Un concerto senza pubblico. Una bambina appena nata. Un operaio durante il turno di notte. Una lezione di yoga online. Una malata di covid-19 in quarantena. Un’astrofisica. Un migrante. Dal Friuli-Venezia Giulia alla Sicilia, l’8 maggio quaranta giornalisti, scrittrici e fotografi hanno incontrato decine di persone per raccontare paure, difficoltà e speranze nella prima settimana della fase due, dopo mesi di blocco.
Notte
Roma, 00.05 È da poco passata la mezzanotte quando sul computer di Silvia Piranomonte, ricercatrice astronoma dell’Istituto nazionale di astrofisica, compare una delle più luminose galassie del cielo: la M51. È a 37 milioni di anni luce dalla Terra. Piranomonte la guarda e sorride. Le galassie a spirale come questa ospitano molti “eventi catastrofici, o esplosivi, così li chiamiamo tra astronomi”. Anche lei, come tanti suoi colleghi, lavora da casa perché in tutta Europa gli osservatori sono chiusi. “Mai come in queste settimane il pianeta è silenzioso, perché il rumore antropico è quasi sparito, gli aerei non volano, l’industria è semiparalizzata. Il segnale delle onde gravitazionali arriva molto più pulito. Se i tecnici potessero lavorare, sarebbe una condizione ideale per far funzionare gli interferometri”, gli strumenti con cui si rilevano queste onde.
Oggi Piranomonte fa il turno di notte e osserva lo spazio collegandosi a un telescopio satellitare della Nasa. A 46 anni non avrebbe mai immaginato di vivere tempi come questi. “Gli astronomi sono abituati all’isolamento”, scherza. “L’anno scorso ho passato un mese nel deserto di Atacama, all’osservatorio di La Silla, ma non è la stessa cosa”. Quello che le manca, dice, “è la dimensione dell’incontro, i momenti in cui ci si confronta, ci si incoraggia, la scienza non si fa più da soli, si fa in gruppo”. Ma ammette che ora è giusto “dare la priorità agli istituti di ricerca medica”. Nell’appartamento, che è diventato ormai il suo studio, si notano le tracce del compleanno del figlio, i giochi sparsi in giro, le patatine avanzate dalla festa.
Milano, 2.30 Mirko Fabozzi, 48 anni, si concede la prima pausa di un lungo turno nel magazzino Amazon di Milano Rogoredo. Va verso la sala dove ci sono i distributori automatici di caffè e snack. “In tempi normali questo sarebbe il momento per una chiacchiera con i compagni. Ma ora le pause sono organizzate in modo da non creare assembramenti e spesso non si parla con nessuno”.
Il supervisore questa notte gli ha assegnato il compito di far rispettare la distanza di almeno due metri tra gli operai. È quello che torna a fare dopo la pausa. Osserva gli smistatori che controllano i pacchi sul nastro trasportatore. Ci passa sopra di tutto: “In media, in una notte, si vedono sfilare 28mila colli con dentro biciclette, computer, tv, bottiglie d’acqua”. All’inizio del lockdown si è arrivati anche a quarantamila in una notte. “Il ritmo era pazzesco, il lavoro disordinato, rispettare le distanze è stato impossibile”, ricorda Fabozzi. “Diversi colleghi si sono ammalati, con sintomi da covid-19, ma a nessuno è stato fatto il tampone”. Ci sono stati scioperi e le proteste hanno funzionato. “Ora è tutto più sicuro, militarizzato, anche se questo significa che non ci sono quasi più relazioni umane”, racconta mentre percorre l’enorme magazzino, macinando chilometri per controllare che le distanze tra i colleghi siano rispettate.
Roma, 4.30 Il respiro della città è ancora pesante e lento. La luna piena e qualche venatura di blu attenuano il nero del cielo e il buio delle strade. Lungo quelle di Borghesiana, quartiere nella periferia sudest della capitale, le case dove si scorge una luce accesa sono rarissime, e tra queste c’è l’appartamento di Daniela Bartolini. Giacca rossa, borsa e guinzaglio in mano, la donna esce accompagnata dal cane e dal marito, Luciano Daga. Bartolini ha 66 anni e da diciotto lavora per l’università Lumsa, in centro, dove fa le pulizie. Quasi trenta chilometri, tre corse in autobus e una in metropolitana separano il suo appartamento dall’ateneo. Per raggiungerlo ci mette un’ora e mezza.
La pandemia non l’ha fermata: “L’università è chiusa, le lezioni sono online, ma noi siamo sempre andate perché della pulizia c’è bisogno”. Durante il lockdown la sua squadra ha fatto i turni. Da lunedì 4 maggio ha ripreso il ritmo pieno, sei ore al giorno per tre giorni e nove ore per altri due. “Mi ritengo fortunata perché lavoro per l’università e non per una ditta privata di pulizie. Tante persone hanno perso l’impiego o si sono viste ridurre l’orario e la paga”.
Alcune di loro aspettano alla fermata dell’autobus Borghesiana di via Casilina, dove Daga, pensionato di 77 anni, ogni mattina accompagna la moglie. Alle 4.52 sono ormai una quindicina, quasi tutte donne. Molti accenti romani e inflessioni dell’Europa dell’est, pochi uomini, italiani e stranieri. Tutti indossano i guanti e le mascherine, abbassate in qualche caso per la prima sigaretta della giornata. Queste persone che s’incontrano ogni mattina mantenendo le distanze di sicurezza sembrano tanti piccoli satelliti che ruotano intorno alle difficoltà del periodo. “La pandemia ha peggiorato tutto”, dice Bartolini. Gli autobus passano, ma per evitare l’affollamento a bordo spesso non si fermano.
All’arrivo ad Anagnina, alle 5.11, in fila per entrare nella stazione della metro ci sono decine di persone. “Molte vivono tra la paura di essere licenziate e quella di prendersi il virus”, spiega Bartolini. È proprio questa incertezza a pesare: “Non so come faremo a rispettare le misure di sicurezza quando torneranno anche gli altri al lavoro. Spero che non crolli tutto”. Durante il tragitto su due autobus pieni che la portano alla Lumsa parla della figlia e della nipotina di un anno, che non vede da febbraio: “Vivono vicino a Milano con mio genero, sono preoccupata anche per loro, chissà quando li riabbraccerò”.
Sarzana, 5.30 Willy Benedetti ha già raggiunto il primo punto di scarico della sua giornata, un negozio Conad di Sarzana, in Liguria. Sul camion trasporta alimentari freschi e altri prodotti. Li ha caricati alle 3 nel centro di distribuzione Conad di Montopoli, a una cinquantina di chilometri da Livorno, la sua città. Ora si prepara a indossare guanti e mascherina per scaricare una parte della merce insieme ai commessi, prima di proseguire per Porto Venere e scaricare il resto.
Benedetti ha 50 anni e lavora per la Cft, una cooperativa di facchinaggio e trasporto. Da quando è cominciata la pandemia non si è mai fermato. All’inizio per proteggersi dal virus ha dovuto arrangiarsi, poi l’azienda ha fornito ai dipendenti delle mascherine da carpentiere. Ma dalla metà di aprile la regione Toscana distribuisce gratuitamente ai residenti mascherine non chirurgiche prodotte nella regione stessa. Per averle basta andare in farmacia e presentare la tessera sanitaria.
Con la fase due il lavoro di Benedetti non è cambiato. Il momento più delicato è quando fa il carico ai centri di distribuzione come quello di Montopoli, dove arrivano camion e merci da tutta Italia. Nelle aree di sosta intorno a questi giganteschi magazzini gli autisti scendono dai loro mezzi per i controlli della sicurezza. Per sbrigare le pratiche burocratiche parlano con colleghi, facchini e impiegati. “Può succedere di abbassare la guardia quando lavori da ore e la stanchezza si fa sentire”, dice. Ha fatto il test sierologico ed è risultato negativo. È stato un delegato della Uil a dirgli che aveva la possibilità di farlo gratuitamente. “Ma l’iniziativa dovrebbero prenderla le aziende”, osserva.
Oggi Benedetti dovrà tornare di nuovo a Montopoli, dove lo aspetta un carico destinato a Livorno. Al pensiero della sua città cambia tono di voce. “Quando passo con il camion sul lungomare di Livorno e non c’è nessuno, nelle giornate limpide, si vede la Gorgona, si vedono le isole, è favoloso”.
Alba
Milano, 6.30 Piazzale Lavater è uno di quegli slarghi alberati tipici di Milano, un grande spazio disseminato di bagolari che, con le loro fronde, formano un’imponente volta verde. A quest’ora c’è già movimento e i mezzi dell’Amsa, la nettezza urbana milanese, stanno finendo il loro giro.
Rosy e Alessandro sistemano i resi e si preparano per le consegne a domicilio. Rosy Varrella, 55 anni, e il marito Alessandro Sigolo, 56, gestiscono l’edicola di piazzale Lavater da diciotto anni. Varrella ha una mascherina turchese in tinta con i guanti di lattice, e Sigolo una tuta Adidas nera, come la mascherina che abbassa ogni tanto per fumare una sigaretta. Arrivano da Cimiano, nella parte nordorientale della città, ogni mattina alle 5.30, in auto. “Questa è una zona di gente colta”, spiega Varrella. “Possiamo permetterci di vendere solo prodotti editoriali. I nostri clienti vogliono la carta stampata, riviste importanti, libri”. Qui ogni mattina, fino alla sua morte a 107 anni, veniva a comprare il giornale il critico d’arte Gillo Dorfles.
L’edicola è rimasta aperta durante il lockdown ed è diventata un punto di riferimento. “All’inizio la gente era molto spaventata”, racconta Varrella, “E anche noi. Non si trovavano le mascherine e i guanti. Passavamo le giornate a sentire i numeri della protezione civile. Sembrava un incubo. E poi il silenzio. Il silenzio di questa zona è forse la cosa che ci ha feriti di più”. La gente del quartiere veniva a comprare i giornali e a parlare. “Molti anziani sono rimasti isolati”, spiega Sigolo. “Oltre a consegnargli i giornali a volte gli compravamo il pane o gli pagavamo una bolletta”. Le vendite di giornali e riviste sono aumentate. “Soprattutto l’enigmistica, c’è stato un boom”, dice Sigolo. Varrella è ottimista sulla ripresa delle attività. “Ricominciando piano piano possiamo farcela, Milano è una città forte, si è già rialzata tante volte”. Oggi terranno aperta l’edicola con orario pieno, fino alle sette. Non succedeva da due mesi.
Torino, 6.45 In via Giovanni Botero ci sono 32 persone in fila davanti alla porta del banco dei pegni. Il centro storico di Torino è deserto ovunque, ma non qui. Franco Giraldi è uscito prestissimo, sperava di essere il primo a mettersi in coda, invece alle 5.10, quando è arrivato, ha trovato altre quattro persone. La signora che gli sta davanti è seduta su una sedia di plastica pieghevole che si è portata da casa e ogni tanto chiude gli occhi, si è svegliata alle 4.
