Le case di cura per anziani vanno cambiate
“C’era odore di morte”, racconta Stephanie (il nome è di fantasia) del suo primo giorno al Camilla care community, una casa di riposto a Mississauga, in Canada. Ad aprile era stata inviata assieme ad altri operatori nella struttura da 236 posti letto, mentre il covid-19 si diffondeva tra gli stretti corridoi e i reparti affollati. Decine di dipendenti si sono ammalati, alcuni hanno rifiutato di lavorare. A metà luglio quasi un terzo degli ospiti era morto. Fuori, su un appezzamento di prato, ci sono 69 piccole croci bianche a commemorarli.
Nel mondo ricco quasi la metà di tutti i decessi da covid-19 si sono verificati nelle case di riposo e nelle case di cura, anche se al loro interno ci vive meno dell’1 per cento della popolazione. In Canada l’80 per cento di tutti i decessi da covid-19 è avvenuto in posti come il Camilla. In Gran Bretagna si stima che l’agente patogeno abbia ucciso il cinque per cento di tutte le persone che vivono in queste strutture.
Il problema non è solo l’età degli ospiti, che li rende particolarmente vulnerabili, ma anche il modo in cui è organizzata la loro vita, che ha consentito al virus di diffondersi. Paesi con meno case di riposo hanno registrato meno decessi da covid-19 a parità di altre condizioni. Secondo uno studio di Neil Gandal e dei suoi colleghi dell’università di Tel Aviv, il numero di posti letto nelle case di riposo spiega il 28 per cento della variazione nei tassi di mortalità tra i paesi europei e il 16 per cento tra gli stati americani.
Ripensare l’assistenza
Ai politici viene chiesto con insistenza di destinare più fondi alla sicurezza delle case di riposo, alle ispezioni e al miglioramento degli standard di qualità. Nel breve periodo le case di riposo avranno bisogno di più dispositivi di protezione individuali (dpi) e di un accesso maggiore ai test. La crisi sanitaria però offre anche la possibilità di ripensare radicalmente l’assistenza. Secondo molti esperti, in futuro la grande maggioranza delle persone anziane dovrebbe essere assistita il più a lungo possibile a casa. Si tratta di una soluzione più economica in tutti i casi, tranne quelli più gravi. È anche quello che la maggioranza delle persone anziane vorrebbe.
Collocare queste persone in grandi strutture è esattamente il contrario di quello a cui danno più valore: l’autonomia e l’indipendenza. E per quelli che comunque ne hanno bisogno, le case di riposo dovrebbero essere trasformate. La maggioranza delle persone avrà bisogno di assistenza in vecchiaia. In alcuni paesi non potranno permetterselo. Il 70 per cento circa degli americani che arrivano a 65 anni alla fine avranno bisogno di aiuto per compiere almeno due attività quotidiane, come lavarsi o vestirsi; il 48 per cento riceverà un aiuto per il quale dovrà pagare; il 16 per cento sarà affetto da demenza. I rischi sono più alti per le donne.
Secondo uno studio del 2011, nel Regno Unito per una persona su dieci che supera i 65 anni il costo dell’assistenza negli anni che gli restano da vivere supererà le 100mila sterline (circa 109mila euro). E la richiesta di questo tipo di servizi è destinata ad aumentare. Nei paesi ricchi la quota di persone con più di 80 anni raddoppierà entro il 2050, quando per ogni persona con più di 65 anni ci saranno solo due persone in età da lavoro. Sebbene le vite delle persone si stiano allungando, il numero di anni in cui godono di buona salute non aumenta con altrettanta rapidità.
Un settore in difficoltà
In paesi come la Norvegia o la Svezia l’assistenza agli anziani è ottima, ma costa così tanto ai contribuenti che potrebbe non essere più sostenibile con l’invecchiamento delle rispettive popolazioni. In altri paesi, come il Regno Unito e gli Stati Uniti, l’assistenza pagata con i soldi dei contribuenti è destinata in ultima istanza ai più poveri e ammalati. Questo di solito si traduce in un letto in una casa di riposo. Queste istituzioni hanno generalmente ricevuto gran parte dei finanziamenti destinati dai governi all’assistenza agli anziani.
