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Da trent’anni il Somaliland va avanti nonostante tutto

Un Mig russo usato come monumento ad Hargeisa, Somaliland, maggio 2016. (Mohamed Abdiwahab, Afp)

Il 1 luglio 1960, cinque giorni dopo aver rotto i legami coloniali con il Regno Unito, il Somaliland britannico si unì alla Somalia italiana per formare uno stato unitario. Non fu una mossa felice. Sotto la dittatura di Siad Barre, che andò al potere nel 1969, gli abitanti del Somaliland furono emarginati e massacrati. Il 18 maggio 1991, cinque mesi dopo la caduta di Barre, la regione proclamò l’indipendenza. Fu una dichiarazione di intenti, e di rimpianti. Gli esiliati tornarono a casa per ricostruire il loro paese. “Hargeisa era in macerie”, ricorda Suad Ibrahim Abdi, un’attivista per i diritti delle donne. “Non c’erano palazzi né acqua corrente”.

Quello che è successo dopo è la storia della fondazione del Somaliland. Nel corso di discussioni sotto gli alberi o sotto le stelle del deserto, i rappresentanti dei clan di questo territorio si accordarono su un sistema di condivisione del potere. Da allora le elezioni presidenziali si sono svolte con regolarità. Il paese è povero ma, senza ricevere aiuti, è riuscito a svilupparsi. Hargeisa non è la più bella delle capitali, ma ci si può trovare un ottimo frullato di latte di cammello. Tutto questo contrasta con il caos della Somalia, dove le potenze straniere hanno speso molti soldi e hanno inviato armi.

Nel maggio del 2021 gli abitanti del Somaliland festeggiano trent’anni di pace. Il paese, che ha una popolazione di 4,5 milioni di persone, si sta facendo sempre più amici all’estero. La sua sovranità però continua a non essere riconosciuta. Quando se ne parla, l’occidente scarica il problema sui paesi africani, che a loro volta lo scaricano sulla Somalia, che è assolutamente contraria a rinunciare alla sua sovranità. “La grande domanda”, dice Abdi, “è ‘bene, abbiamo fatto progressi, ma come andiamo avanti?’”.

La città di Berbera, sul golfo di Aden, può essere una risposta. “È la nostra speranza”, spiega Khalifa Ibrahim, consigliere del sindaco, alludendo al porto cittadino, che nel 2018, dopo un ampliamento, è stato inaugurato dall’azienda emiratina Dubai ports world (Dpw).

Il Somaliland spera che l’investimento da 442 milioni di dollari (il più consistente che abbia mai attirato nella sua storia) dell’azienda di Dubai faccia da catalizzatore per la sua economia. Le tariffe portuali e le tasse doganali rappresentano già il 70-80 per cento delle entrate pubbliche. Insieme alla nuova struttura saranno creati una zona di libero scambio, un aeroporto, alberghi, un terminal petrolifero e un parcheggio per mille tir. Il valore dei terreni è decuplicato.

Le autorità locali ritengono che il porto possa portare anche dei vantaggi politici. “Ha promosso la nostra posizione nella regione”, dice il sindaco di Berbera, Abdishakur Mohamoud Hassan. L’Etiopia del primo ministro Abiy Ahmed si vuole avvicinare alla Somalia, perché non avendo sbocchi sul mare dipende da Gibuti per le sue importazioni. Il nuovo porto di Berbera, di cui l’Etiopia detiene il 19 per cento delle quote, rappresenta un’altra opzione.

Questi progressi diplomatici indicano quanta strada abbia compiuto il Somaliland in trent’anni

Anche per gli Emirati Arabi Uniti, Berbera è un avamposto alternativo da cui espandere la propria influenza nella regione. Dopo una lunga disputa, nel 2018 Gibuti ha ritirato alla Dpw la concessione a operare nel suo porto. E visto che il governo somalo è alleato di Turchia e Qatar, che sono rivali degli Emirati, a marzo la federazione emiratina è diventata il primo paese arabo ad aprire una rappresentanza diplomatica permanente ad Hargeisa.