“Sono venuto a riscattare. Ho messo da parte un po’ di soldi e posso finalmente ritirare le due collanine d’oro che avevo impegnato”, racconta Giraldi, 72 anni e in pensione da sette. Emigrò in Piemonte quand’era ragazzo per lavorare alla Fiat. La pandemia gli ha fatto venire nostalgia della sua regione, il Molise. Appena sarà possibile, lui e la moglie Elvira si trasferiranno a Campomarino. Giraldi frequenta questo banco dei pegni da quattordici anni, ma non aveva mai visto tanta gente. “Fa impressione. E poi adesso che dobbiamo aspettare fuori ci ritroviamo in mezzo alla strada, con le macchine che si fermano a guardare”. Alle 7.10 in fila ci sono 45 persone, la coda raggiunge via Barbaroux. Tutti indossano la mascherina e mantengono la distanza di sicurezza. La maggior parte è qui per rinnovare le polizze scadute. Passano ore in piedi solo per prenotare un appuntamento. C’è anche chi ha bisogno di contanti (il 5 per cento delle persone che nelle ultime settimane sono venute qui, secondo la banca Intesa Sanpaolo) e nella borsa ha i gioielli di famiglia, per farli valutare. Ci sono persone di tutte le età.
Alle 7.30, quando manca un’ora all’apertura, arrivano ancora persone, sono 61, le distanze diminuiscono. Giraldi si sposta dall’altro lato della strada, è immunodepresso e ha paura degli assembramenti. Oggi ha preso l’auto per la prima volta dall’inizio della pandemia. Una ragazza si ferma davanti all’ingresso per leggere i cartelli, non era mai venuta qui. “Deve mettersi in coda”, le dice Giraldi, “è inutile chiamare il numero, non risponde mai nessuno”. Quando esce il direttore della filiale tutti gli si ammassano davanti, alzano le mani, vogliono parlare con qualcuno. Giraldi si allontana di più, spera di non perdere il posto mentre intorno a lui la gente urla e il rischio di contagio sembra meno pericoloso del rischio di non riuscire a prenotare un appuntamento. Arrivano i carabinieri, come ogni mattina. Torna la calma, ma la fila ormai si è sfaldata. Giraldi stringe i suoi soldi in mano, al banco dei pegni non ci vuole più tornare.
Mattina
Napoli, 7.45 Francesco Franzese comincia a lavorare di buon mattino. Mentre si dirige in macchina verso la sede dell’azienda a San Sebastiano al Vesuvio, nell’hinterland napoletano, chiama il responsabile degli ordini per sapere se è tutto a posto, se ci sono ritardi nei pagamenti, nuovi clienti. Poi contatta subito la fabbrica a Buccino, in provincia di Salerno, per verificare lo stato del magazzino e delle consegne.
A poco più di quarant’anni, Franzese è l’amministratore delegato della Fiammante, un’azienda produttrice di derivati del pomodoro di livello internazionale. Monitora costantemente tutta la filiera, dai campi alla grande distribuzione. Tra qualche ora, verso le 11.30, si dedicherà a una delle sue attività preferite: telefonare ai produttori agricoli per sapere come va la coltivazione in campo. “È l’ora giusta per chiamare in campagna, perché è il momento in cui fanno una pausa e ti stanno a sentire”.
Quest’anno il covid-19 ha scombussolato i piani: quando è scattata l’emergenza i supermercati hanno finito le scorte, l’azienda ha dovuto aumentare la produzione di lattine di pomodoro di piccolo formato, per le famiglie, e ridurre quella di latte da 3,5 chili, destinate ai ristoranti, che ora giacciono nei magazzini.
Franzese ha un suo osservatorio personale: ha coltivato delle piantine di pomodoro sul terrazzo di casa e sul balcone dell’ufficio. “Stanno facendo fiori bellissimi”, dice esaminandole. “Se tutto va bene, sarà una buona annata”. Un amico pizzaiolo lo chiama per confermargli che il lavoro sta ripartendo: “Solo asporto, ma è già qualcosa”.
Bergamo, 8.00 Metti e leva i guanti, metti e leva la mascherina. Nei primi giorni di emergenza, alla fine di febbraio, il rituale della vestizione era lentissimo. Bardarsi con le protezioni per entrare in reparto prendeva molto tempo nello spogliatoio stretto della torre tre dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, uno degli epicentri della pandemia in Italia. Ora, a più di due mesi dal primo paziente risultato positivo al covid-19, i gesti sono quasi automatici. Anche i pensieri sono meno cupi: il numero di ricoverati nel reparto di malattie infettive si è dimezzato e sono aumentati i guariti, anche se i turni sono ancora lunghi. Fabio Zoboli, 31 anni, è un medico infettivologo di Bergamo. Era precario ed è stato assunto per affrontare l’emergenza. Quando entra in ospedale alle otto di mattina sa che ne uscirà solo alle otto di sera.
Oggi fuori c’è il sole e poca gente in giro, anche se è cominciata la fase due. Zoboli continua a evitare le visite ai familiari per paura di contagiarli, ma sente la loro mancanza. Si ritiene fortunato di aver potuto condividere questa esperienza con la sua compagna. La casa dove vivono è a cinque minuti in auto dall’ospedale. “Nei giorni più duri rientravo dal lavoro e ci mettevamo in giardino a parlare di quello che avevo visto, di come mi sentivo. Eravamo circondati da un silenzio surreale”. Non dimentica il primo paziente, un uomo di ottant’anni. “Facevamo fatica a comunicare con i pazienti, che non ci sentivano per via dei ventilatori”. Non dimentica neppure la storia più drammatica, quella di un padre e di un figlio ammalati entrambi di covid-19 e ricoverati nello stesso reparto. “Mentre il padre stava morendo, abbiamo deciso di trasferire il figlio nella stessa stanza, per permettergli di accompagnarlo verso la morte”, ricorda. “È un privilegio che purtroppo molti familiari non hanno avuto”. Qualche giorno dopo la morte dell’anziano, se n’è andato anche il figlio ed è toccato ai medici chiamare i parenti. Non c’è un modo giusto per fare queste telefonate. “Abbiamo imparato a costruire un rapporto di fiducia quotidiano attraverso il telefono”. Una volta completata la vestizione, Zoboli incontra il primario e i colleghi del turno di notte per prendere le consegne. Ci sono stati dei dimessi, la giornata sembra tranquilla, nel reparto di malattie infettive sono tornati pazienti che hanno altre patologie: tubercolosi, hiv. È una strana normalità.
San Fedele Intelvi, 8.00 Caterina Summa sale in macchina, sintonizza la radio su un notiziario e parte da San Fedele Intelvi, in provincia di Como, per andare a Pregassona, un quartiere di Lugano, in Svizzera. Fa l’educatrice in un asilo nido e da anni attraversa quotidianamente la frontiera. Da quando è cominciata la pandemia ha accantonato gli audiolibri e ascolta solo notiziari radio.
L’aria è mite e per strada non c’è nessuno. Non è stato sempre così. Il 4 maggio, quando l’asilo ha riaperto e lei è rientrata al lavoro dopo due mesi a casa a stipendio ridotto, è rimasta incolonnata per un’ora e mezza nell’ultima galleria prima di entrare in Svizzera. Oggi la strada è libera e Summa arriva prima del solito. Indossa la mascherina e prepara i documenti. Alla dogana la guardia di finanza la lascia passare senza fermarla, mentre gli agenti svizzeri le controllano il permesso di lavoro. Senza, si è respinti. Lei ha tutto in regola e passa. Arriva a scuola in largo anticipo, meglio così. Ha tutto il tempo di misurarsi la febbre, disinfettarsi le mani con il gel e indossare il grembiule sanificato. A scuola sono tornati solo due bambini su trentadue, ma Summa è convinta che presto arriveranno anche gli altri.
Palermo, 9.00 La farmacia in piazza Sant’Oliva, nel cuore di Palermo, è il suo fortino. Da quando è esplosa la pandemia Mario Aglialoro, 45 anni, va al lavoro regolarmente. Poi invece di tornare a casa va a dormire nell’appartamento che gli ha prestato un amico. Al bancone della farmacia si presentano persone con sintomi di tutti i tipi, dice, e ha paura di portare a casa il virus, contagiando la moglie e i due figli. Il più grande ha dieci anni, mentre il piccolo è nato un paio di mesi prima che cominciasse l’emergenza sanitaria. “A Pasqua il grande ha preteso che pranzassimo insieme”, dice sorridendo. Jeans, polo marrone e mascherina ffp2, Aglialoro alle 9 ha già servito i primi clienti.
“La mia paura”, spiega, “è che i contagi aumentino con il passaggio alla fase due. Ho visto foto di Mondello piena di gente”. Le strade di Palermo però sono ancora abbastanza vuote. Il farmacista racconta che durante le lunghe settimane del lockdown ci sono stati momenti spiacevoli. Le persone venivano per il gel igienizzante, per i guanti, per le mascherine. Ora chiedono quelle a cinquanta centesimi, ma spesso non ci sono. “I clienti si arrabbiano con noi come se volessimo nasconderle”, racconta, “ieri uno ha fatto una scenata di un’ora e sono dovuti intervenire i carabinieri”.
Aglialoro è stanco. Ultimamente ha deciso di vedere di più la famiglia. Qualche volta passa anche da casa, ma non vuole ancora dormirci. “Prima di andare disinfetto i vestiti, e se ho bisogno uso un bagno dove gli altri non entrano. Dopo due mesi è impossibile restare lontano da chi ami”.
Milano, 9.25 Alfonsina Passariello, 27 anni, si accende una sigaretta nella cucina del suo appartamento a Milano. Ha appena finito di bere il caffè. La figlia di quattro anni, seduta accanto a lei, inzuppa nel latte i biscotti sfornati la sera prima, mentre sul pavimento gattona il fratello di un anno. A momenti dovrebbe arrivare la telefonata del padre, l’uomo che Passariello ha sposato mentre lui era in carcere a Opera, condannato per spaccio. Dopo la rivolta del 9 marzo l’uomo è stato trasferito a Vigevano.
I minuti passano, il telefono non squilla e Passariello si fa prendere dall’ansia. Ha saputo che in altre carceri italiane le chiamate sono state ridotte. Alle 9.44 decide di non aspettare più e chiamare. Proprio in quel momento il telefono squilla. La donna risponde felice: “Ciao amore”. Hanno dieci minuti per parlare e le cose da dirsi sono tante, a cominciare dai risultati del cosiddetto tampone, il test diagnostico, fatto qualche giorno prima al marito. “È negativo”, dice lui, contento. Poi il tono cambia. “Sono un po’ giù”. È in isolamento, nella cella ha solo una tv e non vede mai nessuno. La chiamata è l’unico momento che lo scuote in una giornata piatta e solitaria. È importante anche per Passariello, che ha perso il posto nell’impresa di pulizie dove lavorava ed è preoccupata per il futuro. “Ho saputo che là fuori si può tornare a vedere i familiari, perché a noi non lo consentono?”, chiede il marito. Poi aggiunge: “Mi manchi”.
Nella stanza rimbombano le grida dei bambini. C’è il vivavoce così anche dal carcere è possibile vivere l’atmosfera di casa. “Ti ho spedito un pacco con pasta, affettati, formaggi. Ci sono anche delle foto e una sorpresa”, dice Passariello al marito. La figlia si alza da terra. I dieci minuti stanno per finire e vuole parlare con il padre. La madre le dà il telefono, lei scappa in camera e si chiude la porta alle spalle dicendo: “Quando torni a casa?”. Dopo un minuto la porta si riapre, la telefonata è finita.
Fragagnano, 9.57 Rosaria Piccione è pronta ad accogliere su Zoom la sua classe, una prima media della scuola Edmondo De Amicis di Fragagnano, in provincia di Taranto. Insegna arte e immagine, e ora l’aula è una stanza di casa sua piena di quadri alle pareti. “Vedi come sono puntuali!”, dice. Sono collegati in tredici, di solito sono diciotto. Si aggiungono Serena, Cristian (con delle cuffie giganti) e Sofia. La professoressa comincia parlando di un’opera di Banksy in cui si vede un’infermiera supereroina. Chiara ascolta entusiasta, Andrea dice che pure a lui piace. “Vedete il potere delle immagini? Lo stiamo imparando anche con Giotto”.
