Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2003 nel numero 518 di Internazionale.

Una tetra giornata di vent’anni fa, ero seduto in una carrozza ferroviaria sovietica (Helsinki-Leningrado, finestrini picchiettati dalla pioggia), assorto nella lettura di un libro di racconti di Vladimir Nabokov. A quei tempi il passaggio da ovest a est suscitava il brivido della trasgressione: le case e le linde strade finlandesi che rimpicciolivano e svanivano nei pressi della frontiera. Poi, qualche minuto dopo, i segni dello sfacelo sovietico.

Un’ansimante Ziguli che rimorchiava un’altra Ziguli su un viottolo fangoso, manifesti zuppi d’acqua ( “Il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese”) inchiodati alle pareti di una baracca; un ubriaco con il giubbotto imbottito che trascinava gli stivali in una pozzanghera, dimentico della pioggia. Il treno si fermò a Vyborg, una città di frontiera. La ventilazione tossì e poi si spense. Tre uomini in divisa e con le mascelle larghe – non potevano avere più di vent’anni – salirono a bordo e si fecero strada lungo il corridoio controllando passaporti e visti e dando un’occhiata superficiale alle nostre valigie. In quanto agenti della sicurezza di stato, cercavano di assumere un’espressione arrogante, ma riuscivano a irradiare solo nervosismo, la sensazione che, proprio come loro controllavano noi, qualcuno più in alto stesse controllando anche loro.

Quando raggiunsero la mia fila, gli agenti avevano già raccolto una piccola pila di bibbie legate con dello spago e un mucchio di riviste porno tedesche. Guardarono nella mia sacca da viaggio e non trovarono niente di interessante. Poi uno di loro allungò l’indice e abbassò il libro di racconti che avevo in mano per esaminarne la copertina scolorita. L’immagine sulla copertina era quella di una ragazza bella e con i capelli chiari, ma dall’aspetto curiosamente non russo. La guardia si fermò e strinse gli occhi. Il libro non era Lolita, ma era comunque Nabokov, e quindi illegale. Gli autori non erano vietati per titolo, erano vietati in toto. E lui lo sapeva. Eppure mi scrutò con attenzione e passò oltre, abbandonandomi al mio piacere controrivoluzionario.

Dopo essere entrato nel Kgb, diceva ai suoi amici più stretti: “Sono un esperto di rapporti umani”

Qualche minuto dopo il treno riprese il suo viaggio verso est. Ben presto fece buio e i finestrini si annebbiarono. Cominciai a leggere il racconto La visita al museo, in cui un emigrato russo si trova a vagare in un museo provinciale della Francia. In stato semionirico, si accorge di aver attraversato un portale magico che lo ha ricondotto nella sua terra, la Russia, eppure ha la strana sensazione che quello non sia esattamente il suo paese. È tutto vivido: il freddo pungente e “la pietra che avevo sotto i piedi era un vero marciapiede, impolverato di neve meravigliosamente fragrante e appena caduta”. Ma quando si avvicina a una bottega di calzolaio e vede la parola “scarpa”, si rende conto che qualcosa non torna: non c’è il tviordyj znak, il “segno duro” alla fine della parola. La lettera era stata quasi completamente eliminata dai bolscevichi. Avevano cominciato a rifare il mondo, ortografia compresa: “Sapevo inequivocabilmente dove mi trovavo. Ahimè, non era la Russia che ricordavo, ma la Russia concreta di oggi, a me proibita, disperatamente abietta e disperatamente natia… Oh, quante volte nel sonno avevo provato una sensazione simile! Ora, invece, era realtà”.

Il treno rallentò. Spuntarono i primi sobborghi di Leningrado, poi gli spettrali condominii della periferia. Un sobbalzo ed eravamo arrivati. Stazione Finlandia. Gli sportelli si aprirono con un bacio gommoso. L’aria che affluì all’interno era umida e fredda, e odorava di tabacco a buon mercato. Sul binario comprai un panino imbottito con dei sassi di carne bluastra. Avevo bisogno di aiuto per girare la città, così per qualche copeco acquistai una copia della Pravda e una mappa e mi misi in marcia.