“Siamo sinceri”, dice David Gravowski della facoltà di medicina di Harvard. Anche prima della pandemia “nessuno voleva andare in una casa di riposo. Questa crisi non ha fatto che aggravarne una in corso già da tempo”. Il settore è a corto di personale. In molti paesi segue un binario separato da quello del sistema sanitario. Le case di riposo “durante l’epidemia di covid-19 erano il fanalino di coda per numero di test effettuati”, afferma Jos Schols dell’università di Maastricht.
In posti come Hong Kong e Taiwan, che avevano vissuto l’epidemia di Sars nel 2002-2003, le case di riposo avevano scorte di dispostitivi di protezione personale. In altri paesi erano scarsamente equipaggiate. Le persone che lavorano nelle case di riposo britanniche affermano che la pandemia ha confermato la loro “condizione da Cenerentola”. Avevano il doppio di possibilità di morire di covid-19 rispetto a chi lavorava in ospedale. “Tutti sono furiosi per quello che è successo, ma troppo esausti per fare qualcosa”, racconta uno di loro.
In tutto il mondo i dipendenti delle case di riposo lasciano il lavoro con grande facilità. In Germania quasi un terzo degli operatori che lavorano nelle strutture per lungodegenza lascia il lavoro dopo appena un anno. In Francia nel 2018 un quinto dei posti di lavoro nelle case di riposo era vuoto. Non c’è da stupirsi tenuto conto del fatto che questi operatori sono pagati in media il 35 per cento in meno di chi fa lo stesso lavoro negli ospedali. È quanto stimato dall’Ocse.
Essere assistiti da degli estranei è spiacevole per chiunque, ma è particolarmente problematico per persone affette da demenza. Queste persone rappresentano la parte più grande degli ospiti delle case di riposo, ma nella maggioranza dei casi non risiedono in strutture specializzate per la loro condizione. Durante il picco dell’epidemia a Londra più di un quarto degli operatori delle case di riposo per anziani non era in grado di lavorare o non voleva farlo. I funzionari hanno inviato operatori temporanei per sostituirli. Questo probabilmente ha contribuito a diffondere ancora di più il virus.
L’importanza della tecnologia
Molti governi spendono pochissimo nella lungodegenza. Nei paesi ricchi si va dallo 0,2 per cento del pil in Ungheria al 3,7 per cento in Olanda. Il Canada spende l’1,3 per cento del pil, meno della media dei paesi ricchi. Ha meno della metà del numero di operatori di case di riposo per ogni 100 abitanti rispetto alla Norvegia. In America e nel Regno Unito un unico, frugale monopolio (Medicaid o le autorità locali) di solito rimborsa meno del costo dell’assistenza residenziale.
Per coprire la differenza, le case di riposo americane si attivano per reclutare pazienti con Medicare, un programma generoso che copre i costi sanitari (ma non i costi per la lungodegenza) degli anziani. Di solito arrivano per degenze brevi, per recuperare dopo interventi come quelli di protesi all’anca, e si portano dietro rimborsi generosi. La pandemia però ha messo fine a tutto questo.
Adam Gordon dell’università di Nottingham osserva che, oltre a svelare modelli di business fragili, la pandemia ha messo in evidenza la tensione tra la necessità di garantire agli anziani da un lato la sicurezza e dall’altro il benessere e la felicità. Le autorità di controllo chiedono alle case di riposo di concentrarsi su indicatori implacabilmente negativi, come le cadute, le piaghe da decubito e la perdita di peso. Ma la qualità della vita va ben oltre il non inciampare. Anne Tumlinson, esperta di anziani, vorrebbe che le case di riposo fossero meno orientate alla “custodia” e più predisposte a “rendere le persone felici”.