Chi ricorda la storia della mosca? Marisol: “Allora, un giorno Giotto disegnò sulla lavagna una mosca, e la fece così bene che Cimabue andò per scacciarla pensando che fosse vera”. Interviene l’insegnante: “C’è chi dice che Giotto non sia stato neanche allievo di Cimabue, però il fatto che lo citi anche Dante…”. “Dante mette Giotto nel Purgatorio, nell’undicesimo canto!”, esclama Antonella. Leggono il passo, Francesca annuisce. Gaia aggiunge che a Giotto hanno dedicato perfino un cratere sulla superficie di Mercurio e un asteroide, il 7367 Giotto.
Matteo riesce a connettersi: “Prof, non si attiva la telecamera….”, ha la voce avvilita. L’insegnante lo rassicura: “Stai tranquillo, basta che ci sei. Hai fatto bene a insistere”. Riappaiono anche Marta, Roberta e Vincenzo, che avevano perso la connessione. Si torna a Giotto, Anna dice qualcosa sulla prospettiva. “E per rappresentare la profondità dello spazio come faceva?”, chiede l’insegnante. “Ricordate quando vi ho detto: ‘Guardate me, immaginatemi in una…?’”. Alessandro anticipa Francesco: “Scatola spaziale!”.
Parlano di grandi intuizioni, di un mare dipinto, della maschera di Agamennone. L’ora vola via. La professoressa accenna ai compiti da fare: “Ma non subito, non vi agitate”. Saluta i ragazzi, loro ricambiano e poco alla volta spariscono dallo schermo.
Genova, 10.00 Quando Stefano entra nella stanza per chiedere la solita caramella, Enzo Iadisernia ha già fatto visita a due pazienti in isolamento che sono in attesa dei risultati del secondo tampone, si è consultato con gli infermieri sulla notte precedente, ha parlato con l’internista della situazione di una donna che ha una neoplasia, e con la psicologa. Tira fuori una caramella dal cassetto, dice a Stefano che però è l’ultima. Lui non gli crede, prende la caramella ed esce dalla stanza sbraitando.
Stefano è uno dei quarantaquattro ospiti del Caprifoglio, una residenza psichiatrica di Genova. Iadisernia, psichiatra, 40 anni, è il medico responsabile. È preoccupato per la donna a cui hanno da poco diagnosticato una neoplasia in fase avanzata. “È ricoverata in ospedale. Per il momento non possiamo andare a trovarla, e questo è un problema visto che qui lavoriamo sulle relazioni e sulla presenza fisica”. Da due mesi gli ospiti non possono uscire e gli operatori sono preoccupati di contrarre il virus fuori dalla struttura e di contagiarli. “L’unica novità della fase due è la frustrazione di dover spiegare agli ospiti che anche se in tv vedono le persone uscire di casa, per loro non è cambiato niente”.
Iadisernia va in giardino a fumare una sigaretta. Un ospite lo ringrazia per aver fatto portare la focaccia e il caffè, che prima dell’isolamento prendevano al bar. “La verità”, dice, “è che sono gli operatori quelli meno abituati a vivere questa situazione. Adesso sono gli ospiti a prendersi cura di noi”.
Firenze, 10.30 “Per fortuna non abbiamo firmato!”. La cosa amara è che la libreria Todomodo funzionava. Aperta nel 2014, quando altre storiche librerie fiorentine chiudevano o avevano già chiuso, affettuosamente accolta dal quartiere, Todomodo incassava, piaceva, aveva ringiovanito via dei Fossi, la storica via degli antiquari. E all’inizio di marzo i due proprietari, Pietro Torrigiani e Maddalena Fossombroni, marito e moglie, stavano per comprare un negozio accanto che gli avrebbe permesso di ampliare sia la libreria sia il caffè-enoteca. “Ma il nostro avvocato è uno meticoloso, ci ha rallentato. Per fortuna. Se avessimo concluso l’acquisto adesso saremmo falliti”. I progetti di ampliamento sono rimandati.
“A mai, probabilmente”, dice Fossombroni. “A marzo abbiamo dovuto chiudere il caffè-enoteca, abbiamo tre persone in cassa integrazione e nessuna idea su quando potremo riaprire. Ora stiamo così”. Così vuol dire una stanza d’ingresso con i pochi scaffali delle novità, poi il bancone messo di traverso e Torrigiani e Fossombroni dall’altra parte che aspettano i clienti, ancora rari, e i molti ordini da smaltire in mattinata. Ma camminare tra i libri nelle stanze non è più possibile.
Avere più o meno quarant’anni, ed essere pieni d’iniziativa, li ha aiutati. “Abbiamo lavorato un mucchio. Abbiamo cominciato a fare video e storie su Instagram, e i follower si sono moltiplicati. Abbiamo convertito il nostro logo in Todo Domo (leggi e stattene a casa tua) e ci siamo inventati la collana Serendipity, libri a sorpresa, con copertine che non corrispondono al contenuto”.
Poi c’è stata una piccola battaglia vinta (per ora) contro Amazon. “Sandro Ferri della casa editrice e/o e Antonio Sellerio hanno avuto l’idea di Libri da asporto, cioè hanno messo a disposizione delle librerie indipendenti un corriere per le consegne, e hanno coinvolto decine di editori italiani. Questo ci ha dato una grossa mano sui costi. Amazon per un po’ ha sospeso o rallentato le consegne dei libri, perché non davano margine, e noi piccoli siamo riusciti a inserirci. Nella disgrazia è andata bene”. E ora? “Il negozio accanto non lo compriamo. Ma restiamo aperti. La conosci quella battuta, mi pare fosse di Bill Clinton: si passa il 90 per cento della vita a tenere duro. Ecco: teniamo duro”.
Crevalcore, 10.45 Riccardo, che ha otto anni, è seduto al tavolo della cucina, nell’appartamento dove vive con i genitori e la sorella di un anno e mezzo a Crevalcore, un paese di 13mila abitanti in provincia di Bologna. Indossa una maglietta grigia con Topolino e ha i capelli cortissimi e dritti perché, con i barbieri chiusi, a tagliarglieli ci pensa il padre con la macchinetta. “Gli elefanti vengono paragonati alle nuvole”. Con la testa appoggiata nell’incavo del gomito, Riccardo scrive le risposte a un questionario su un racconto che ha appena letto ad alta voce su un libro di compiti per le vacanze. Fa la terza elementare. Qui la scuola è chiusa dal 24 febbraio e i libri di testo sono rimasti in classe.
Oggi è il padre ad aiutarlo a fare i compiti. Il venerdì è a casa perché un giorno alla settimana è in cassa integrazione. Dopo gli esercizi di italiano, Riccardo guarda sul computer di casa una presentazione sulle divisioni in colonna preparata dalla maestra di matematica. È un argomento che non avevano ancora affrontato in classe, ma non sembra troppo ostico. Dopo una mezz’ora, però, la concentrazione cala e le tabelline diventano più difficili da ricordare. “Adesso papà facciamo questa”, dice indicando lo schermo, “poi basta, vero?”. Le maestre di Riccardo non hanno previsto videolezioni e lui non vede i compagni in chat né ha altri modi per tenersi in contatto con loro. Con regolarità scrive delle email alle insegnanti per mandargli gli esercizi che ha fatto e raccontargli come sta. La scuola gli manca.
Sulmona, 11.00 Leonardo Oddi ha la neurofibromatosi di tipo 1, una malattia rara che di solito non dà grandi problemi di mobilità. Ma dopo un’operazione chirurgica andata male ha perso sensibilità alle mani ed è su una carrozzina da quindici anni. Ne ha 45. Vive con i genitori in una casa di campagna vicino a Sulmona, in Abruzzo. Ha bisogno di tenere in esercizio i muscoli e per questo prima del lockdown tre volte alla settimana, alle 11, aveva appuntamento con Francesco, il suo fisioterapista. Il padre lo accompagnava alla palestra di Sulmona, dove Oddi faceva esercizio insieme ad altre persone con problemi diversi.
Nonostante tutto ha ancora una discreta manualità e da qualche anno lavora da casa per una cooperativa di assistenza domiciliare per disabili. Si occupa di comunicazione. Il lavoro gli piace. Dopo la fisioterapia Oddi, che gira in autonomia con la carrozzina elettrica, aveva l’abitudine di andare al bar di Sulmona per un caffè e le chiacchiere sulle partite di calcio o le gare di automobilismo. Il 10 marzo però si è fermato tutto, anche la palestra, che non è stata considerata un servizio essenziale. Dopo la prima settimana i muscoli di Oddi sono diventati più flaccidi e anche le ossa ne risentono. Potrebbe fare qualche esercizio a casa con dei video su YouTube o farsi dare indicazioni da Francesco. Ma non vuole rischiare di farsi male e di essere costretto ad andare in ospedale, dove ha paura che sia facile rimanere contagiati.
Stamattina la sveglia ha suonato a lungo ma non c’era fretta di uscire. Oddi ha bevuto un caffè davanti alla tv e ha fatto una breve riunione di lavoro online. Mette un po’ di musica italiana ad alto volume, così può ascoltarla anche dal giardino. Fuori ci sono più persone del solito. Molti si sono scoperti raccoglitori di funghi e appassionati di birdwatching. Sulmona sta riaprendo poco per volta, con cautela. Anche Oddi è cauto. Ma ha chiesto al padre di mettere in carica le batterie della carrozzina elettrica.
Bologna, 11.00 Manuela accende il suo iPhone. Di notte lo lascia spento per evitare che i clienti la sveglino con chiamate e messaggi. Su WhatsApp ce ne sono già diversi: “Ciao, possiamo sentirci?”, “Avrei bisogno di informazioni, puoi richiamarmi?”. Da tre anni il suo numero si trova su alcuni dei più famosi siti di escort in Italia, ma con l’emergenza sanitaria sta lavorando solo attraverso le videochat erotiche. La routine per prepararsi è rimasta la stessa: la mattina si sveglia intorno alle 10, fa la doccia, si depila, poi si asciuga i lunghi capelli castani e li stira con la piastra. Quindi si trucca: con il viso a pochi centimetri dallo specchio, disegna una linea nera e spessa sopra le ciglia per incorniciare gli occhi verdi, poi colora le labbra con un rossetto marrone scuro. “Non tutti i clienti hanno il privilegio di vedermi in viso: se vogliono, devono pagare di più”. Infine, indossa la sua lingerie di pizzo. “La mia divisa”, come la chiama lei.
Arriva un nuovo messaggio: “Sei disponibile ora?”. È un uomo. Manuela gli dà gli estremi del suo conto Paypal e una volta ricevuto il pagamento va a sedersi sul divano bianco in salotto. Comincia la videochiamata. L’uomo dice che si sente solo e che ha voglia di distrarsi. Lei comincia con un piccolo spogliarello, poi continua assecondando le richieste di lui. Dopo cinque minuti l’incontro è finito.