Disorientamento temporale
La visita al museo è un racconto pervaso di nostalgia. Quando torno a Mosca, oggi, mi scopro a pensare che quella condizione di disorientamento temporale, addirittura storico, è un po’ una caratteristica della Russia, dei russi. Dodici anni dopo il crollo del comunismo e dell’Unione Sovietica, i russi vivono ancora in uno stato di dissociazione e simultaneità storica. I copechi che spesi alla stazione Finlandia non sono più in circolazione, i lettori della Pravda sono crollati da nove milioni a centomila. In alcune città molte strade hanno cambiato nome per acquistarne di nuovi o tornare a denominazioni prerivoluzionarie, in altre le vie sono intitolate a Lenin, al Lavoro e alla Bandiera Rossa. I russi hanno un’economia che non è né socialista né capitalista, vivono in appartamenti tipicamente sovietici e in condizioni sovietiche, eppure nella pubblicità televisiva sono puliti, ricchi e disinvolti in modo quasi scandinavo. Nelle città più grandi, in contanti o a credito, sono disponibili tutte le delizie materiali e le depravazioni spirituali note al mondo moderno, eppure esistono ancora migliaia di paesi e villaggi dove uomini e donne portano le calosce e camminano su strade fangose rimaste esattamente com’erano all’epoca degli zar.

È intelligente, competente, blandamente gradevole: un burocrate catapultato nella storia

All’inizio degli anni novanta, quando il consumismo (legale o meno) cominciò ad apparire, sembrava riguardare solo pochi ricchi russi e stranieri. Fu l’era dei “nuovi russi”: volgari, sguaiati e, spesso, criminali. Fu l’era dei film di gangster americani, dei vetri a prova di proiettile, degli spogliarelli, dei club a luci rosse, dei casinò con donne nude che nuotavano in enormi acquari.

L’assurdità e la povertà dei primi anni di vita postsovietica sono ancora lì. Le donne nude nuotano ancora nei loro acquari. I gangster abbondano. Ma ora, nell’era postrivoluzionaria, c’è qualcos’altro che balza agli occhi a Mosca e in molte altre città: una calma quasi soffocante, un disinteresse per la politica, una classe media e di professionisti in lenta crescita, una realtà commerciale più normale. La sensazione che anche se la nuova Russia – indipendente, prospera e legata all’occidente – non è ancora una realtà, neppure alla lontana, questa prospettiva non è più inconcepibile. E la personificazione dei tempi moderni in Russia è il suo presidente, Vladimir Vladimirovic Putin.

Putin non è un uomo di immaginazione o di genio. È intelligente, competente, blandamente gradevole: un burocrate catapultato nella storia. Ha l’aria dell’ascoltatore attento, dell’agente dei servizi segreti. Dopo essere entrato nel Kgb, diceva ai suoi amici più stretti: “Sono un esperto di rapporti umani”. Il suo linguaggio è anonimo in modo tipicamente sovietico. Il suo sguardo è piatto, addirittura spento, e non tradisce nulla.

Invece di caratterizzarsi chiaramente come uomo del futuro, democratico, europeo – o viceversa sovietico, portatore di tradizionali valori autocratici – Putin ha avuto la capacità di sembrare tutto a quasi tutti. Ha abbracciato gli ideali del movimento democratico in Russia – stampa libera, costituzionalismo, libertà civili – con scarso entusiasmo. Non ha mai combattuto per la fine del comunismo, ha semplicemente ereditato una serie di realtà postcomuniste. Putin è sostanzialmente un gosudarstvennik, un “uomo dello stato”, che apprezza più di ogni altra cosa la crescita e la stabilità della Russia. Se questo significa mettere sotto processo un magnate dei media o un finanziere che mostra anche solo un’ombra di ambizione politica, così sia. E se significa riempire la burocrazia statale di migliaia di ex funzionari dell’intelligence, allora così dev’essere. Eppure paradossalmente, come Gorbaciov ed Eltsin, Putin ha deciso che la Russia non ha una “via speciale” di sviluppo ideologicamente o misticamente determinata. Piuttosto il destino del paese è legato a quello dell’Europa e degli Stati Uniti, e il suo futuro potrebbe tranquillamente comprendere l’adesione all’Unione europea e alla Nato.