Anche altri paesi hanno una presenza diplomatica in Somaliland. Il Kenya ha annunciato di voler aprire un consolato ad Hargeisa. Ad agosto Taiwan ha aperto il suo ufficio per l’Africa orientale e ha promesso aiuti a un paese che considera amico perché altrettanto minacciato nella sua sovranità. La Cina ha cercato di impedirlo, ma il Somaliland ha detto di non sostenere la politica di Pechino secondo cui esiste una sola Cina e Taiwan ne fa parte. “Il Somaliland ha mostrato carattere”, afferma Allen Chenhwa Lou, rappresentante taiwanese nella regione.

Un modello politico in crisi
Questi progressi diplomatici indicano quanta strada abbia compiuto il Somaliland in trent’anni. Alcuni, però, si chiedono se il sistema politico basato sui clan sia ancora in grado di garantire la stabilità. “Gli abitanti del Somaliland dicono di essere un modello per il resto del continente”, afferma Guleid Jama del Human rights centre, un’ong locale. “Ma secondo me non è più così”.

La costituzione approvata nel 2001 avrebbe dovuto allentare la presa dei clan sulla politica. Limita a tre il numero dei partiti politici e incoraggia la formazione di coalizioni. La maggioranza degli elettori però continua a votare in base al clan.

È un sistema che “ci impoverisce”, sostiene Mohamed Fadal del Social research & development institute, un centro studi locale. I posti di lavoro e i contratti sono ancora distribuiti in base all’appartenenza clanica, e non per merito. “Non si può lasciare fuori un clan” è il principio fondante della politica del Somaliland, spiega Mohamed Farah dell’Academy for peace and development, un altro think tank. Potrà anche essere un modello migliore rispetto a quello di altri paesi, dove l’etnia che conquista la maggioranza ha tutto il potere, ma secondo molti cittadini ostacola lo sviluppo di una vera democrazia.

Le istituzioni alle quali il governo dovrebbe rispondere sono deboli. Il potere giudiziario si piega a quello esecutivo e di rado persegue la corruzione. Il parlamento approva le leggi in automatico, senza discuterle. Il 31 maggio in Somaliland si terranno le prime elezioni legislative in sedici anni. I mezzi d’informazione potrebbero essere molto più liberi. I giornalisti stranieri sono trattati con garbo e gentilezza, ma quelli locali finiscono in arresto se pestano i piedi alla persona sbagliata. Nel 2020 un tribunale ha ordinato la deportazione in Somalia di Bilal Bulshawi, star locale dei social network per aver pubblicato un video in cui beveva tè da una tazza con l’immagine della bandiera somala.

Disoccupazione e disuguaglianze
Nel cortile del centro culturale di Hargeisa alcuni ragazzi ballano e realizzano video musicali. Jama Musse Jama, il direttore del centro, li indica dalla finestra del suo ufficio, sottolineando che il 70 per cento della popolazione ha meno di trent’anni. “La pace non basta per questi giovani”, dice. “Hanno bisogno di avere un lavoro e delle opportunità”. Si stima che il 75 per cento dei giovani sia disoccupato.

Anche le donne sono trascurate. Sucaad Odowa ha vissuto ventiquattro anni a Londra prima di tornare ad Hargeisa. “Ma non avevo fatto i conti con la situazione qui”, racconta, ricordando che le donne non hanno il diritto di divorziare e hanno bisogno del consenso di un parente maschio per sottoporsi a un parto cesareo. La disuguaglianza di genere l’ha convinta a candidarsi in parlamento, senza il consenso degli anziani del suo clan. Nella camera bassa, composta da 82 deputati, c’è una sola donna.

L’islam è un’altra forza conservatrice. L’anno scorso un torneo femminile di calcio è stato annullato perché a quanto pare violava la sharia. Nella città di Burao un “comitato di prevenzione del vizio” ha fatto chiudere le attività di alcune imprenditrici.

Qualcuno ammette in privato che la mancanza di riconoscimento internazionale è una scusa utile a giustificare le difficoltà e le carenze. Tuttavia, è vero che lo status attuale impedisce al governo di ricevere aiuti e prestiti, e rende più complicato esportare per le aziende locali. Viaggiare con un passaporto del Somaliland, non riconosciuto da molti paesi, può essere un incubo.

Presto gli anni dell’indipendenza del Somaliland supereranno quelli trascorsi all’interno della federazione somala. La gran parte dei suoi abitanti è nata dopo la proclamazione dell’indipendenza, e vuole che sia il paese a scrivere la sua storia, anche se non è sempre favolosa.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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