Manuela si riveste e torna a controllare il telefono. Altri messaggi. Stanca, si avvicina alla finestra del suo trilocale nel centro di Bologna e guarda fuori. “Il periodo di distanziamento sociale è stato lungo”, dice. Decine di chiamate e notifiche al giorno per guadagnare meno della metà di quanto guadagnava prima. Nelle ultime settimane aveva convissuto con il suo ragazzo, ma dal 4 maggio, con la fase due, lui è tornato a casa sua. Hanno deciso che si vedranno quando ne avranno voglia. “Speriamo di poter ricominciare ad avere una vita normale”, dice. Lo schermo dell’iPhone s’illumina per una nuova chiamata.
Siena, 11.15 Quando arriva all’orto di Montalbuccio, nella campagna a pochi chilometri da Siena, Federica Testa è stupita: nonostante la splendida giornata ci sono solo due persone oltre a lei. La fine dell’isolamento ha avuto l’effetto paradossale di diradare le visite rispetto alle settimane precedenti, quando l’orto condiviso gestito dalla cooperativa Mondo mangione era l’unico spazio all’aperto che gli ottanta soci potevano raggiungere legalmente. Testa, 36 anni, ricercatrice in storia dell’arte, saluta i compagni e si rimbocca le maniche: isolamento o no, i peperoni vanno raccolti lo stesso.
Nel frattempo, di fronte al punto vendita nel centro storico di Siena, la presidente della cooperativa Valentina Pascucci, 40 anni, sta finendo di caricare i sacchetti della spesa sul furgone. Subito dopo il decreto del 9 marzo, quando non era chiaro se il negozio sarebbe potuto restare aperto, i soci hanno deciso di mettere in pratica un’idea che avevano da tempo: le consegne a domicilio. A Siena quasi nessuno offriva questo servizio, e le richieste sono state subito moltissime.
Il fatto di lavorare solo con produttori locali è stato un grosso aiuto: per la cooperativa, che ha evitato i problemi logistici, e per i fornitori, che con i ristoranti e i mercati chiusi hanno potuto contare su un canale per raggiungere i consumatori. Quando attraversavano le strade deserte del centro per andare al negozio, le ragazze si chiedevano se non stessero facendo una colossale stupidaggine. Ma ora Pascucci è convinta che la crisi abbia dimostrato il valore di un’iniziativa come Mondo mangione. “Il nostro si è rivelato un modello resiliente perché si basa sulla vicinanza”, spiega. “Non solo fisica, ma anche di valori. E questo ti fa riflettere su quale sistema può sopravvivere”.
Bergamo, 11.28 Il braccio piegato di Luca Nesi si avvicina ai vetri delle porte automatiche. Gomito tocca gomito: è l’unico saluto sicuro dopo la rinuncia alla stretta di mano. L’asfalto dell’enorme piazzale in via Zanica, alle porte di Bergamo, riflette il calore di un maggio polveroso. All’ingresso della Elcograf, la tipografia dove ogni settimana si stampa Internazionale, ci sono cartelli ovunque: “Divieto di ingresso in azienda con febbre, sintomi influenzali, provenienza da aree a rischio e contatti con persone positive nei 14 giorni precedenti”. Nesi, 55 anni, è il direttore degli stabilimenti di Bergamo e Treviglio. Negli ultimi due mesi ha riposato poco, travolto dall’emergenza nella provincia più colpita dal covid-19. Ha dovuto dare risposte a 360 lavoratori che chiedevano sicurezza e conforto. Molti si sono ammalati. Alcuni sono risultati positivi al covid-19. Tutti hanno avuto un parente o un amico in ospedale o che è morto.
La porta del lungo corridoio si apre verso il cuore della tipografia. Nel labirinto che conduce alle rotative si sente un fischio cupo. Piramidi di rotoli di carta aspettano di entrare nelle macchine dove scorrono tonnellate di inchiostro. Qui di solito non ci si ferma mai, 24 ore su 24 per 6 giorni alla settimana. Ma oggi le rotative si muovono a rilento, come gli ordini. Niente volantini dei supermercati. Niente cataloghi.
Luca Camozzi ha 49 anni ed è uno degli addetti dell’area stampa. Il suo sguardo è fisso sul foglio dei turni. Molti spazi bianchi tra le righe. “Sono preoccupato? Un po’ per l’azienda, sì. Speriamo che si riparta presto e che ci sia la possibilità per tutti di lavorare. Personalmente, invece, non vedo mia moglie da due mesi. È in isolamento. Non è facile”. Nel pomeriggio arrivano i settimanali. Centinaia di migliaia di copie da stampare in poche ore. Sarà una notte impegnativa.
Vicenza, 11.30 Marco Cecchinato si vede arrivare la palla sulla sinistra, si sposta rapidamente verso l’esterno e colpisce un rovescio incrociato che manda fuori dal campo l’avversario, che risponde come può con un colpo lento verso il centro. A quel punto, con il campo completamente aperto, Cecchinato si sposta sul dritto e tira un vincente mentre l’altro sta ancora cercando di recuperare la posizione. Poi di nuovo: rovescio incrociato e dritto, rovescio incrociato e dritto, e ancora, finché l’esecuzione dello schema non diventa perfetta e automatica.
Cecchinato, che è al quinto giorno di allenamento al circolo tennis di Vicenza, sta sudando sotto un sole che non ha niente di primaverile. E non è nemmeno a metà dell’allenamento. Giocherà ancora qualche partita breve contro i ragazzi del posto, farà un pranzo leggero, rientrerà in campo per altre due ore di tattica e chiuderà la giornata sportiva con un’ora in palestra per rafforzare gambe e braccia. Da quando è cominciata la fase due entra al circolo intorno alle 9.30 e ne esce più di sette ore dopo. Poi si mette in macchina e torna a Brescia, la città dove vive da qualche tempo. Oggi è un giorno importante: “Per la prima volta sento che sto tornando in forma”. E c’è un’altra novità: “Finalmente ho ricominciato a provare il servizio”, un colpo fondamentale nel tennis moderno.
Cecchinato, 27 anni, è tornato da poco a lavorare con il suo vecchio allenatore, vuole ricominciare a vincere e tornare tra i primi cinquanta giocatori del mondo (oggi è al 113° posto). Quando è cominciato il lockdown, si è ritrovato in una delle città italiane più colpite dal virus, per di più con la compagna incinta. “Ci siamo chiusi in casa senza vedere nessuno”. In quel periodo si è arrangiato come poteva: “Da me ho una piccola palestra e ho riscoperto il piacere di palleggiare contro il muro, come quando ero un ragazzino”. Da cinque giorni ha ripreso gli allenamenti, e anche il fatto di avere la mano piena di vesciche gli sembra un buon segno. Ora ha bisogno di sentire gli applausi del pubblico. Alla possibilità che il tennis di domani si giochi senza pubblico non ci vuole nemmeno pensare.
Bologna, 11.40 Nel cortile della mensa Cucine popolari, a Bologna, c’è già la fila. Sono quasi tutti uomini, indossano le mascherine e rispettano le distanze di sicurezza. La piccola porta del vecchio edificio in mattoni rossi si apre: “Venite uno alla volta e ricordatevi di pulirvi le mani con il gel igienizzante prima di prendere il sacchetto con il mangiare. Il flacone è sullo sgabello”, dice una volontaria. Il sole batte forte e non c’è neanche un filo di vento, alcuni si riparano all’ombra degli alberi.
Fabio tiene le mani incrociate dietro la schiena, ha un cappellino rosso in testa e i vestiti che cadono larghi sul corpo magro. Le sue braccia sono completamente ricoperte da tatuaggi, fatti quando era nel carcere minorile. Ha 54 anni e ne ha passati diversi in galera e in comunità. Vive in un dormitorio. Fino a pochi mesi fa lavorava come imbianchino e muratore, poi una brutta caduta gli ha danneggiato la colonna vertebrale e non può più fare sforzi. “Sto cercando qualcosa, ma con l’emergenza è diventato difficilissimo trovare lavoro”.
A mezzogiorno riceve il suo pasto: gramigna con panna, prosciutto e piselli, spezzatino con patate al forno e un dolce. Fabio preferiva quando si mangiava dentro, tutti insieme, seduti ai tavoloni di legno dove si chiacchierava con gli altri. “Ora non possiamo neanche stare nel cortile, dobbiamo mangiare per strada”. In cucina, Angela Gomedi si sistema la retina sui capelli e la mascherina. Indossa un grembiule blu scuro e un paio di zoccoli da infermiera, simili a quelli che portava quando lavorava come caposala in un poliambulatorio. Da un anno è in pensione ma non le piace stare ferma, così fa la volontaria alle Cucine popolari. Però sente la stanchezza. Arriva alle 7 del mattino, taglia verdure, cuoce sughi, lavora la carne. Prima della pandemia i pasti da preparare erano una cinquantina, oggi sono il doppio. “Non ho mai avuto paura di prendere il virus, quello che mi angoscia è la crisi economica: se penso a quante aziende non riapriranno, a quanti lavoratori perderanno il lavoro, mi viene il magone”.
Nardò, 12.00 Andrea Re si avvicina al bidoncino dei rifiuti e si accerta che sia stato svuotato. L’hanno mandato qui a verificare se il servizio attivato per una famiglia in isolamento a causa del covid-19 funziona: i rifiuti vanno messi, senza differenziarli, in almeno due sacchetti, uno dentro l’altro. Ieri il servizio è saltato per un malinteso sul numero civico. Re vive a Nardò, una ventina di chilometri a sud di Lecce, con la moglie e i figli di 16 e 13 anni. Lavora per un’azienda che svolge servizi d’igiene urbana in vari comuni della zona. Da quando è cominciata la pandemia l’azienda ha attivato il lavoro a distanza, e spesso Re resta a casa e usa il computer per comunicare con i colleghi e sbrigare le pratiche.
La sua sveglia suona mezz’ora più tardi rispetto a prima, alle 7.45. Oggi Re ha preparato la colazione per i figli e per la moglie che tornava dal turno di notte. Fa l’operatrice sociosanitaria e assiste i malati di covid-19 in ospedale, a San Cesario. I turni di notte sono particolarmente faticosi. Ha lavorato per dieci ore con la tuta, i calzari, due mascherine, gli occhiali protettivi e i guanti, senza mai poterli togliere.
Quando Re torna a casa, la moglie si è svegliata dal suo riposino e sta preparando il pranzo. Lui vuole farle un regalo per la festa della mamma e, prima di rimettersi al lavoro, farà un giro nei negozi sotto casa mentre lei dorme. Stasera forse i Re giocheranno a carte tutti insieme, come hanno cominciato a fare durante il lockdown. Doveva essere un modo per tenere i ragazzi lontani degli smartphone, e ha funzionato, ammette Re: “È un rito che ci mancherà, quando tutto sarà finito”.
Orvieto, 12.00 Le dicevano che per lei non sarebbe cambiato nulla. Anche prima del virus nel minuscolo negozio di alimentari che gestisce a Tamburino, piccola frazione di Orvieto, lungo la strada che porta a Bolsena, si entrava uno alla volta. A mezzogiorno ci sono quattro clienti davanti alla porta a vetri. “È lei l’ultimo?”, chiede chi arriva. Luana Polegri, 46 anni, è da sola. Indossa un camice bianco sopra un paio di pantaloni scuri. Ha annodato un grembiule rosso in vita e raccolto i capelli in un baschetto con il disegno di un cerbiatto. Gli occhi spuntano da un paio di lenti lunghe e strette appoggiate sulla mascherina.