Eltsin ha messo in gioco la sua reputazione storica per distruggere il sistema comunista e l’impero conosciuto come Unione Sovietica. Putin ha preferito il ruolo di uomo dell’evoluzione. Compie gesti in direzione del vecchio ordine, non fosse altro che per consolare i sentimenti feriti del popolo russo. Loda l’onestà del dissidente Andrej Sakharov, ma ha parole gentili anche per il dubbio acume militare di Stalin. Valuta con realismo la posizione della Russia nel mondo e ammette persino (fino a un certo punto) una storia di spaventosa crudeltà, però assicura costantemente i suoi connazionali che il loro è un paese di grandezza storica e che quella grandezza, in qualche nuova forma, tornerà sicuramente. Alle celebrazioni in onore del trecentesimo anniversario della sua città, San Pietroburgo, ha elogiato il suo “splendore imperiale”. Il partito più vicino al Cremlino, Russia unita, usa figure come Pushkin e Stolypin, il riformatore economico dei primi anni del ventesimo secolo, per esaltare le sue virtù.

Putin, nominato presidente facente funzione quando Eltsin improvvisamente ha rassegnato le dimissioni il 31 dicembre 1999, ha vinto le elezioni del 2000 con il 52 per cento dei voti. Sarà sicuramente rieletto nel 2004.

Per il momento la Russia è fortunata, e naviga sul mare dei profitti dell’industria petrolifera e del gas. Il rublo è forte, i prezzi energetici mondiali sono alti, l’inflazione è in discesa e la crescita economica, per il quinto anno di fila, è robusta. Eppure gli avversari di Putin, che si tratti di liberali moscoviti o di comunisti provinciali, sostengono che quella del petrolio è solo una sicurezza passeggera e parlano di stagnazione, un termine che ricorda l’era di Brezhnev. I sostenitori di Putin si limitano ad alzare le spalle. Sono contenti di questo letargo.

“Putin si è presentato come l’uomo che avrebbe fermato la rivoluzione”, dice Gleb Pavlovskij, un intellettuale con un passato da dissidente che ama definirsi l’eminenza grigia della campagna elettorale di Putin. “Preferisce la vita familiare e vorrebbe mantenere la sua giornata lavorativa nei limiti delle otto ore e dimenticarsela subito dopo. In questo senso è come il resto del paese. Dopo vent’anni di rivoluzioni e sorprese la gente è stanca. È spossata dal pensiero di un mondo completamente nuovo, uno stato nuovo, un nuovo modo di condurre l’economia e di pensare. E così i russi perdonano a Putin la sua debolezza, perché sanno che prova quello che provano loro”.

Una creatura di Eltsin
Quando Eltsin ha concesso il potere a Putin, lui a sua volta ha concesso a Eltsin un pacchetto di privilegi (dacia, scorta, automobili, autisti e così via) e, cosa ancora più importante, la garanzia dell’immunità. Quando ha lasciato la presidenza, Eltsin ormai era disprezzato da tanta gente e da tanti politici, e correva il rischio di essere messo sotto accusa. La sua decisione avventata e disastrosa di scatenare una guerra in Cecenia, la nuova economia di vincitori corrotti e perdenti carichi di rancore, il crollo delle industrie e dei servizi sociali di base avevano reso impossibile alla maggior parte dei russi di riconoscergli il merito di aver rotto con il comunismo sovietico. Di fatto, la maggioranza lo rimproverava di ciò che l’occidente celebrava di più: la fine dell’Unione Sovietica.

Eltsin e “la famiglia” – una squadra formata da sua figlia Tatjana Djacenko, vari magnati delle finanze, alcuni stretti collaboratori come Valentin Jumashev (marito di Tatjana) e il capo dello staff del Cremlino Aleksandr Voloshin – hanno dato la presidenza a Putin soprattutto perché sembrava competente e leale.

In meno di quattro anni Putin è stato chiamato a lavorare come collaboratore del Cremlino, poi nominato capo dell’intelligence, quindi primo ministro e infine presidente. “Gli uomini di Eltsin hanno creato Putin come un vaso di argilla”, dice Leonid Parfionov, uno dei più noti giornalisti televisivi russi. “Noi non abbiamo un vero sistema di partiti, così il Cremlino ha dato vita e anima a quest’uomo”.

