La gestione del covid-19 nelle prigioni europee
Vangelis Stathopoulos, detenuto nella prigione greca di Larissa, fa parte di più di mezzo milione di persone incarcerate in Europa durante la pandemia di covid-19. Come tante altre carceri, quello di Larissa è un terreno fertile per la diffusione del virus: sovraffollato e con spazi ristretti e insalubri.
“Ho avuto il covid lo scorso dicembre. Circa metà dei detenuti era malata allo stesso momento”, dice Stathopoulos. “Siamo stati spostati in un’ala del carcere con altre 60 persone, in uno spazio di circa 110 m². Non sapevamo quanto si sarebbe aggravato il nostro stato di salute”.
Durante la pandemia, ci siamo abituati a essere meticolosamente aggiornati sul covid-19 e abbiamo sorvegliato gli ambienti in cui c’è un più alto rischio di sviluppo di focolai, come per esempio le case di cura. Al contrario, invece, sono pochi i dati pubblici sulla diffusione del virus nei penitenziari.
L’European data journalism network (Edjnet), attraverso la collaborazione di undici redazioni giornalistiche coordinate dalla Deutsche Welle, ha raccolto dati in 32 paesi che rivelano quanti casi e quanti decessi sono stati riportati nelle carceri, come sono stati gestiti i piani vaccinali, e quali misure sono state prese per frenare la diffusione del virus.
Dal carcere alla comunità e ritorno
“Molte carceri sono sovraffollate e senza la possibilità di applicare le misure di distanziamento sociale”, dice Filipa Alves da Costa, una consulente sanitaria del programma Health in prisons dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). “Quindi, quando il virus entra, si trasmette molto più facilmente”.
Da Costa afferma che il rischio nelle carceri è simile a quello corso dalle persone che vivono in strutture residenziali, come le case di cura e i centri di accoglienza. I numerosi detenuti affetti da hiv, tabagisti, o consumatori di altre droghe hanno un alto rischio di contrarre il covid-19. Secondo l’Oms, l’emarginazione, la povertà e il difficile accesso alle cure sanitarie sono problemi che spesso colpiscono queste persone ben prima dell’incarcerazione; le condizioni trovate in carcere non fanno altro che peggiorare la situazione. “Consideriamo addirittura già anziani i detenuti di 50 anni, una cosa che non succederebbe al di fuori del carcere”, dice da Costa.
Nei penitenziari, la diffusione della pandemia non colpisce solo i detenuti e il personale, ma anche la comunità circostante. “Non è un ambiente del tutto isolato”, spiega da Costa. “Le persone entrano ed escono da qui ogni giorno. Non solo il personale, ma anche i fornitori, gli avvocati e i detenuti stessi. Di conseguenza, se non si proteggono le carceri, non si protegge la comunità”.
L’Università di Losanna ha effettuato la più recente rilevazione di dati su scala europea grazie alla quale ha riportato il numero di casi di covid-19 nelle carceri fino al settembre 2020. Da allora è trascorso più di un anno in cui ci sono state più di due ondate, nuove varianti e una campagna vaccinale globale.
Negli Stati Uniti, dove nel 2020 il virus si è rapidamente diffuso, diversi studi hanno rivelato come le epidemie nelle carceri si diffondano nella popolazione circostante. Uno studio su scala nazionale ha dimostrato che i casi di covid-19 aumentano più rapidamente nelle regioni dove c’è un maggior numero di persone detenute; lo studio, inoltre, collega l’incarcerazione di massa a più di mezzo milione di casi aggiuntivi di covid-19, dentro e fuori i penitenziari.
Il lockdown come prima risposta
Uno studio condotto da alcuni ricercatori di Barcellona ha rivelato che la maggior parte dei paesi ha applicato il lockdown nelle carceri all’inizio della pandemia. Le visite sono state immediatamente interrotte o severamente limitate quasi ovunque. In molte carceri, anche lo sport, le attività ricreative e lavorative sono state sospese così come i congedi penitenziari. “Perfino le nostre lettere erano in quarantena”, ricorda Casaba Vass, detenuto in Ungheria. Paesi come la Germania, il Belgio e l’Ungheria sottoponevano alla quarantena i nuovi arrivati e i detenuti che presentavano sintomi.
I dati raccolti per questa indagine mostrano che, a prima vista, queste misure sembrano aver contribuito a evitare il peggio. Le carceri, tutto sommato, non sono diventate focolai di covid; secondo i dati disponibili, in molti paesi il tasso di positività nelle carceri si avvicina a quello della popolazione generale.