La sua voce filtra come un soffio, mentre accoglie un fornitore. “Ho sentito un carico di responsabilità che non mi aspettavo”, racconta. “Mi dicevo: e se sbagliassi qualcosa? E se qualcuno si ammalasse per colpa mia? Ho avuto attacchi d’ansia. Nessuno ci ha dato indicazioni, ci hanno solo detto di guardare sul sito dell’Organizzazione mondiale della sanità”. Comunque è andata bene. “Dal 9 marzo le vendite sono aumentate del 30 per cento. Tanti sono tornati dopo anni che non li vedevo”.
Chi aspetta fuori si appoggia al muretto di fronte, un altro si siede sotto al pergolato di un bar chiuso. Il negozio di Luana è sempre rimasto aperto in questi mesi. Chi viene qui dal centro storico o da altre frazioni di Orvieto – perfino da Sugano, a sei chilometri – fa la spesa, ma è come se cercasse un circolo di quartiere, un servizio sociale.
Roma,12.15 Lo spedizioniere viene fermato all’ingresso. Il telescanner registra 40 gradi di temperatura. “Sto morendo?”, chiede divertito. “Ha preso troppo sole. Si metta all’ombra”. L’addetto alla sicurezza degli studi di via Teulada a Roma ripete l’invito ad altre cinque persone. Redazione della Vita in diretta, programma pomeridiano tra i più longevi di Rai 1. I corridoi sono puntellati da igienizzanti, in ascensore si entra uno alla volta, sulle pareti Pippo Baudo, Corrado, Mike Bongiorno ed Enzo Tortora in vietatissimo assembramento. Alberto Matano conduce con Lorella Cuccarini. “Lontano da tutto eppure mai così vicini al pubblico”. Ascolti raddoppiati. I collegamenti con Giovanna Botteri da Pechino scalzano Al Bano e Romina dalle curve di share. “Ci guardano i giovani”, parole che la tv generalista non pronunciava da anni.
Colleghi che si vogliono bene, altra anomalia, e pregustano il momento in cui tutto diventerà aneddoto da manuale. Stanzoni contingentati. Il personale è ridotto all’osso. Dipendenti e partite iva uniti dagli eventi e divisi dalle tutele. Si comunica via WhatsApp. Il responsabile degli spettacoli verifica il tributo a Franca Valeri. “Stasera ci sono i David di Donatello, ci sembra doveroso”. Ivana Spagna racconterà il suo Instagram collegandosi da casa, un pasticcere darà consigli per la festa della mamma.
Alla cronaca scartano come mazzieri le parole più abusate, paura, angoscia, rischio, masticando due rigatoni portati nella gavetta. Licenziano il banner, il titolo che scorrerà in sovrimpressione: “Bolzano, riapre tutto”. La produzione controlla che non ci si affolli in studio. La regista spiega che l’assenza di pubblico imponeva di stringere l’inquadratura sui conduttori. Nella fase due il vuoto è diventato parte della scena, arricchendola di prospettiva, la musica è tornata a fare da sottofondo, nessuna nostalgia per il cicalino noioso dell’opinionista. La sfida di abbellire la penuria dei collegamenti e dei tinelli fa sorridere sotto le mascherine, si capisce dalle sopracciglia. Ritrovare l’essenziale, desiderare l’effimero senza stress. Aspettare il ritorno di Antonella, la costumista.
Ora di pranzo
Modena, 12.30 La linea tre entra in fabbrica alle 13, la linea quattro alle 13.30. Ruslana Stepaniuk, 32 anni, operaia alimentarista di origine ucraina esce di casa a Bomporto, in provincia di Modena, un’ora prima che cominci il suo turno per paura di trovare traffico lungo la strada che porta allo stabilimento di Italpizza, a San Donnino. Stepaniuk vive in Italia dal 2008, ha lavorato ininterrottamente durante il lockdown. L’azienda è uno dei colossi mondiali della pizza surgelata, con un fatturato da 127 milioni di euro all’anno. Esporta le pizze in 55 paesi. La produzione non si è mai fermata, anche se alcune operaie dello stabilimento si sono ammalate di covid-19.
Stepaniuk lavora qui da quattro anni con un contratto a tempo indeterminato di pulizie multiservizi, anche se si occupa di farcire la pizza e avrebbe diritto a un contratto da alimentarista. L’anno scorso ha partecipato alle proteste per chiedere che i contratti delle operaie, quasi tutte donne e straniere, fossero adeguati. Al cancello della fabbrica il vigilante la ferma e le consegna attraverso il finestrino una mascherina chirurgica che deve indossare prima di uscire dall’auto.
Dopo che ha timbrato il cartellino, all’ingresso le controllano la temperatura e le danno del gel igienizzante che deve passarsi sulle mani prima di entrare. Nello spogliatoio indossa la divisa: tuta bianca, scarpe bianche anti-infortunio, cuffietta rossa, guanti, e ora anche la mascherina chirurgica. Prima che entri nel reparto le passano addosso uno spray igienizzante. Alle 13 è in catena di montaggio. Il rumore delle macchine è infernale, è impossibile parlare con le compagne di lavoro. Hanno installato dei pannelli di plexiglass tra le postazioni. Basilico e pomodorini sulla pizza quadrata che scorre sulla pedana. Oggi le tocca basilico e pomodorini.
Stepaniuk non ha mai pensato di tornare in Ucraina: la sua famiglia è qui e l’unica cosa che vorrebbe è un contratto di categoria adeguato. Ma teme che in queste condizioni sarà sempre più difficile far valere i propri diritti.
Venezia, 13.00 Il foglio all’ingresso dell’osteria Alba Nova a Venezia parla chiaro: “Il pasto non sei costretto a pagarlo”. Chi può permetterselo, invece, fa un’offerta o concorda il prezzo con la proprietaria, Maria Scià. È ora di pranzo, il sole è allo zenit ma calle Lista vecchia dei bari, protetta com’è da schiere di case sui due lati, rimane in penombra.
Quando è scattato il lockdown, per fare qualcosa per la sua città ed evitare di buttare il cibo rimasto in dispensa, Scià ha cominciato a offrire pasti gratuiti. I commercianti le regalano frutta, verdura e carne. Lei arriva al ristorante la mattina presto e se ne va alle dieci di sera. Ad aiutarla ci sono la figlia e le ragazze e i ragazzi dell’associazione About. Uno di loro, Nicola Bianchi, ha consegnato i pasti a persone anziane o malate, famiglie in difficoltà. Per uscire ha usato la scusa di portare a spasso i suoi due cani, facendo a turno con la compagna. Da qualche giorno, davanti alla sede dell’associazione ci sono due ceste per la spesa sospesa.
Nel giro di un’ora all’osteria Alba Nova arrivano una decina di persone. Senzatetto, ma anche lavoratori e commercianti del quartiere. Dato che i turisti non ci sono più, qualche negoziante ne approfitta per ristrutturare il locale. Qualcun altro, come una dipendente del vicino museo di Storia naturale, è in cassa integrazione: “Ma vado lo stesso a dare da mangiare ai pesci nell’acquario del museo”, dice. “La solidarietà di questi giorni è sorprendente”, afferma Scià. “Certo però che basta guardarsi intorno per vedere che la città è morta. Mi sembra di nuotare controcorrente, non può bastare”.
Pomeriggio
Cremona, 15.00 Isolata nella propaggine sudorientale della Lombardia, Cremona è un importante snodo industriale e agroalimentare, dove convivono grandi fiere internazionali del bestiame, industria alimentare (Sperlari e Auricchio) e industria pesante (le acciaierie Arvedi). Qui hanno le loro sedi distaccate tre università lombarde: la Cattolica e il Politecnico di Milano, e l’università di Pavia. È una piccola città da sempre orgogliosa della propria operosità e della propria ricchezza: il suo stemma è un braccio alzato che stringe un globo d’oro, simbolo delle tasse che la città pagava all’imperatore.
Giacomo Fiocco ha 33 anni ed è un diagnosta dei beni culturali, borsista di ricerca all’università di Pavia e dottorando all’università di Torino. Ha un po’ di barba, ma ha l’aria di essere la sua barba di sempre, non la classica crescita spontanea da lockdown. Divide l’appartamento con una collega e lavora al laboratorio Arvedi, all’interno del Museo del violino di Cremona, dove studia i materiali di strumenti musicali storici.
Il suo lavoro di ricerca, particolarmente rilevante nella città di Antonio Stradivari che accoglie più di duecento botteghe di liuteria, è proseguito “quasi come nulla fosse” durante il lockdown. “Ci siamo concentrati soprattutto sull’elaborazione dei dati che avevamo già raccolto e sulla produzione di articoli e pubblicazioni”. L’inizio della fase due è più complicato, perché ogni ateneo ha le sue norme di sicurezza. “Collaboriamo con il Politecnico di Milano che ha una sede nel nostro stesso laboratorio”, spiega il ricercatore, “ma loro seguono protocolli diversi dai nostri”. Per ricominciare a lavorare, poi, serviranno le mascherine negli spazi comuni e bisognerà pulire costantemente le postazioni di lavoro e gli strumenti. “In qualche modo ci organizzeremo”, dice Fiocco. “Quella che comincia a mancarci di più è l’attività di condivisione dei nostri studi, che avviene attraverso le pubblicazioni, ma soprattutto in convegni, seminari e congressi che ora sono tutti sospesi”.
Cagliari, 15.20 In via Sardegna, a duecento metri dal porto di Cagliari, Alessandra Boi, 54 anni, entra nel suo albergo. L’hotel Italia è appartenuto ai nonni materni e poi ai suoi genitori. La porta a vetri scivola sotto l’insegna verticale e lei saluta il ragazzo alla reception. Dietro di lui, appese, ci sono le chiavi di cento stanze, più le otto di una depandance. “Solo una è occupata. Una situazione così non ci era mai capitata dalla seconda guerra mondiale”. La hall è vuota, il bar sigillato.
Boi è un’ingegnera edile e dal 2017 è la titolare dell’albergo. “Anche il personale è di famiglia: padri e figli, cugini”. Al momento 14 sono in cassa integrazione. “Nel 2019 in media il 72 per cento delle camere è stato occupato, con punte estive del 94 per cento”, racconta. Prevedendo che le cose sarebbero andate ancora meglio, visto che ad aprile l’America’s cup avrebbe fatto tappa proprio a Cagliari, aveva investito molto. Ma poi la pandemia ha fatto saltare tutto. Le email di disdetta continuano ad arrivare. “Noi però abbiamo sanificato, comprato disinfettanti, seguito corsi online sulla sicurezza. Resistiamo. Dopotutto, nel 1943 questo albergo fu ridotto in macerie dai bombardamenti, ma poi è stato ricostruito e non ha mai chiuso. Nemmeno un giorno”.
Terni, 15.30 Oggi il viaggio da Roma di Roberto Cherubini è stato veloce. Nei primi giorni di lockdown i poliziotti lo hanno fermato varie volte e ha dovuto spiegare che da quindici anni si divide tra il lavoro all’università Urbaniana e la chiesa di Santa Croce, a Terni, di cui è parroco.
Capelli e barba neri, tanto folti da togliere qualcosa ai suoi 59 anni, Cherubini ha dovuto sospendere le messe, ma nella sua chiesa la vita è continuata. Nei locali accanto alla parrocchia vivono una ventina di persone senza casa, stranieri e italiani, e il parroco li mette subito al lavoro. Bisogna fare i pacchi di vestiti usati che la parrocchia porta alle famiglie in difficoltà. “Le richieste di aiuto sono aumentate”, spiega. Arrivano anche da collaboratrici domestiche rimaste senza stipendio perché da due mesi i datori di lavoro non le fanno entrare in casa e si rifiutano di pagarle, da venditori ambulanti, da un gruppo di giostrai bloccato in periferia.