In un sistema migliore dovrebbe essere più facile per le persone invecchiare a casa. La tecnologia potrebbe essere d’aiuto. La necessità di trasferire una persona in una casa di riposo spesso nasce da preoccupazioni relative alla sua sicurezza. Le persone che si prendono cura di chi è anziano iniziano a osservare lividi ed escoriazioni inspiegate. Le domande sulle bruciature di sigaretta sul piumino non trovano risposta. Le pillole non vengono assunte. Il latte è sempre finito.
Ora, immaginate una casa in cui ci sono sensori che tengono d’occhio tutte queste cose. Individuano cambiamenti nell’andatura, nell’appetito o nell’attività con un anticipo sufficiente a prevenire una caduta, la disidratazione o la depressione. Un erogatore di pillole intelligente può essere d’aiuto con i farmaci. Un robot di compagnia può offrire rassicurazioni, informazioni, allenamento cerebrale e compagnia. Alcuni dei più recenti e convincenti sviluppi scientifici e tecnologici hanno l’obiettivo di aiutare le persone affette da demenza. Un prodotto della startup americana Elovee consente loro di condurre conversazioni semplici con un avatar progettato per avere l’aspetto e parlare come uno dei loro parenti. L’idea è quella di offrire sicurezza nei momenti di ansia o di noia che si verificano quando non hanno attorno i loro cari.
La tecnologia “non sostituirà mai l’affettuosa attenzione di una persona di si prende cura di te”, afferma Wilco Achterberg dell’università di Leida. Ma grazie a dati processati in modo adeguato gli operatori assistenziali potrebbero essere impiegati in modo più efficace. Le videochiamate stanno consentendo a parenti, operatori assistenziali e medici di fare controlli più frequenti. Joan Gallimore, una novantunenne che vive da sola in Inghilterra, racconta che la possibilità di chiamare i suoi familiari usando un tablet datole dalla sua assistente domiciliare all’inizio del lockdown è stata per lei una rivelazione. Si è goduta le chiacchierate con le nipoti e le esibizioni del genero, che sta imparando a usare l’ukulele.
Altrettanto importante è migliorare le modalità convenzionali dell’assistenza domiciliare. Buurtzorg, un fornitore di assistenza infermieristica in Olanda, sostiene un modello sperimentato in venticinque paesi. Il suo segreto è semplice, afferma il suo fondatore Jos de Blok: consentire agli infermieri di svolgere il loro lavoro. Vengono organizzati in piccole squadre a cui viene lasciata una grande autonomia nell’assistenza in un determinato quartiere. Eliminando tutta la burocrazia, questo modello consente agli infermieri di passare più tempo a fornire effettivamente aiuto. Poiché lo staff è formato interamente da infermieri qualificati, i loro stipendi sono più alti rispetto a quelli dei tradizionali operatori socio-assistenziali. Tuttavia, grazie a una formazione migliore, questi operatori possono fare le stesse cose trascorrendo meno di un terzo del tempo con ciascun paziente.
I servizi di assistenza diurna
Per alcune persone, soprattutto quelle molto sole o quelle affette da demenza, le visite domiciliari non bastano. I centri di assistenza diurna possono essere utili. In alcuni di questi centri in Svizzera gli operatori passano a prendere le persone a casa loro, le aiutano a vestirsi le riportano a casa a fine giornata. In Svezia l’assistenza diurna per gli anziani è offerta dallo stato, più o meno come avviene per l’assistenza all’infanzia. In Cile il settore dell’assistenza formale è molto ristretto, ma il governo ha deciso di puntare sull’assistenza diurna agli anziani.
I servizi di assistenza diurna possono migliorare la salute mentale e fisica degli anziani. Offrono inoltre consigli e riposo ai loro familiari. Nei paesi ricchi più di una persona su otto di età superiore a 50 anni fornisce assistenza a un’altra persona almeno una volta a settimana. Far sì che non si affatichino è fondamentale per aiutare le persone a invecchiare a casa propria. Offrendo più aiuto a queste persone si riduce inoltre il rischio di un deterioramento della loro stessa salute e le probabilità che debbano lasciare il lavoro.
