, c’è lo stesso Bezos.

Ci vorrà tempo prima che gli investigatori riescano a ricostruire con precisione i fatti, i protagonisti e gli eventuali reati commessi. Il 10 febbraio il Daily Beast ha rivelato che l’indagine si è concentrata sulla possibilità che Michael Sanchez – fratello di Lauren Sanchez, amante di Bezos – possa aver consegnato i messaggi della coppia all’Enquirer, convinto che il tabloid avrebbe pubblicato la notizia “con l’approvazione del presidente Trump” (secondo diverse testate, Sanchez ha negato di essere il responsabile della soffiata).

Dopo la rivelazione del rapporto adulterino da parte dell’Enquirer, Trump ha preso in giro su Twitter “Jeff Bozo” manifestando ironicamente la propria solidarietà.

Un caso spinoso
I procuratori federali del distretto meridionale di New York starebbero verificando se l’American media inc (Ami), la casa editrice che controlla l’Enquirer, abbia violato i termini di un accordo di immunità e cooperazione entrato in vigore a settembre e riguardante l’indagine nei confronti di Michael Cohen, l’ex avvocato di Trump, e i fondi da lui incassati a nome del futuro presidente durante la campagna elettorale.

L’Ami ha ammesso di aver cercato di favorire Trump in vista delle elezioni versando 150mila dollari a una presunta amante del candidato repubblicano per tacere sul loro rapporto, una pratica conosciuta come “catch and kill” (cattura e ammazza). Nell’ambito dell’accordo per l’immunità, l’Ami ha promesso di non compiere alcuna attività illegale per almeno tre anni.

Il 10 febbraio un avvocato dell’Ami ha detto all’emittente Abc News che la casa editrice non ha commesso alcun reato e che l’Enquirer ha semplicemente parlato della relazione extraconiugale di Bezos, intavolando successivamente con il capo di Amazon una trattativa in cui entrambe le parti volevano ottenere qualcosa (secondo le email pubblicate da Bezos, l’Ami voleva che l’imprenditore dicesse che l’attività dell’editore non aveva motivazioni politiche).

La vicenda evidenzia alcuni elementi sintomatici della natura del potere nel mondo moderno

Secondo un avvocato esperto di denunce nei confronti dei tabloid, il caso è piuttosto spinoso dal punto di vista legale, anche perché particolarmente inusuale: “Di solito qualcuno dice: ‘Pagami oppure pubblicherò le foto’. Qui la situazione è diversa”.

Inoltre non bisogna dimenticare che le leggi e la loro interpretazione possono variare da uno stato all’altro. In base alla legge federale, una minaccia può considerarsi estorsione quando l’obiettivo è quello di ottenere qualcosa “di valore”.

Oltre alle implicazioni legali, la vicenda evidenzia alcuni elementi sintomatici della natura del potere nel mondo moderno. Il primo è la fragilità del potere in un momento in cui la privacy è sempre più a rischio. Negli anni d’oro della stampa scandalistica un investigatore privato poteva mettere le mani sulla foto di una celebrità scattata fuori da un bungalow, ma non sarebbe mai potuto entrare in possesso della foto di un pene spedita privatamente. Bezos è riuscito a contrastare Pecker, il suo presunto antagonista, ma altri uomini di potere potrebbero sentirsi più vulnerabili. Quante persone sono state ricattate con successo senza che l’opinione pubblica l’abbia mai saputo?

Il secondo elemento presenta le problematiche contenute nel primo, se possibile approfondite: il potere è sempre più concentrato nelle mani di pochi titani globalizzati. Bezos è un esempio lampante, perché controlla una piattaforma tecnologica diventata un elemento fondamentale in ogni settore e che attraverso la Amazon web services fornisce l’infrastruttura cloud a moltissime aziende in tutto il mondo. Persino l’Ami sembra essere un cliente dell’Amazon cloud.

Concentrazioni di poteri
Gli oppositori di Trump sospettano che il presidente sia stato influenzato dalla Russia o dall’Arabia Saudita, dove la sua famiglia ha interessi commerciali, o che sia stato addirittura vittima di un kompromat (ricatto attraverso materiale compromettente) ordito da Vladimir Putin. Ma è altrettanto preoccupante notare che, al giorno d’oggi, la concentrazione di potere tecnologico e di mercato minaccia di trasformare persone come Bezos o Mark Zuckerberg in “singoli punti di fragilità” (in gergo informatico, singole parti il cui malfunzionamento può comportare il collasso di un intero sistema). Un tentativo riuscito di ricatto nei confronti di Bezos, magari in un decennio in cui i dispositivi Alexa dell’Amazon saranno più diffusi, potrebbe concedere al ricattatore una potentissima piattaforma mediatica.

Il paradosso è che la piattaforma mediatica che teoricamente avrebbe dovuto avere il coltello dalla parte del manico in questa vicenda, ovvero l’Enquirer, sembra sul punto di sgretolarsi. Secondo i dati di Alliance for audited media la tiratura dell’edizione cartacea è precipitata da 2,6 milioni di copie nel 1996 a 218mila copie alla fine del 2018. L’azienda madre, l’Ami, ha perso 138 milioni di dollari dal 2013 al 2015, e nell’anno fiscale terminato il 31 marzo 2016 ha dichiarato un profitto di 17 milioni con un debito di 394 milioni secondo i dati ufficiali. A gennaio l’azienda è riuscita a rifinanziare il suo debito raccogliendo 460 milioni, apparentemente dopo grandi difficoltà.

Un dirigente britannico del settore dei mezzi di comunicazione, che ha accettato di parlare a condizione di restare anonimo, si domanda se per caso i finanziamenti non siano arrivati dall’Arabia Saudita, che sotto il controllo del principe ereditario Mohammed bin Salman ha mostrato un forte interesse nei mezzi d’informazione occidentali.

Nel 2018 Pecker si sarebbe rivolto a un gruppo di investitori sauditi per tentare di acquisire il settimanale Time. L’anno scorso l’Ami ha pubblicato una patinata rivista di propaganda per tessere le lodi dell’Arabia Saudita e della leadership del principe ereditario. L’11 febbraio un portavoce dell’Ami ha dichiarato all’Economist che “non esistono investimenti nell’Ami provenienti dall’Arabia Saudita”. Tuttavia, al momento di annunciare l’ultimo rifinanziamento, l’Ami non ha precisato l’identità dei suoi creditori più recenti. Un altro mistero in un vero dramma americano del ventunesimo secolo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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