Date tutte le istruzioni, Cherubini torna in canonica. Domani deve celebrare un funerale al cimitero di Terni. Una donna macedone, morta un mese fa, è stata sepolta senza esequie, e ora la sorella vorrebbe una cerimonia religiosa, anche semplice. Cherubini deve parlare con lei e poi deve sentire i catechisti. I corsi di preparazione alla comunione e alla cresima si sono spostati su Zoom. “All’inizio non ci avevamo pensato”, dice una catechista, “poi ho visto mio figlio che faceva lezione a distanza e ho pensato: facciamolo anche noi!”.
Intanto il parroco immagina la riapertura: dal 18 maggio si potrà ricominciare a celebrare con i fedeli e pensa di farlo all’esterno per maggior sicurezza. La piazzetta medievale farà da chiesa a cielo aperto.
Milano, 16.00 In un loft del quartiere Bovisa, nella zona nord di Milano, Blip lavora a un videogioco che sta sviluppando per un’azienda spagnola e intanto dà un occhio ai messaggi su Telegram e Signal. È lì che gli scrive chi vuole comprare erba o fumo. Verso metà pomeriggio arriva un cliente abituale. Le canne non se le passano più come facevano prima, dai primi di marzo ognuno fuma la sua. Blip mostra la mercanzia e dice che mezz’etto di erba californiana di prima qualità ora costa 600 euro. “I magazzini milanesi si stanno svuotando, e quel che si trova, quando si trova, si paga di più”, dice Blip. Il cliente non si lamenta. Paga, nasconde il pacco ed esce.
In due mesi il prezzo dell’erba è aumentato del 30 per cento, mentre le droghe da club o da rave hanno perso un 25-30 per cento del valore. “Con 1.500 euro posso ritirare un pacco da mille pasticche, ma poi cosa me ne faccio?”, dice Blip. L’oppio invece è destinato a diventare merce rara, perché gli amapoleros, che proprio in questo periodo dell’anno lo raccolgono nei campi spagnoli o cechi, sono fermi. Per darne due grammi a un videomaker rientrato da Berlino, Blip è costretto a intaccare la sua riserva personale. Lo fa perché conosce il ragazzo e sa che non se la sta passando benissimo. “Fattelo bastare”, gli dice.
Catanzaro, 16.00 A Mondo rosa, casa rifugio per donne maltrattate nata nel 2012 da una costola del Centro calabrese di solidarietà per il recupero di tossicodipendenti, si arriva attraversando il porto di Catanzaro. È una palazzina rosa, tre piani e due giardini con un piccolo parco giochi per i bambini. Ci sono sette bambini e quattro madri, tutte e quattro in procinto di andarsene perché hanno completato il loro percorso di “ritrovamento di se stesse”, come lo definiscono loro, hanno imparato un mestiere e sono pronte a tornare nel mondo “per costruire un castello sulle rovine del passato”, che per tutte e quattro ha il volto di un compagno violento.
Con loro ci sono Isa Mantelli, che Mondo rosa se l’è inventato, e Maria Francesca Corapi, che ci lavora come assistente sociale. Tutte le ospiti hanno fatto un tampone, nessuna è risultata positiva. E nessuna è depressa dopo due mesi di clausura: “Non è stata pesante, con una casa grande e il giardino ci siamo sentite privilegiate”. Nemmeno i bambini sembrano aver sofferto troppo, solo uno, il più piccolo, sbotta: “Uffa sono stufo, quando se ne va questo virus? Voglio tornare all’asilo”.
Alla fine, per le quattro donne è stata un’occasione per stare di più insieme prima di prendere ciascuna la propria strada. Giovanna, la più anziana, prima del lockdown faceva la cuoca in un ristorante, che però adesso è chiuso e chissà se e quando riaprirà, “e a 60 anni io cos’altro trovo?”. Anna, che è romena e vive in Calabria da quindici anni, avrebbe dovuto cercare lavoro come commessa, ma le è stata sospesa la borsa lavoro della regione e chissà se e quando la riavrà. Slavenka vorrebbe tornare in Slovacchia, il suo paese, ma l’ex marito non le dà la firma per il passaporto dei due figli adolescenti, “qui in Italia le cose burocratiche sono sempre troppo complicate”. Caterina invece ha i bagagli pronti per trasferirsi con i tre figli a Londra dove vive suo fratello, ma le frontiere sono chiuse e i voli non partono: “Eppure per me questa del coronavirus è un’occasione. Ho fatto un corso per diventare infermiera e il governo britannico ha bisogno di personale negli ospedali”. Un’occasione, ecco: “Quello che non ci ammazza ci rafforza”. Se sei uscita dal tunnel della violenza domestica troverai il modo di uscire anche dal tunnel del coronavirus.
Napoli, 16.30 Nel museo Archeologico nazionale di Napoli (Mann) c’è un silenzio irreale. Nessun visitatore, nessuna scolaresca, nessun turista a chiedere informazioni sulla Venere callipigia del secondo secolo avanti Cristo o sui protagonisti del Supplizio di Dirce, un’opera che gli studiosi chiamano “la montagna di marmo”. Per le sale si aggira solo un uomo di quarant’anni in giacca, camicia e mascherina. È Ruggiero Ferrajoli, impiegato all’ufficio museologia e documentazione storica del Mann. Da mesi lavora da casa, come i suoi colleghi, ma oggi ha bisogno di consultare dei fascicoli nell’archivio. Quando ha suonato il campanello è stato accolto da Michele, dipendente della ditta di pulizie, e da Peperina, una grossa gatta marrone che vive nel cortile. Vedere il museo deserto gli ha stretto il cuore. La situazione resterà così fino al 18 maggio. Poi i lavoratori cominceranno a rientrare a turni in vista della riapertura, prevista per il 2 giugno.
“Il lavoro da fare è tanto”, dice Ferrajoli. Bisognerà sanificare ciclicamente le sale e gli impianti di climatizzazione, garantire il distanziamento, sia nelle sale sia negli uffici, regolamentare le presenze. Ferrajoli non sembra perdersi d’animo. Consulta i documenti che gli servono e poi scende in cortile, dove fuma una sigaretta con Mauro, custode di vecchia data, giacca e capelli grigi. Quando esce su via Toledo il sole è ancora alto e il vento rende piacevoli i 23 gradi segnalati dal tabellone elettronico di una farmacia.
Roma, 17.00 In un venerdì di maggio senza pandemia viale Marconi sarebbe un rettilineo brulicante di persone e sommerso dal traffico. Oggi, invece, sembra avvolto nel torpore tipico dei weekend di fine agosto. Jason Horowitz, da tre anni corrispondente del New York Times in Italia, appunta qualcosa sul taccuino, si ferma a fare domande alle famiglie con la mascherina in fila davanti alle gelaterie e osserva contrariato gli anziani senza mascherina che chiacchierano sulle panchine. Sta raccogliendo materiale per un possibile articolo sul centro della città svuotato dai turisti e dagli impiegati, e sulla vita che lentamente torna a rianimare i quartieri. All’inizio della pandemia Horowitz ha viaggiato molto in Italia e ha scritto tanti articoli. Nelle ultime settimane ha continuato a lavorare, ma da casa, senza mai uscire. “Non ci siamo occupati troppo delle beghe politiche, abbiamo raccontato l’epidemia e le storie delle persone a chi negli Stati Uniti ancora non si rendeva conto di quello che stava succedendo. È stato un periodo di lavoro intenso. Ma gli articoli dall’Italia erano tra i più letti del giornale”.
Poi è cominciata la fase due. “Rispetto a qualche settimana fa oggi Roma ha l’aspetto di una città che si riaffaccia alla vita dopo aver sofferto. Ma nessuno sembra sicuro o a suo agio. Siamo ancora in una situazione incerta”. Quest’incertezza probabilmente rivoluzionerà anche l’informazione e il lavoro dei giornalisti. “La perdita della pubblicità è preoccupante. E temo per la sorte dei giornali più piccoli, soprattutto negli Stati Uniti. Per quanto riguarda il mio lavoro, invece, noi corrispondenti esteri siamo abituati a vivere in una sorta di isolamento, lontani dagli altri colleghi. Quello che davvero è cambiato è che per la prima volta raccontiamo storie che ci riguardano direttamente. Siamo immersi in quello che scriviamo”.
Milano, 17.30 L’edificio della fondazione Giangiacomo Feltrinelli, progettato dallo studio svizzero Herzog & de Meuron, è un cuneo di cemento e vetro infilato in un lungo spazio vuoto tra piazzale Baiamonti (l’ingresso della chinatown milanese) e porta Garibaldi, dove il teatro Smeraldo, uno dei simboli della vita musicale della città, è stato trasformato nel 2014 in un faraonico ipermercato di Eataly. Dalle grandi finestre della fondazione entra una luce dorata. Nella sala di lettura, sotto una bandiera scarlatta della Comune di Parigi, c’è Massimiliano Tarantino, 44 anni, direttore della fondazione. Per la prima volta nella sua storia, il gruppo Feltrinelli ha dovuto affrontare la chiusura di tutte le librerie, che oggi sono 118 in 57 città.
“È stato come un gancio a sorpresa in un incontro di pugilato”, racconta Tarantino, “ed è cominciato un processo di digitalizzazione che abbiamo costruito sul momento, per esempio integrando gli eventi e le piattaforme di e-commerce, e rendendo più semplice l’esperienza dell’acquisto online”. Il covid-19 ha solo accelerato una crisi dell’editoria che era cominciata molto prima. Tarantino spiega che in un certo senso questa emergenza li ha catapultati in un futuro di cui si conoscono tutti i pericoli ma di cui si ignorano le possibilità. Però è ancora troppo presto per capire se queste possibilità esistono o se sono solo una speranza a cui aggrapparsi.
Sera
Brescia, 18.00 Seduta al tavolo della cucina, Silvia Rossi, 65 anni e capelli corti che ormai ha imparato a tagliarsi da sola, lancia un’occhiata fuori dalla finestra mentre s’infila il termometro sotto il braccio. È a quest’ora, in genere, che la febbre compare, e da sei settimane e due giorni decreta che la fine dell’isolamento per lei è ancora lontana. “Solo qualche linea, ma abbastanza da tenermi segregata in casa”, dice. Un’ora fa, però, non ce l’aveva: “Magari è la volta buona”.
Rossi non è la sola in questa situazione. Sono decine di migliaia le persone a Brescia e in provincia sospettate di essere malate di covid-19 e costrette a stare in casa con sintomi lievi. I medici di base hanno chiesto invano di sottoporle a tampone. Di loro non c’è traccia nei numeri ufficiali. Rossi, però, un tampone è riuscita a farlo andando alla tensostruttura allestita davanti all’ospedale civile. Il risultato è stato negativo, ma “non significa che non abbia il virus”, le hanno detto. Anzi. Dalla tac ha scoperto di aver avuto la polmonite virale senza rendersene conto. Quindi perché la febbre non se ne va? “Il medico dice che è pieno di casi come il mio, che può durare anche due mesi e che nemmeno loro ne sanno molto”.