Quando la percentuale dei contagi era alta nella popolazione generale, infatti, tendeva ad aumentare anche nelle carceri. Questo si è verificato, per esempio, in paesi come la Slovenia, l’Estonia e il Belgio, dove più di una persona su dieci è risultata positiva al tampone. In paesi come la Croazia e la Grecia, la percentuale di detenuti positivi è molto più alta rispetto alla popolazione generale. Tuttavia, secondo i dati più recenti, in molti paesi i casi segnalati nelle carceri sono rimasti sotto la percentuale della popolazione generale (anche in Ungheria e in Francia, dove le prigioni sono notoriamente sovraffollate).
Anche nei paesi con tassi di contagio più bassi, i penitenziari possono diventare grandi focolai. Di recente, nel carcere francese di Béziers che attualmente confina 638 persone in uno spazio costruito per 389, più di 50 persone sono risultate positive al tampone.
Numeri e sacrifici
Non sempre i numeri ufficiali raccontano tutta la storia. La maggior parte delle amministrazioni penitenziarie non raccoglie i dati sistematicamente, dice Adriano Martufi, ricercatore all’Università di Leiden sulle condizioni delle carceri in Europa. “A mio avviso c’è un problema di stime al ribasso”, afferma. Il carcere greco di Larissa, per esempio, ha segnalato solo 200 casi ufficiali fino al luglio 2021. Stathopoulos afferma di averne contati molti di più. “Solo tra il dicembre 2020 e oggi, penso di aver contato almeno 500 casi”, dice.
Questa stima al ribasso potrebbe non essere intenzionale ma rappresentare, invece, un problema di organizzazione. “I servizi sanitari nelle carceri sono a corto di personale e di materiale”, dice Martufi. “Non sono nemmeno sicuro che abbiano le capacità tecniche necessarie per raccogliere e gestire tali dati”.
Anche prendendo per buoni i numeri dei contagi, bisogna ricordare che le stesse restrizioni imposte per frenare la diffusione del coronavirus hanno ricadute importanti. “La tragedia che temevamo non si è verificata, ma ci sono stati enormi sacrifici per la popolazione carceraria: niente attività, insegnamento, o quel poco lavoro che c’è in prigione, e non solo”, dice Dominique Simonnot, la garante per i diritti delle persone private della libertà in Francia. “Al livello sociale, il prezzo è esorbitante”.
Negli ultimi 18 mesi, molte prigioni sono state isolate più del solito. In un carcere di Malta, già condannato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nel 2013 per le condizioni degradanti, i nuovi detenuti sono stati chiusi in una cella per 23 ore al giorno per due settimane, con un materasso appoggiato per terra e un bagno alla turca.
Le regole di Nelson Mandela adottate dall’Onu e le Regole minime per il trattamento dei detenuti affermano che l’isolamento dev’essere usato come ultima risorsa, per il più breve tempo possibile e mai per più di 15 giorni. Tuttavia, durante la pandemia l’isolamento dei detenuti è diventato una misura standard in molti paesi. In Irlanda, i detenuti dai 70 anni in su o affetti da malattie croniche sono stati automaticamente messi in isolamento tra aprile e giugno 2020 e in molti hanno riferito di aver sofferto di depressione e istinti suicidi. In alcune strutture in Germania, i detenuti in attesa di giudizio sono stati isolati per 14 giorni dopo ogni udienza.
In Francia, era obbligatoria una quarantena di due settimane dopo ogni congedo, visita familiare o trattamento medico eseguito in ambulatorio, dice Dominique Simonnot. “Di conseguenza, alcuni rifiutano questi spostamenti, con tutti i rischi che questo comporta per la loro salute”. Anche le persone non in quarantena erano spesso isolate nelle loro celle per gran parte della giornata.
Il divieto delle visite è stata una restrizione particolarmente difficile per i detenuti. “Le visite sono estremamente importanti”, dice Catherine Heard, direttrice del World prison research programme. “È difficile spiegare quanta differenza faccia per i detenuti avere la possibilità di rimanere in contatto con le loro famiglie”. Secondo la Corte europea dei diritti umani, i detenuti hanno il diritto di avere una vita familiare. Nell’ottobre 2020, nel carcere di Rec, in Albania, i detenuti hanno fatto uno sciopero della fame per protestare contro le sospensioni delle visite da quando è cominciata la pandemia. Dal marzo 2020 hanno potuto contattare le loro famiglie solo per telefono.
In Ungheria, dice Vass, “prima della pandemia avevamo due ore e mezza di contatto fisico due volte al mese: il divieto ha causato problemi molto seri alla nostra salute mentale”. Il carcere ha poi messo a disposizione le videochiamate per permettere almeno le visite virtuali. “Questo ha reso la situazione più sostenibile”, dice.