In America il 48 per cento delle persone che assistono adulti più anziani si occupa di persone affette da demenza (un quarto di queste persone deve occuparsi anche di almeno un figlio di età inferiore a 18 anni). Tra le persone che avevano un lavoro, il 18 per cento è passato da un lavoro a tempo pieno a uno a tempo parziale quando ha dovuto iniziare a prestare assistenza. Il 16 per cento ha preso periodi di congedo e il 9 per cento ha lasciato il lavoro.
Alcuni anziani dovranno lasciare case non adatte. Tuttavia, anche in quel caso per la maggior parte di loro non sarebbe necessario il trasferimento in una struttura. La Danimarca è il paese che offre più alternative. Il suo governo spende più nell’assistenza non residenziale che in quella residenziale. Tra le opzioni a disposizione dei danesi anziani ci sono le comunità e gli appartamenti per pensionati costruiti vicini ma non all’interno delle case di riposo.
In altri posti le autorità stanno cercando di rendere più facile per le famiglie costruire delle dépendance in cui possono far trasferire i parenti più anziani. Gli studenti e altri giovani nei Paesi Bassi sono incoraggiati a condividere cortili e condomini con persone anziane che non fanno parte della loro famiglia, a volte in cambio di un affitto più basso. L’idea è che possano offrire compagnia e in alcuni casi anche aiuto.
Secondo Daan Livestro, consulente della Gupta strategists, tra il 25 e il 60 per cento dell’assistenza offerta agli anziani nelle strutture olandesi potrebbe essere fornita a casa. Anche in Canada, secondo una recente ricerca, il 40 per cento dei residenti nelle case di riposo potrebbe andare a casa se ricevesse un supporto adeguato. Una ricerca condotta nel 2014 in Alabama ha rilevato come persone che vivono a casa loro se la passassero molto meglio di persone con necessità simili residenti in case di riposo. Tuttavia il gruppo che riceve assistenza domiciliare ha fatto risparmiare 4.500 dollari (circa 3.860 euro) all’anno. “Svuotare le case di riposo” è sempre più un’opportunità, afferma Zayna Khayat di Se health, un fornitore di servizi di assistenza canadese.
Ci saranno sempre persone che vorranno andare in una casa di riposo o che avranno bisogno di farlo. In questi casi vale il principio “più piccolo è, meglio è”, afferma il dottor Grabowski. La ricerca dimostra che nelle case di riposo più piccole si fa meno ricorso a misure di contenimento, ci sono meno infezioni e gli ospiti sono più soddisfatti rispetto a quelle più grandi. Le istituzioni piccole promuovono amicizie più strette tra i residenti e legami più stretti con lo staff.
A Tupelo, in Mississippi, i residenti della Green house si svegliano con il profumo di bacon, cannella e caffè appena fatto. Il profumo costante di alimenti cotti al forno nella cucina aperta è voluto; la diminuzione di appetito può diventare un problema in vecchiaia. “Ho visto persone arrivate da case di riposo tradizionali ricominciare a mangiare, a camminare e a parlare”, afferma Steve McAlilly, uno dei fondatori. Alla Green house ci sono dieci case, ciascuna con 10-12 coinquilini. Non ci sono pavimenti di vinile, cene sui carrelli o tombolate.
“A casa avete attività pianificate?”, chiede McAlilly. “Se non ce ne sono a casa, non ce ne sono nemmeno alla Green house”. Bill Thomas, un geriatra americano che ha fondato nel 2003 il movimento Green house, si definisce un “abolizionista delle case di riposo” e dichiara di essere guidato da due princìpi: “È meglio vivere in una casa piuttosto che in un magazzino” e “Le persone dovrebbero avere il controllo delle loro vite”. Oggi ci sono case di riposo che seguono il modello Green house in più di trenta stati americani.