Con le bare stipate nelle chiese e le sirene delle ambulanze in sottofondo per settimane, Brescia è stata la città piùcolpita dal virus insieme a Bergamo, Cremona e Lodi. L’emergenza è passata, ma per Rossi la fase due è rimandata. “La paura di infettare qualcuno è troppa”. Ha retto bene all’isolamento, ma ora le comincia a pesare. Una volta alla settimana la figlia le lascia la spesa in cortile e si ferma a chiacchierare con lei alla finestra. Ogni tanto si affacciano anche le due sorelle, che vivono nello stesso palazzo. Per il resto le videochiamate, la ginnastica ascoltando la radio, le lezioni di spagnolo via Skype, le serie tv e i libri hanno reso le giornate sopportabili. “Mi sono imposta degli orari per scandire il tempo, anche se nel pomeriggio la febbre m’infiacchisce e riesco a fare poco. Ma sto leggendo Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, e mi piace molto”. Di colpo si ricorda del termometro, il tempo è scaduto da un pezzo, se lo sfila. “Oh no, 37,1!”.
Roma, 18.00 Valentina ha sette anni, gli occhi vispi e la lingua svelta. Prima di parlare ti osserva e, se decide che le vai a genio e si può fidare, allora ti sorride. “Certo che lo so cos’è il coronavirus. Si deve stare distanti, perché se te lo prendi, non ci sono le ambulanze per portarti in ospedale. Ti devi mettere la mascherina, i guanti e l’Amuchina. Tutti i giorni”. Quindi niente scuola? “Ormai a scuola si va il prossimo anno. O forse neanche il prossimo anno. Ma la scuola mi manca troppo. Soprattutto i compagni. Le maestre così così”.
Valentina è nata a Roma, come i suoi quattro fratelli: Alex, che ha 24 anni, Kevin, Toni e il più piccolo, Ronaldo, di 4 anni. I genitori sono scappati dalla Bosnia Erzegovina durante la guerra degli anni novanta. E non ci sono più tornati. Da due anni vivono in una roulotte sistemata in uno spiazzo verde tra il Tevere e il vecchio mattatoio.
“Siamo in Italia dal 1996, e siamo costretti a vivere qui”, racconta Marko Rusić, il papà di Valentina. “Abbiamo fatto domanda per il campo di via Candoni, alla Magliana, ma dicono che non c’è posto. E anche per una casa popolare. Il punteggio ce l’abbiamo, ma anche lì non c’è niente”. E il lavoro? “Prima lavoravo. Raccoglievamo il ferro e lo vendevamo alla discarica. Tutto in regola. Ma adesso non si muove più nulla”.
Accanto al tavolo all’aperto, dove la famiglia mangia nei giorni di sole, c’è un bel cespuglio di rose rosse. “Le abbiamo piantate noi”, dice fiera Valentina. Poi si rivolge in romanì al fratellino Ronaldo con tono di bonario rimprovero: “Non ti avvicinare al gadjo. C’è il coronavirus”.
Castiglione d’Adda, 18.30 Andrea Rozzio srotola il tappetino. Accanto, sul pavimento, ci sono un mattoncino e una coperta. È pronto per la lezione, aspetta gli allievi. Apre Zoom. Sullo schermo appaiono Laura da Casalpusterlengo, Emanuela e Giuseppe da Codogno, Alessia da Bagnolo Cremasco, Giulia da Castiglione d’Adda, Marta da Orio Litta, Sara da Terranova dei Passerini. E via via tutti gli altri. Rozzio è collegato da una stanza della casa dove vive con la madre, a Castiglione d’Adda. Ha 34 anni e da cinque è insegnante di yoga vinyasa.
All’inizio era scettico, racconta, ma poi “mi sono sorpreso di come internet riesca a unire le persone”. Sullo schermo alcune inquadrature sono sbilenche, altre tagliano gambe o teste, oppure sono troppo vicine, si vede un ciuffo di capelli in primo piano. Sullo sfondo si scorgono tavoli, sedie, un divano coperto da un telo a righe, l’angolo di un letto, una carta da parati a fiori, librerie, comodini, un letto a castello, fotografie. Qualche gatto s’infila tra le gambe, compare un cane, un bambino che avrà tre anni salta sulla schiena della madre. “Credo che questo sia proprio il periodo giusto per praticare”, dice Rozzio. “Nel mio paese ci sono stati giorni in cui morivano dieci, dodici persone, le conoscevo tutte. Si andava a letto con la paura”. In un contesto simile, lo yoga “aiuta a sentire un po’ di quiete nell’incertezza”.
Andrea si chiede quando potrà ricominciare a lavorare come prima, quanto potrà resistere con la sua partita iva, in unsettore che probabilmente farà più fatica di altri a riprendersi. Ma è convinto che “tutto arriva per insegnarci qualcosa” e che soffrirà di più chi resterà “legato alle modalità di prima. Chi invece si adatterà magari imparerà qualcosa e avrà l’occasione per diventare più forte e apprezzare quello che prima non vedeva”.
Le torsioni, il cane a testa in giù, l’aratro e la mezza candela. La lezione finisce con il rilassamento e la respirazione. Rozzio guarda lo schermo, poi chiude gli occhi. Gli allievi sono stesi a terra, i toraci si muovono su e giù, ognuno con il suo ritmo.
Castel di Sangro, 19.00 In questo paese di seimila abitanti, nel sud dell’Abruzzo, la chiesa e lo stato si manifestano negli stessi momenti. Nel tardo pomeriggio, mentre il prete fa suonare le campane ed esce dalla basilica di Santa Maria Assunta per mandare una benedizione a medici, infermieri e malati, su Facebook interviene il sindaco Angelo Caruso, 54 anni, per parlare dell’emergenza legata al nuovo coronavirus.
Oggi, spiega, sono state prese decisioni importanti. La più rilevante è quella che permetterà a bar e ristoranti di occupare gratis il suolo pubblico fino al 31 dicembre. Secondo Caruso, è un modo per “aiutare la comunità da un punto di vista psicologico”. In paese ci sono stati sette contagi e un morto, tutti a marzo, ma la maggior parte dei cittadini non si fida della fase due. “Ieri ho fatto riaprire il mercato all’aperto, con accessi limitati e controlli della temperatura, ma molti mi hanno scritto per dire che era pericoloso”. Quando sono stati distribuiti gli aiuti stanziati dal governo (52mila euro) molti si vergognavano all’idea di fare la spesa con i buoni. “Commercialisti, ingegneri, avvocati e architetti mi dicevano in privato: ‘Mi sembra umiliante’”.
Caruso sembra voler gestire la fase due come ha fatto finora, cioè con un approccio che definisce, con una punta di compiacimento, “militare”: “Quando abbiamo avuto i primi casi non ho ricevuto comunicazioni dalla regione o dal governo. Ho chiamato tutti i medici di famiglia e gli ho chiesto di dirmi se avevano pazienti con sintomi influenzali”. Poi ha contattato i potenziali positivi, li ha allontanati dalle loro case e li ha messi in isolamento. Infine, ha cercato di ricostruire il contesto in cui quelle persone si erano mosse per spezzare un’eventuale catena di contagi. “Non abbiamo rispettato la privacy, abbiamo fatto cose che non stavano scritte da nessuna parte”.
Milano, 19.10 Paolo Fresu cammina in mezzo ai tavoli vuoti del Blue Note, il locale milanese di musica jazz. Poi si ferma. Abbassa lo sguardo, porta la tromba alla bocca e comincia a suonare. Le note si perdono nella sala, mentre grazie allo streaming arrivano sulle casse e sugli schermi dei computer e dei telefoni delle persone collegate su internet. Poi la regia stacca e la parola passa a Nick The Nightfly, conduttore radiofonico e direttore artistico del Blue Note, che spiega: Fresu, sardo di Berchidda e star internazionale del jazz, si esibirà gratis insieme alla sua band, il Devil Quartet, per raccogliere fondi a favore della Croce rossa.
La regia stacca di nuovo e inquadra la band sul palco. Con Fresu ci sono Bebo Ferra alla chitarra, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria. Indossano tutti la mascherina, anche se ovviamente Fresu la tiene abbassata. Si parte con Ambre, un brano dall’andamento latinoamericano. Quando finisce, c’è un silenzio strano. È irrazionale, eppure viene spontaneo tendere l’orecchio per ascoltare gli applausi. Al secondo pezzo si tolgono le mascherine. Fresu, camicia bianca con fantasie floreali e pantaloni a righe, attacca a suonare E se domani, classico della canzone italiana reso famoso da Mina. “E se domani io non potessi rivedere te”, dice l’originale. Parole che fanno un certo effetto in questo momento. Il concerto dura poco più di un’ora e si chiude con lo standard jazz Bye bye blackbird. A quel punto parte un applauso e la regia inquadra finalmente le poche persone presenti, lo staff del locale e i cameraman, tutti a distanza di sicurezza. La band fa un inchino e saluta.
“Quando siamo arrivati eravamo tutti un po’ tristi. Non vedevo i miei musicisti da tre mesi e non ho neanche potuto abbracciarli. Ma il concerto è stato emozionante”, racconta Fresu dopo essere sceso dal palco. “Certo, mancava il pubblico, che è fondamentale, però sapevamo che tanti ci stavano guardando. E poi è importante fare questi eventi perché permettono di rimettere in moto, in qualche modo, i lavoratori dello spettacolo. In particolare quelli impegnati dietro le quinte, i più in difficoltà in questo momento di crisi. È stata una giornata strana, eppure diversa, nuova”.
Gradisca d’Isonzo, 20.00 Come ogni sera hanno portato la cena, un vassoio di alluminio con dentro riso, pollo, un po’ di condimento, pane in cassetta. La giornata è scandita dai pasti, l’ora del pranzo e della cena segnano lo scorrere del tempo in un luogo senza tempo, la gabbia nella gabbia, una camerata con cinque letti all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia. Ben Okri (nome di fantasia, per proteggere la sua identità), 31 anni, nigeriano, non ha voglia di mangiare. Da giorni non tocca il cibo e non dorme per la paura di contrarre il coronavirus. È rinchiuso nel centro da due mesi perché il suo permesso di soggiorno è scaduto ed è in attesa di essere rimpatriato, ma con la pandemia i voli di rimpatrio sono sospesi. Alcuni suoi compagni di cella sono qui da cinque mesi. In totale nel centro ci sono 41 reclusi.
“È la paura di prendersi il covid-19 che non ci fa dormire di notte”, racconta il ragazzo, che è arrivato in Italia nel 2008 e ha vissuto in diverse città, tra cui Napoli e Terni. In questo centro di detenzione ci sono stati almeno 5 casi di covid-19 confermati dalle autorità. “Quest’uomo dormiva nella mia stessa camerata, al momento siamo in quattro in una stanza ed è impossibile tenere la distanza di sicurezza”, continua Ben Okri. Una luce giallina illumina le pareti grigie. Il malato era arrivato nel Cpr il 19 marzo da Cremona, uno degli epicentri della malattia in Italia. È stato portato in ospedale e messo in isolamento, ma ora, secondo Ben Okri, è tornato nel centro. “Siamo come animali in gabbia, rinchiusi tra una camera e un cortile circondato da recinzioni, tutti insieme”, spiega il ragazzo in un inglese nigeriano, che è come una cantilena. Esce a prendere un po’ d’aria, mentre i suoi compagni, dopo aver mangiato, camminano avanti e indietro nello spazio rettangolare circondato da plexiglass e inferriate. Gli sembra di non potersi difendere da un nemico invisibile e l’angoscia di ammalarsi si aggiunge a quella di essere rinchiuso.