La maggior parte dei paesi ha introdotto la possibilità di visite virtuali, anche se le connessioni internet non sono all’altezza e le restrizioni imposte ai detenuti pongono ancora problemi. “In molti penitenziari europei c’è stato un grande passo avanti per sviluppare sistemi di videoconferenza”, dice Martufi. “Prima della pandemia tutto questo era assolutamente impensabile in molti paesi Ue. C’è stato uno sviluppo positivo”.
Martufi dice che il rischio di queste disposizioni è che le carceri potrebbero tentare di sostituire a lungo termine le visite in presenza con le videochiamate. “Secondo alcune segnalazioni che abbiamo ricevuto, alcune amministrazioni penitenziarie avrebbero detto: ‘Adesso che hai Skype, puoi vivere con quello, non hai più bisogno del permesso di incontrare la tua famiglia o i tuoi avvocati’”, dice Martufi. “Non sappiamo ancora quanto sia sistematico questo cambiamento, ma temiamo che le cose non cambieranno nemmeno quando la pandemia sarà finita”.
A parte le videochiamate, Catherine Heard non vede molti sforzi fatti per mitigare gli effetti delle restrizioni. “Non mi viene in mente nulla di veramente significativo che sia stato fatto”, dice. “Si è persa una grande opportunità, come per esempio fornire materiale di lettura, informazioni registrate o l’accesso a lezioni online. C’erano tante cose che potevano essere fatte, che dovevano essere fatte, ma non è stato così”. I Paesi Bassi sono stati uno dei paesi in grado di riavviare le attività nelle carceri in tempi relativamente brevi attraverso schemi a rotazione o gruppi più piccoli e fissi, dice Heard. Ma la maggior parte dei paesi non ha messo in atto tali misure.
I problemi strutturali hanno aggravato la situazione
Come in tanti altri settori della società, la situazione nelle carceri è stata aggravata da problemi strutturali già presenti molto prima della pandemia.”Nei penitenziari maggiormente sovraffollati, dove le misure di distanziamento sociale sono impossibili da attuare, sono state adottate restrizioni più severe e prolungate”, dice Heard. La mancanza di spazio rende impossibile applicare il distanziamento fisico, e le misure alternative sono ostacolate dalla mancanza di personale. “Se non c’è personale per spostare le persone, non si può fare altro che tenerle chiuse nelle loro celle per la maggior parte del giorno e della notte”, spiega.
Ricercatori, ong e detenuti sottolineano che il sovraffollamento è la chiave del problema. Un terzo dei paesi europei ha infatti una popolazione carceraria superiore a quanta ne può detenere il sistema penitenziario.
In tante singole prigioni, la situazione è peggiore della media del paese. “Mi trovo in una cella destinata a cinque persone: ora siamo in otto. È impossibile mantenere la distanza di sicurezza”, ha detto un detenuto in sciopero della fame a una testata croata all’inizio della pandemia nel marzo 2020.“Non possiamo vedere le nostre mogli e i nostri figli e, che Dio non voglia, forse alcuni di noi non li rivedranno mai più. Ci sentiamo come detenuti nel braccio della morte, in attesa che il coronavirus irrompa nella prigione”.
Durante la prima ondata, molti paesi europei hanno liberato un numero senza precedenti di detenuti per ridurre la pressione sulle carceri. “È quello che gli esperti dicono di fare da due anni, ma era politicamente troppo spaventoso”, dice Heard. “Penso che il covid abbia dato a diversi paesi una scusa per ridurre silenziosamente il loro numero di detenuti”.
Heard ha calcolato che tra il marzo 2020 e il giugno 2021 la popolazione carceraria sia stata ridotta di mezzo milione di persone. Paesi come la Slovenia, il Belgio, la Francia e l’Italia, le cui popolazioni carcerarie superavano le capacità del sistema penitenziario già in precedenza, hanno ridotto il numero di detenuti fino al 25 per cento, portandolo al livello o al di sotto della capacità ufficiale. “I paesi avranno imparato che si può ridurre il numero di detenuti senza che il cielo crolli”, dice Heard. Con la pandemia, la salute pubblica diventa una ragione per ridurre le popolazioni carcerarie ed è vitale che i paesi continuino a portare avanti questa tendenza.
Tuttavia, molti paesi sembrano invertire i progressi fatti dalla primavera 2020. Dopo un calo iniziale, la popolazione carceraria sta aumentando di nuovo in circa la metà dei paesi europei presi in considerazione, a volte superando anche le cifre iniziali. Il sovraffollamento è ritornato nelle carceri francesi e slovene, per esempio, e molte singole prigioni si trovano in situazioni ancora peggiori.
