I poveri devono possedere le terre su cui abitano
Vent’anni fa un economista peruviano ha fatto un’osservazione dirompente. Gli abitanti dei paesi poveri non sono poveri come sembrano. Possiedono dei beni, e anche molti. Ma non possono dimostrare di possederli, e quindi non possono usarli come garanzia.
Hernando de Soto aveva stimato nel 2000 che il valore totale dei terreni, delle case, e di altri beni fissi posseduti in maniera informale si aggirava intorno alla strabiliante cifra di 9,3 trilioni di dollari (13,5 miliardi di dollari attuali). Questa cifra era di oltre venti volte superiore al totale degli investimenti esteri diretti verso i paesi in via di sviluppo nel precedente decennio.
Se i piccoli agricoltori e gli abitanti delle baraccopoli possedessero un titolo di proprietà legale e chiaro, potrebbero prendere in prestito denaro più facilmente, il che gli permetterebbe di acquistare semi di migliore qualità o di avviare delle attività. Potrebbero investire nei loro terreni – irrigandoli o avviando un negozio – senza paura che qualcuno possa un giorno portarglieli via. La sua idea era che i diritti di proprietà renderebbero i poveri più ricchi.
Ancora indietro
Dall’uscita del suo libro, Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in occidente e ha fallito nel resto del mondo, le sue idee si sono diffuse. Indonesia, Thailandia e Vietnam hanno portato avanti imponenti progetti di attribuzione di titoli di proprietà, mappando e registrando milioni di porzioni di terreno. L’India vuole usare i droni per mappare i suoi villaggi. L’Etiopia ha registrato milioni di appezzamenti. Il Ruanda ha mappato e attribuito la proprietà di tutto il suo territorio, suddividendolo in appezzamenti da sette dollari l’uno, grazie a economici sistemi di fotografia aerea. Gli studi suggeriscono che l’attribuzione di proprietà ha rafforzato la produttività agricola, soprattutto in Asia e America Latina. L’obiettivo della Banca mondiale è che il 70 per cento delle persone possieda dei diritti di proprietà sicuri entro il 2030.
In più di trenta paesi, figlie e vedove non hanno gli stessi diritti d’eredità dei terreni di cui godono figli e vedovi maschi
È tuttavia improbabile che questo accada. Nonostante tutti questi sforzi, solo il 30 per cento degli abitanti del mondo possiede oggi dei titoli di proprietà formali. Nell’Africa rurale subsahariana lo ha solo il 10 per cento. Appena il 22 per cento dei paesi, e solo il 4 per cento di quelli africani, ha mappato e registrato i terreni privati nelle capitali. L’Onu sostiene che con la distruzione di posti di lavoro determinata dal covid-19 c’è stata un’impennata globale di sfratti e demolizioni di case. Secondo un altro studio circa un miliardo di persone, quasi un adulto su cinque, teme di essere sfrattato entro cinque anni, spesso perché non possiede formalmente la terra su cui sorge la sua abitazione. Quasi la metà delle donne nell’Africa subsahariana teme che, in caso di divorzio o morte del marito, potrebbe perdere i suoi terreni o il tetto sotto il quale dorme.
Lentezze burocratiche
Come aveva avvertito De Soto, non è facile creare un sistema di diritti di proprietà sicuri. Attribuire semplicemente un titolo a chi detiene delle proprietà non basta. Un documento legale serve a poco se il suo proprietario non può facilmente farlo valere. Anche in Ruanda, cinque anni dopo che si era esaurita la spinta a dare a tutti dei certificati di proprietà, l’87 per cento delle vendite di appezzamenti di terreno rurale continuava ad avvenire in maniera informale. Altri paesi hanno assistito a simili fallimenti. Troppo spesso mancano le istituzioni necessarie a far valere i diritti di proprietà in maniera regolare, imparziale e trasparente.
In molti paesi queste transazioni sono dolorosamente lente. Per registrare una proprietà servono in media 108 giorni in Asia meridionale e 64 in America Latina, rispetto a 24 giorni nei paesi dell’Ocse. In India due terzi delle cause civili riguardano dispute fondiarie, che in media sono risolte in vent’anni. E la tecnologia non può aiutare più di tanto.