Ferrara, 21.00 Ha appena finito di mangiare e ha deciso di fare il giro dell’isolato. Si chiude la porta alle spalle e scende in strada: la città è deserta, ci sono solo poche persone in bicicletta. L’aria della sera è calda e profumata. Alice Bolognesi, 42 anni, presidente dell’Arci di Ferrara e responsabile del cinema Boldini, ha dovuto chiedere ospitalità a sua madre durante il blocco delle attività. È tornata a dormire nella stanza di quando era bambina, insieme al suo gatto Ulisse. Quando è scoppiata la pandemia, aveva appena disdetto il contratto di affitto della casa dove abitava e si sarebbe dovuta trasferire in un appartamento appena comprato, ma i piani sono saltati. “Alla fine è stato meglio così, ci siamo fatte compagnia”, dice. Come presidente dell’Arci ha continuato a lavorare da casa, ma il cinema è stato chiuso già alla fine di febbraio. Ogni tanto durante il blocco ci è andata. “Una strana sensazione vederlo vuoto”, racconta. All’inizio è stato complicato spiegare la chiusura, non c’era molta consapevolezza dei pericoli della malattia. “Siamo stati tempestati di chiamate da persone che chiedevano chiarimenti”. Erano in programma una rassegna dedicata ad Agnès Varda e l’anteprima dei Miserabili.
Nella fase due quello che spaventa di più Bolognesi è la mancanza di indicazioni chiare e di un progetto per le attività culturali. “A un certo punto sembrava che potessimo aprire il cinema con i posti alternati. Ma questa possibilità è sfumata. Ora sulle sale cinematografiche c’è grande incertezza, non sappiamo nulla”. Il Boldini quando riaprirà dovrà ridurre i posti a sedere di un terzo, a novanta. Ma in questo momento di difficoltà non mancano le idee. “C’è un po’ più di speranza sulle arene estive, il problema è che non ci sono film”. In molti chiamano per sapere se si aprirà un drive-in. C’è voglia di tornare a qualche forma di normalità. Si parla di attivare una piattaforma online per permettere al pubblico di vedere i film in prima visione da casa, pagando, ma Bolognesi non è convinta: “Siamo tutti un po’ spaventati, temiamo di perdere pubblico. Ci chiediamo se le persone avranno voglia di tornare al cinema”.
Monza, 21.00 Finalmente Hanna Tom-chy-shin può tirare il fiato. Ha messo a dormire l’anziano signore che assiste e ora il silenzio riempie l’appartamento a Monza dove lavora. È un po’ stanca. “Mi alzo alle 8, faccio colazione, dopo sveglio il mio assistito, lo lavo, lo vesto e lo faccio mangiare”, racconta. Poi ci sono le pulizie, i bucati, la cucina. Nel mettere in fila tutti questi impegni, sospira: “Ci vuole pazienza. Bisogna sapere come trattare una persona con l’alzheimer. A volte diventa aggressivo, a volte è una lotta, ma è perché è malato”. Tomchyshin, 65 anni, ha un bel viso e una corona di capelli grigi. In Ucraina faceva l’infermiera, vive in Italia da 19 anni. Prima della pandemia si prendeva una pausa intorno alle 14, quando arrivava il figlio dell’anziano signore e le dava un po’ il cambio. Ora lui continua a venire, ma lei ha rinunciato a uscire. “Ho un po’ paura”, racconta, “e poi anche gli altri non escono, con chi mi vedo? Preferisco andare nella mia stanza a leggere o a telefonare a mia nipote”.
La bambina, figlia della figlia, ha cinque anni e vive in Ucraina con la mamma. “Oggi ci ho parlato”, racconta Tomchy-shin. “Voleva sapere quando finirà il blocco delle attività. ‘Perché?’, le ho chiesto. ‘Perché non mi puoi mandare niente dall’Italia’, ha detto lei. ‘Certo che posso’, le ho risposto. ‘No, non puoi, in Italia è tutto chiuso!’”. Tomchyshin sorride. “Quando riapriranno i negozi devo mandarle un bel giocattolo”.
Piedimonte Matese, 21.15 Simone Martuscelli è seduto su una poltroncina celeste in camera sua a Piedimonte Matese, in provincia di Caserta. Ha il portatile appoggiato sulle gambe per seguire una lezione di filologia italiana: “Tradizione critica delle opere di Dante”. Da quando le università sono chiuse, segue dei corsi online. Martuscelli ha 22 anni e studia lettere moderne a Roma, dove divide una stanza con suo fratello Thomas. Il 7 marzo sono tornati insieme in treno nella casa dei genitori. In Italia tutti parlavano di un possibile blocco degli spostamenti e loro hanno preferito evitare di restare nell’appartamento condiviso con altri studenti.
Mentre Simone studia, Thomas è su uno dei due letti singoli della stanza e parla con la fidanzata rimasta a Roma. Alle 21.40 Simone mette in pausa la lezione per chiamare su Zoom Margherita e Pietro, due compagni di corso. I tre dovrebbero laurearsi a settembre. Margherita dice che “alla professoressa forse non rinnovano il contratto e probabilmente non potrà seguire lei le tesi”.
I due ragazzi rimangono interdetti. “Alla Sapienza inseguire i docenti per le tesi è un classico, ci era andata troppo bene finora”, scherza Pietro. I tre decidono che ne riparleranno nei prossimi giorni, poi cambiano discorso. “Bisogna vedersi appena possibile”, dice Martuscelli. L’interruzione brusca delle lezioni all’inizio di marzo ha trasformato le sue settimane in un tempo di attesa e frustrazione. Margherita gli chiede com’è stato tornare nel suo piccolo paese e ritrovarsi in pieno lockdown. “Ho preso il treno quasi alla vigilia della chiusura. Mi sembra di aver viaggiato nel tempo”, risponde Simone. I ragazzi ridono e si salutano. Thomas non ha mai smesso di parlare con la fidanzata.
Palermo, 21.48 Marco Tuttolomondo attraversa i viottoli di Mondello a bordo del suo Sym Symphony 125 grigio. La serata è calda, il cielo è limpido, ma nella borgata marinara di Palermo non si vede anima viva. Tuttolomondo è alla sua ultima consegna. Ha 48 anni e da dieci fa il rider, ultimamente lavora per Glovo e Deliveroo, stasera invece per un ristorante cinese. Questa è la sua prima giornata di consegne nella fase due. “Per noi non è cambiato molto nel passaggio dalla chiusura a questa prima riapertura, lavoriamo da sempre, siamo sempre stati in giro”, sorride. Però ammette che “quando è scattato il blocco delle attività le persone sono diventate più generose: prima nessuno ci dava mance, ora sì”.
Alto, barba bianca, Tuttolomondo confessa di avere un rapporto difficile con la mascherina: “A volte fa caldo, a volte non la metto”. Le consegne avvengono sempre nello stesso modo: “Mi fermo sulla soglia dell’ascensore e dico quanto mi devono pagare, poi lascio il box sul pianerottolo e loro mi danno i soldi”. All’inizio i clienti erano diffidenti nei confronti dei ristoranti cinesi, ma poi gli ordini sono ripresi: “Nelle prime settimane di marzo i ristoranti hanno accusato il colpo, ora si sono organizzati e quasi tutti fanno consegne a domicilio”. E lui, come stasera, corre su e giù per le strade vuote di Palermo.
Roma, ospedale San Filippo Neri Nascosta tra le braccia di Sheira, Giulia potrebbe non esistere. Quella dentro la tutina rosa, sotto la cuffietta, con i piedi infilati nelle babbucce potrebbe essere una bambola, non piange, non geme. Sembra che dorma, invece sta poppando. Sheira le scosta la cuffietta dal viso. Via il sipario, ed ecco l’espressione strapazzata di una bambina appena scaraventata sulla Terra da un altrove.
Giulia è nata alle cinque del mattino e, mentre si chiude il primo giorno della sua vita, la madre si distende, gli occhi sembrano ancora più grandi e chiari sulla pelle scura. Sul seno da cui sta allattando, Sheira porta tatuato il nome del primogenito, Mattia, due anni. Lei ne ha poco più di venti e questa è la sua terza gravidanza, in mezzo c’è stato un aborto spontaneo.
Dal balcone si vedono alberi appena mossi dal vento, due infermiere giù chiacchierano. Il parto è andato bene, Sheira è entrata con l’ostetrica nella sala azzurra e lì ha scelto di stendersi su un fianco, la posizione che sentiva più comoda per far uscire la bambina. Due anni fa, per Mattia, aveva scelto di attaccarsi con le mani a una corda chiamata “la liana” e sedersi sulla palla ergonomica, oggetti che sembrano venire dritti da una lezione di pilates. Nelle tre sale parto del San Filippo Neri il lettino tradizionale è solo una delle possibilità, usata sempre più di rado. C’è anche una vasca, ma il parto in acqua è sospeso, non è chiara la trasmissione del coronavirus attraverso i liquidi. All’ingresso del reparto nascite, un poster con l’arcobaleno ricorda alle partorienti che “andrà tutto bene”. È uguale a quello che i bambini appendono alle finestre e alle porte delle case, ma la mano che l’ha tracciato è adulta e ha disegnato anche il profilo di una donna incinta.
Oggi qui ha partorito solo Sheira, è nata solo Giulia. Questa unicità le rende ancora più minuscole e ancora più forti, cariche di futuro, di speranza, del potere di togliere a tutti la malinconia, lo scoraggiamento, la porzione quotidiana di paura e dolore con cui ci stiamo abituando a vivere. Stanno sull’altro piatto della bilancia rispetto al bollettino della sera, alla conta dei morti e dei contagiati, come se ne dovessero riequilibrare il peso, ma non sembrano curarsene. In un’altra ala del San Filippo Neri, due pazienti positivi al covid-19 sono in rianimazione e altri nove sono sotto osservazione.
Quand’è nato Mattia, le famiglie di Sheira e del suo compagno si erano ammassate in ospedale, famiglie numerose, quasi clan: c’è voluto il virus per tenerle ferme a casa. Adesso Sheira è da sola. La stanza che divide con Giulia è il luogo in cui due creature che hanno diviso lo stesso corpo per nove mesi possono ora scindersi e fare amicizia. Intanto, le ostetriche sono al lavoro per preparare la prossima nascita, la ginecologa entra a parlare con Sheira con un sorriso gentile, e in mezzo a tutte queste donne finalmente s’intravede il mondo che verrà. ◆
Questo articolo è uscito il 15 maggio 2020 sul numero 1358 di Internazionale con il titolo “24 ore in Italia”.
È stato scritto da: Giovanni Ansaldo, Edoardo Bucci, Annalisa Camilli, Giorgio Cappozzo, Daniele Cassandro, Pasquale Cavorsi, Gabriele Crescente, Ida Dominijanni, Francesco Erbani, Alice Facchini, Marina Forti, Anna Franchin, Claudio Giunta, Francesca Gnetti, Isaia Invernizzi, Stefano Liberti, Alessandro Lubello, Alessio Marchionna, Stefania Mascetti, Angelo Mastrandrea, Luigi Mastrodonato, Giorgia Mecca, Monia Melis, Andrea Pipino, Pablo Pistolesi, Nicolò Porcelluzzi, Claudio Reale, Giuseppe Rizzo, Riccardo Rosa, Francesca Sibani, Junko Terao, Nadia Terranova, Marco Zappa, Giulia Zoli.
Le foto e i video sono di: Ciro Battiloro, Lucia Buricelli, Matteo de Mayda, Antonio Di Cecco, Roselena Ramistella, Francesco Zizola.
Editor: Giuseppe Rizzo. Copy editor: Giulia Zoli. Photo editor: Rosy Santella. Editing video: Andrea Fiorito. Finalizzazione audio: Jonathan Zenti (Agave Audio Studio).
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