Hogeweyk, in Olanda, viene a volte definito un “villaggio per la demenza”. Ospita 169 persone che vivono in case da sei camere da letto. Tutte sono affette da demenza in uno stadio avanzato. Sono libere di andarsene in giro in un campus in cui c’è una strada con un pub, un parrucchiere e un supermercato. I residenti possono anche portarsi i mobili e gli animali domestici. Danno una mano nelle faccende domestiche. Ci sono venticinque club sociali dove vengono organizzate attività. “Quasi nessuno vuole limitarsi a ricevere cure in modo passivo”, afferma il fondatore Eloy van Hal. Vent’anni fa, quando ha raso al suolo la tradizionale casa di riposo che sorgeva su quello stesso sito, lo avevano avvertito del fatto che “le persone sarebbero cadute”. I residenti invece sono diventati più sani e allegri. “Corriamo decisamente troppo pochi rischi nella vita”, dice.
La tecnologia potrebbe migliorare l’assistenza nelle case di riposo, oltre a ridurre il numero di persone che ne hanno davvero bisogno. In Norvegia e in Olanda, grazie a sensori posizionati nelle case di riposo il numero di ricoveri in ospedale si è ridotto. La telemedicina sta avendo lo stesso effetto in Estonia e in Israele.
Nell’area meridionale di Tokyo, in una scialba sala conferenze al decimo piano di una torre di uffici, un robot scivola verso i visitatori annunciando: “Il cibo che ha ordinato è arrivato”. Il Future care lab è stato realizzato dalla Sompo, una delle principali compagnie di assicurazione del Giappone che ha condotto esperimenti con dispositivi finalizzati al risparmio della manodopera come una vasca che si pulisce da sola e una sedia a rotelle che si trasforma in letto.
Ha anche inventato un cuscinetto che, se posizionato sotto un materasso, monitora il respiro, il ritmo cardiaco e la qualità del sonno. Una casa di riposo che lo ha sperimentato l’anno scorso ha dichiarato che il dispositivo ha ridotto la quantità di tempo che gli operatori trascorrono a “pattugliare” le 54 stanze da sette ore al giorno a 20 minuti. Gli ospiti dormivano meglio perché gli operatori non li svegliavano più di continuo.
Migliorare l’assistenza sarà costoso. Ma accontentarsi di una cattiva assistenza non farà che aumentare i costi in futuro. Una ricerca negli Stati Uniti mette in relazione un taglio del 10 per cento nei rimborsi di Medicaid con un peggioramento del 10 per cento delle capacità delle persone anziane di fare cose come camminare o fare un bagno e a un aumento del 5 per cento di dolori persistenti. Ogni mese il sistema sanitario britannico perde circa 83mila giorni in ospedale a causa dei “letti bloccati”, quando pazienti anziani che non sono più abbastanza ammalati da restare in ospedale ci restano comunque perché fuori non hanno la possibilità di ricevere un’assistenza adeguata.
I governi potrebbero usare meglio i fondi per l’assistenza personale, somme di denaro destinate a persone che hanno bisogno di aiuto. I destinatari possono decidere da soli come spendere i soldi. In questo modo chi fornisce assistenza può inventarsi servizi ancora più personalizzati per abbassare i costi. Altrettanto prioritario è formare e reclutare gli operatori e cercare di convincerli a non lasciare il lavoro. Secondo l’Ocse il numero di operatori nei paesi ricchi dovrà aumentare del 60 per cento entro il 2040 soltanto per mantenere l’attuale proporzione di operatori per persona. Gli investimenti nella tecnologia e un uso più efficiente di operatori qualificati potrebbe nella migliore delle ipotesi colmare la metà di questo fabbisogno.
Gli esperti sono speranzosi. “Predico queste cose da decenni e nessuno mi ha mai voluto dare ascolto. Poi è arrivato il covid-19 e da allora il mio telefono non smette di squillare”, afferma Tumlinson. La pandemia sta convincendo un numero crescente di persone che “il ricovero di massa di persone anziane in strutture non è un’idea tanto buona”, riflette Thomas del Green house project. L’assistenza sociale non ha mai ricevuto tanta attenzione, concorda José Luis Fernández della London school of economics. Tuttavia il suo timore è che i governi “avranno difficoltà a impegnarsi in un momento in cui le finanze pubbliche sono sottoposte a fortissime pressioni”. Il passato è pieno di promesse non mantenute.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)