Sotto molti aspetti Putin ha conservato, e persino rafforzato, la linea politica di Eltsin, soprattutto in politica estera e nel suo sostegno alle leggi necessarie per creare un’economia di mercato e un sistema giuridico funzionanti. Eltsin si è lamentato pubblicamente del suo successore in una sola occasione: quando Putin ha appoggiato il tentativo di reintrodurre l’inno ufficiale sovietico, composto, con l’approvazione di Stalin, nel 1943. Putin si era rivolto allo scrittore ultraconservatore Serghej Mikhalkov, che aveva contribuito a scrivere i versi dell’era sovietica (“Partito di Lenin, forza del popolo/continua a guidarci verso il trionfo comunista”) perché scrivesse un nuovo testo adatto all’era moderna: “Dai mari del Sud alla regione polare/Si estendono le nostre foreste e i nostri campi,/sei unica al mondo, inimitabile,/terra natia protetta da Dio”.

Eltsin ha considerato un affronto questa resurrezione. Aveva sostituito la bandiera rossa dell’era sovietica con il tricolore dell’era zarista e la falce e il martello con l’aquila bicefala, un simbolo che risaliva al quindicesimo secolo. Per tutta l’era Eltsin al posto dell’inno nazionale le orchestre avevano suonato un’opera di Mikhajl Glinka del 1833, Un canto patriottico, una melodia senza parole. L’inno di Putin era un oltraggio al movimento democratico.

Il ragionamento di Putin a favore di quella che i russi chiamano una collezione “postmoderna” di simboli – alcuni zaristi, altri sovietici, altri ancora sui generis – rientra nella sua strategia “tutto-per-tutti”. La maggior parte dei russi non soffre per la perdita dell’ideologia comunista o del dominio sull’Europa orientale, ma rimpiange la passata grandezza dell’ “impero interno”, le repubbliche non russe che oggi sono indipendenti. L’Unione Sovietica, come prima l’impero zarista, suscitava rispetto e timore in tutto il mondo, e l’inno era in linea con quei sentimenti. Putin riscuote sempre gli applausi della folla quando dice: “Chiunque non si rammarichi per il crollo dell’Unione Sovietica non ha cuore, ma chiunque voglia ricostruirla non ha cervello”. Quello di Putin è un inno alla grandezza del passato e una promessa di farla tornare: un sentimento popolare e unificante.

Un tipo tranquillo
A Mosca e a San Pietroburgo raramente ho incontrato qualcuno che non dicesse di Putin che è “una brava persona”, “un tipo tranquillo”, “che cerca di fare del suo meglio”. Ed è ancora più inattaccabile in provincia. Certo, ci sono molti giornalisti e intellettuali di città che lo giudicano debole, indeciso, o addirittura un criptoautoritario colpevole di crimini di guerra in Cecenia e deciso a soffocare il dissenso e la magistratura indipendente.

Ma questa è una posizione elitaria, di minoranza. Putin è popolare fra i poveri pensionati che spesso votano comunista così come fra i giovani professionisti che quasi non ricordano com’era il mondo prima della perestrojka di Gorbaciov. Anche Eltsin era arrivato al potere con un ampio margine di consenso, ma aveva esaurito rapidamente questa riserva promuovendo riforme economiche dolorose (e spesso raffazzonate) e commettendo, come nel caso della Cecenia, errori terribili. Putin è impegnato a coltivare il suo tasso di popolarità, non soltanto perché gli garantirà la rielezione, ma anche perché questo indice rappresenta l’idea centrale della sua presidenza: la calma postrivoluzionaria.

Secondo lo schema totalitario del mondo di Eltsin, o eri con lui o eri contro di lui. Putin, viceversa, ha detto più volte che lui non ha rancori e non emette condanne sul passato. Alla cerimonia di insediamento, nel 2000, Putin ha invitato il suo ex capo del Kgb, Vladimir Krjuckov, autore del tentativo di colpo di stato del 1991 contro Gorbaciov, del quale non si è mai scusato. “Non abbiamo nulla di cui pentirci”, ha detto Krjuckov a una tavola rotonda di ex dirigenti del Kgb. “Cercammo soltanto di salvare l’Unione. Sono quelli che hanno scatenato il caos attuale che dovrebbero pentirsi”.

Il giorno del decimo anniversario del fallimento del golpe, due anni fa, Putin si è ben guardato dal richiamare l’attenzione su un avvenimento che il mondo ricorda con gioia e i suoi compatrioti con sentimenti ambivalenti: non ci sono state parate davanti al Cremlino né discorsi ufficiali. Il presidente è andato a pesca di trote in Carelia.