Vaccinazioni in ritardo
Con i problemi strutturali che aggravano una situazione già complicata, un “ritorno alla normalità” nelle carceri dipende dalle vaccinazioni, come nel resto della società.
“Quando è stato annunciato che ci sarebbe stato un vaccino, le persone si sono calmate”, dice Vass. “Per quanto ne so, quasi tutti i detenuti si sono vaccinati. Io ho ricevuto la prima dose a maggio, la seconda a giugno e, come molti, la terza a settembre”.
Non tutti hanno ricevuto la loro dose di vaccino e una delle ragioni di questo ritardo è che, nonostante l’alto rischio per i detenuti, per il personale e per la popolazione generale, la maggior parte dei paesi europei non ha incluso i detenuti nelle categorie prioritarie dei piani di vaccinazione. Molti di loro non li hanno nemmeno nominati.
In Germania, per esempio, è stata esplicitamente data la priorità alle persone che vivono in strutture residenziali come le case di cura, ma i detenuti sono stati comunque vaccinati contemporaneamente al resto della popolazione.
“Ci sono state indicazioni importanti da parte di organizzazioni sovranazionali indipendenti sul fatto che i detenuti dovrebbero avere la priorità”, dice Martufi. “È un buon esempio dell’assoluta discrepanza tra le indicazioni politiche da un lato e la realtà dall’altra”.
Molti attribuiscono questa situazione a una mancanza di volontà politica. In alcuni casi, dice Martufi, la politica ha addirittura ostacolato l’accesso anticipato al vaccino. “In Belgio, la priorità dei detenuti è diventata una questione politica”, afferma, “e, di conseguenza, i detenuti sono stati esclusi dalla campagna vaccinale fino alla fine”. In Italia, invece, la decisione di dare ai detenuti l’accesso prioritario ai vaccini è stata una decisione amministrativa, presa senza suscitare un grande dibattito pubblico.
Questo ha fatto sì che l’inizio delle vaccinazioni nelle carceri sia stato ritardato significativamente e che alcuni paesi non hanno somministrato nemmeno una dose prima di giugno, mentre altri hanno riferito di aver cominciato già a fine marzo.
Le vaccinazioni nelle carceri di diversi paesi hanno finalmente raggiunto i numeri dei vaccini somministrati nella popolazione generale e in estate la curva dei contagi si è abbassata. Questo ha permesso ai detenuti di ricevere visite e di riprendere le attività, sempre nel rispetto delle misure sanitarie.
Tuttavia, con l’inverno alle porte e la prossima ondata in arrivo nella maggior parte dei paesi europei, la pandemia non è finita per nessuno, e certamente non per i detenuti. “Non riavremo presto la nostra vecchia vita e i nostri privilegi”, dice Csaba Vass in Ungheria. In Italia, i dati settimanali mostrano un aumento dei casi positivi tra il personale e i detenuti. Inoltre, il ministro della giustizia croato ha recentemente confermato che più del 20 per cento dei detenuti ha avuto il coronavirus, circa 1,5 volte il tasso della popolazione in generale.
Lezioni per il futuro
Gli esperti affermano che i paesi devono ridurre drasticamente la loro popolazione carceraria per essere preparati a situazioni simili in futuro. “Non possiamo affrontare un’altra crisi sanitaria con un così alto numero di persone incarcerate in tutta Europa”, dice Martufi. “I numeri devono diminuire”.
Ma gli osservatori hanno anche motivi per essere ottimisti. “Il covid dovrebbe essere un campanello d’allarme per investire in un miglioramento delle condizioni detentive e per ridurre l’uso della misura carceraria”, dice Catherine Heard.
Perché quel campanello d’allarme sia ascoltato, l’interesse pubblico e la volontà politica sono fondamentali. “È ora di ripensare la nostra percezione dei detenuti come cittadini di seconda classe”, dice Martufi. “Non possiamo permettere che qualcuno sia lasciato indietro. È peggio per tutti”.
(Traduzione di Serena Puglia)
Questo articolo è stato curato da Milan Gagnon, Gianna-Carina Grün e Peter Hille. Il progetto è una collaborazione all’interno dell’European data journalism network. Capo progetto: Deutsche Welle. Collaboratori: Alternatives Economiques, Civio, El Confidencial, Eurologus, Il Sole24Ore, iMedd, Miir, Obc Transeuropa, Openpolis, Pod črto e VoxEurop.
Questo articolo è uscito sul sito della radio pubblica tedesca Deutsche Welle.