Altre leggi spesso minano i diritti di proprietà. In più di trenta paesi, figlie e vedove non hanno gli stessi diritti d’eredità dei terreni di cui godono figli e vedovi maschi. In decine di altri, per le donne è difficile possedere terreni a causa del diritto consuetudinario, non scritto ma applicato rigidamente in molti villaggi. Le leggi forestali e sulle estrazioni in certi casi scavalcano quelle fondiarie, come in Mozambico. In Etiopia la registrazione di milioni di appezzamenti di terreno, negli anni duemila, è stata in parte vanificata dalle limitazioni al loro uso come garanzia.
Leggi restrittive sulla pianificazione urbana peggiorano le cose. In Asia meridionale, dove 130 milioni di persone vivono negli slum (le baraccopoli), le disposizioni sui piani regolatori e l’accumulo di terreni da parte del governo rendono l’acquisto di proprietà formali più difficile e costoso. E laddove un titolo di proprietà non è sicuro, diminuiscono le possibilità di edificare sul terreno in questione. Le persone sono così spinte verso slum fatti di edifici bassi e lontani dal centro: l’espansione urbana che ne deriva fa sì che le città dell’Asia meridionale crescano in superficie due volte più velocemente di quanto crescano in popolazione. Nell’Africa anglofona alcune leggi di pianificazione urbana s’ispirano a leggi d’età coloniale, concepite per le spaziose periferie inglesi. A Dar es Salaam, in Tanzania, l’appezzamento di terreno minimo per costruire un’abitazione è di quattrocento metri quadri. Le abitazioni di uno slum sono grandi forse un quarantesimo di una tale superficie.
La terra è una questione emotiva, soprattutto laddove la memoria dell’espropriazione coloniale è ancora viva
Uno dei motivi che rendono difficile una riforma è che i politici spesso hanno grandi incentivi a opporsi. In buona parte dei paesi sviluppati il potere di attribuire terreni – o di decidere chi possa farlo – è estremamente redditizio. I politici sono spesso i peggiori accaparratori di terreni, e lo fanno per arricchire sé stessi e ricompensare i loro sostenitori. Diritti di proprietà più forti per i cittadini comuni renderebbe più difficile una simile spoliazione.
I partiti al potere spesso si alleano con i leader rurali tradizionali per impedire il cambiamento. In tutto il mondo tra i 2,5 e i tre miliardi di persone vivono su circa sei miliardi di ettari di terreni pubblici (l’equivalente della somma di tre Russie e un Brasile). In Africa lo fa più del 50 per cento delle persone. Dal 1990, 39 dei 54 paesi africani hanno approvato leggi fondiarie che attribuiscono maggiori diritti di proprietà alle persone che vivono sui terreni pubblici. Eppure in alcuni paesi, come Malawi e Zambia, i capi (tradizionali, locali, rurali) hanno bloccato le riforme. In altri casi degli accordi specifici tra profittatori urbani e rurali sottraggono ai poveri il diritto alle loro stesse terre. Questo problema è particolarmente grave nelle ex homeland sudafricane, dov’erano confinati molti neri durante l’apartheid, e dove vive ancora un terzo dei sudafricani, beneficiando di minimi diritti alla proprietà.
Alcuni leggi spesso presentano dei buchi sfruttati dalle élite. Regole che permettono l’espropriazione per ragioni di pubblico interesse, per esempio, sono sfruttate per trasferire terreni ai propri sodali. Uno studio dedicato alle leggi in vigore nei paesi africani e asiatici ha dimostrato che, in caso di espropri da parte dello stato, solo la metà delle persone vittime richiede poi un risarcimento. Alcuni governi semplicemente ignorano la legge. Funzionari di Brasile, Colombia e Kenya hanno cacciato alcuni abitanti dalle loro abitazioni negli slum o spianato con bulldozer i terreni ancestrali di popolazioni rurali. In Niger, Indonesia e nelle Filippine gli attivisti per il diritto alla terra sono stati incarcerati o hanno subìto intimidazioni. I diritti di proprietà non possono funzionare se la legge non vale per tutti.
La terra è una questione emotiva, soprattutto laddove la memoria dell’espropriazione coloniale è ancora viva. In alcune parti dell’Africa meridionale, quando nasce un bambino, il cordone ombelicale viene seppellito nel terreno. L’introduzione di diritti di proprietà moderni e che possano essere fatti valere per legge sarà sempre una questione politicamente insidiosa. Ciononostante, i riformatori devono portare avanti il lungo e gravoso compito di registrare chi possiede cosa, cementando i diritti alla proprietà individuale nella giurisprudenza, e creando istituzioni che li facciano rispettare. Come ha affermato De Soto, il capitalismo dovrebbe essere per molti, non solo per pochi.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.