L’amore per i gialli
Putin è nato dopo la guerra, nel 1952. È cresciuto a Leningrado e, come tanti altri in quella città, viveva con la sua famiglia in una kommunalka, un appartamento in comune con altri, dove mancavano la vasca da bagno e l’acqua calda, ma c’erano un sacco di topi. Era uno studente mediocre e passava gran parte del suo tempo giocando nei cortili della città. Se aveva una vera ambizione, la trovò leggendo libri gialli. “Ancora prima di prendere il diploma volevo lavorare nei servizi segreti. Era il mio sogno, anche se non sembrava più probabile di un volo su Marte”, ha raccontato in un libro-intervista intitolato Prima persona. “I libri e i film di spionaggio dominavano la mia fantasia. Mi sembrava straordinario che con gli sforzi di un solo uomo si potesse ottenere quel che sfuggiva a interi eserciti. Una spia poteva decidere la sorte di migliaia di persone. Almeno, era così che vedevo le cose. Per sapere come avrei potuto diventare una spia, all’inizio del liceo ero andato negli uffici della direzione del Kgb”, ha continuato Putin. “Venne un tizio e mi ascoltò. ‘Voglio lavorare con voi’, gli dissi. ‘Bene, ma ci sono vari problemi’, rispose lui. ‘In primo luogo, noi non accettiamo le persone che si presentano di loro iniziativa. Secondo, puoi venire da noi solo dopo il servizio militare o dopo aver finito gli studi superiori’. Ero affascinato. ‘Che tipo di studi superiori?’, gli chiesi. ‘Qualsiasi tipo’, rispose. Probabilmente voleva solo liberarsi di me. ‘Ma che genere di istruzione preferite?’, insistetti. ‘Giurisprudenza’. E questo fu tutto. Quando accettai la proposta del dipartimento personale, non pensai alle purghe del periodo staliniano. La mia idea del Kgb era legata a romantiche storie di spionaggio. Ero un prodotto perfetto e assolutamente riuscito dell’educazione patriottica sovietica”. Putin ha studiato legge all’università statale di Leningrado, e al quarto anno è stato reclutato nel Kgb.

Alla fine gli fu assegnato un incarico nella Germania est. Un’incredibile quantità di energia giornalistica è stata spesa per cercare di capire cosa Putin sia riuscito a fare lì e la risposta è: non molto. Dresda, dove era assegnato, era una sede di terza classe. Putin raccoglieva informazioni sugli stranieri in visita, passava il tempo cercando di mantenere i rapporti con agenti e fonti, ma non aveva mai l’opportunità di emulare gli eroi dei film di spionaggio. Il suo lavoro era soprattutto noioso. Ci furono molti giorni e molte notti vuote a Dresda per Putin, sua moglie Ljudmila, che aveva sposato nel 1983, e le loro due bambine.

Il periodo più significativo della sua carriera spionistica arrivò nelle ultime settimane a Dresda, quando i segnali del crollo del comunismo – e del muro di Berlino – diventarono evidenti. Per non affrontare una potenziale insurrezione e un’eventuale denuncia come agenti dell’oppressore sovietico, Putin e i suoi colleghi del Kgb e della polizia segreta tedesca, la Stasi, cominciarono a bruciare i loro documenti. “Distruggemmo tutto: le nostre comunicazioni, i nostri elenchi di contatti e le nostre reti di agenti”, ha raccontato. “Bruciammo tanta di quella roba che la caldaia scoppiò. Bruciavamo documenti giorno e notte. Tutte le carte più preziose furono trasportate a Mosca”. La folla cominciò a manifestare intorno ai palazzi della Stasi e alla sede del Kgb. “Quelle folle erano una minaccia seria. Avevamo dei documenti nei nostri uffici. E nessuno alzava un dito per proteggerci. Quella gente aveva uno stato d’animo aggressivo. Mi rivolsi alle forze dell’ordine e spiegai la situazione. Mi risposero: ‘Non possiamo fare niente senza ordini da Mosca. E Mosca sta zitta’. Ebbi l’impressione che il paese non esistesse più. Che fosse scomparso”.

Secondo i calcoli di Eltsin e dei suoi, Putin era un uomo fedele per natura, e la sua fedeltà era trasferibile

Putin visse il silenzio di Mosca non come una sconfitta ideologica, ma piuttosto come un tradimento professionale. Era un satrapo salariato dell’impero, e di punto in bianco l’impero e l’antagonismo con gli Stati Uniti non esistevano più, così come erano anche scomparsi la statura politica e i soldi. Putin non era preparato a tutto questo. Lui e la sua famiglia non avevano vissuto in diretta i cambiamenti che Gorbaciov aveva avviato a Mosca, le rivelazioni sul passato sovietico, le proteste contro il partito e il Kgb. Fu incaricato di sorvegliare gli studenti stranieri all’università statale di Leningrado, un compito piuttosto modesto. Il Kgb stava già cominciando a tagliare il personale perché era ormai chiaro che la guerra fredda era finita, ed era altrettanto chiaro che la carriera di Putin nell’intelligence volgeva al termine.

Ma prima di chiudere con i servizi segreti Putin incontrò Anatolij Sobciak, professore di legge all’università ed esponente di primo piano del movimento democratico, che sarebbe presto diventato sindaco di Leningrado. Sobciak assunse Putin perché lo aiutasse a governare la città.

La mattina del 19 agosto 1991, quando i golpisti fecero entrare i carri armati a Mosca, Eltsin si mise a capo della resistenza nella capitale. A Leningrado la resistenza era guidata da Sobciak. Nonostante i suoi precedenti nel Kgb e la sua alta considerazione per Krjuckov, Putin rientrò dalle vacanze per dare una mano al suo capo. Mentre lui si occupava delle comunicazioni telefoniche dal palazzo Marinskij, Sobciak faceva appello ai cittadini perché si opponessero al golpe: la manifestazione sulla piazza dietro l’Hermitage fu paragonabile per dimensioni ai cortei oceanici della capitale.

Nei giorni successivi Leningrado fu percorsa da un’euforia dilagante: anche Sobciak, come Eltsin, godeva di un’immensa popolarità. Ma con il passare degli anni il Cremlino di Eltsin ha cominciato a somigliare sempre più a una corte bizantina, con fazioni di grandi imprenditori e alti funzionari della sicurezza che si facevano la guerra fra loro, mentre gli idealisti alla Sobciak perdevano terreno. Nel 1996 Sobciak si è ricandidato. La corrente più conservatrice del Cremlino, guidata da Aleksandr Korzhakov, guardia del corpo di Eltsin, ha appoggiato un suo concorrente, Vladimir Jakovlev, che ha vinto con un margine di meno del 2 per cento.

“Quando mio marito ha perso le elezioni, Putin ha presentato le dimissioni”, racconta la vedova di Sobciak, Ljudmila Narusova. “Ricordo che in quell’occasione ha dichiarato: ‘Meglio farsi impiccare per essere stati fedeli che vivere da ricchi dopo aver tradito’”. La dimostrazione di fedeltà di Putin ha avuto un ruolo cruciale nella decisione di Eltsin e della “famiglia” di imprimere un’accelerazione alla sua carriera, coronata dalla nomina a zar. “Secondo i loro calcoli”, sostiene Anatolij Ciubais, “Putin era un uomo fedele per natura, e la sua fedeltà era trasferibile”.

L’impegno per la democrazia
Nonostante le periodiche sferzate di Putin agli oligarchi, nel complesso gli assetti di potere in Russia sono cambiati meno di quanto si possa pensare. A differenza dei suoi capricciosi predecessori, il presidente non licenzia quasi mai i suoi uomini. Due dei suoi più influenti collaboratori, Igor Secin e Viktor Ivanov, provengono da un luogo che un tempo Putin frequentava assiduamente, cioè il quartier generale del Kgb a San Pietroburgo. Poi ci sono alcune correnti più piccole, che ruotano intorno alle compagnie petrolifere, al monopolio statale del gas e ad altri interessi economici.

Ho chiesto a Ciubais se Putin sia democratico. Ha risposto: “E Berlusconi, è un democratico?”

Nei circoli politici di Mosca si sottolinea spesso lo scarso impegno di Putin a favore della democrazia, e in particolare delle libertà civili. Ho domandato ad Anatolij Ciubais, attualmente responsabile dell’immensa azienda statale di produzione e distribuzione di elettricità, se Putin sia un democratico o no. Ridendo, Ciubais ha ribattuto: “E Berlusconi, è un democratico?”. Poi ha proseguito: “La domanda non è se sia o no democratico. Di democratici ne esiste una vasta gamma che va, diciamo, da Silvio Berlusconi a Tony Blair. Ecco, Putin si colloca da qualche parte in questa gamma, ma è più vicino a Berlusconi che a Blair. Una cosa è certa: non è Fidel Castro”.

Forse il paragone con il premier italiano è calzante. A suo modo il controllo che Putin esercita sull’etere è altrettanto totale di quello di Berlusconi. Putin ha sistematicamente neutralizzato ogni seria opposizione all’interno dei mass media. Nella classifica della libertà di stampa in 139 paesi, stilata ogni anno da Reporter senza frontiere, la Russia è al centoventunesimo posto. Dodici anni dopo la caduta del comunismo, la censura in stile sovietico non c’è più, né esiste più un ufficio ideologia del Comitato centrale che passa in rassegna ogni telegiornale. Il Cremlino, che esercita un controllo totale sulla tv di stato, nel 1999 ha nominato Konstantin Ernst alla testa della rete principale, Canale Uno. Putin e i suoi consiglieri sanno di potersi fidare: Ernst è un tipo sicuro e manterrà il controllo. Naturalmente continuano a esserci politici e commentatori che criticano il governo. Ma entro certi limiti.

“La libertà di espressione è un concetto relativo”, mi ha detto Ernst nel colloquio che mi ha accordato un pomeriggio nel suo ufficio ultramoderno, tutto acciaio e cuoio. “Questa libertà non esiste da nessuna parte in forma perfetta. È una sorta di gas ideale, che non esiste in natura ma solo in teoria. Nella realtà la libertà di stampa dipende dal governo, dai direttori delle testate e dai responsabili delle emittenti. E ciascuno la intende in un modo diverso”.

L’opposizione a Putin è debole, sporadica, disorganizzata e mal definita. In Russia i comunisti sono tuttora il principale partito d’opposizione, ma è una formazione che invecchia e probabilmente ha perso la sua occasione di riconquistare il Cremlino nel 1996. Quanto ai principali partiti d’opposizione di stampo liberale, sono piccoli e timidi: l’Unione delle forze di destra è “liberale” nel senso friedmaniano o thatcheriano; lo Jabloko lo è nel senso socialdemocratico europeo. Pur contando alcune voci intelligenti fra i loro rappresentanti alla duma, queste formazioni sono patologicamente incapaci di dar vita a una coalizione, e il loro serbatoio di voti si limita a Mosca, San Pietroburgo e qualche altra grande città. In ogni caso, non appena danno segni di aumentare il loro peso politico, Putin riesce facilmente a renderli inoffensivi per mezzo della cooptazione, se non della repressione aperta.

Conosco Grigorij Javlinskij da quando era un giovane economista della cerchia di Gorbaciov. Dal 1993 Javlinskij è a capo del gruppo parlamentare del partito Jabloko. Oggi ha 51 anni e sembra ancora più caustico e frustrato di quando l’ho incontrato per la prima volta. Alle mie domande sull’opposizione a Putin, aggrotta la fronte e si mette sulla difensiva: “Perché, in Gran Bretagna o in Giappone – per non parlare degli Stati Uniti – esiste forse una vera opposizione?”, obietta. “E allora, se la cerchi qui ti dico subito che è difficile. Perché esista un’opposizione ci devono essere alcune condizioni preliminari: mezzi d’informazione indipendenti, o quanto meno non concentrati nelle mani di un uomo solo. Occorrono risorse finanziarie indipendenti, una società civile, insomma un clima molto particolare. La duma è piena di deputati che intascano bustarelle. Da noi le elezioni libere e indipendenti non esistono. Il nostro è un sistema quasi corporativo e semicriminale. Non ci sono alternative da presentare al popolo. Il sistema è interamente al servizio di una persona sola”.

La colpa di questo “sfacelo”, secondo Javlinskij, è di Eltsin. “Abbiamo cercato di concludere l’era Eltsin il prima possibile. Il suo tempo è finito nel 1993”, dice. “Tutto quello che è venuto dopo è stato controproducente. La Cecenia, la crisi economica del 1998, le privatizzazioni condotte in modo criminale. Lui però ci ha ingannato con un trucco speciale: ha fatto entrare in scena un suo successore, e così ha consolidato e reso immutabile il suo sistema. Che ora è in grado di creare un successore dopo l’altro. Quindi prepariamoci: la strada è ancora lunga”.

I rapporti con gli Stati Uniti
L’ossessione della potenza americana è universale, ma i russi ne sono affetti in modo del tutto particolare. La loro è la reazione del rivale umiliato, costretto a fare i conti con un senso di debolezza del tutto inconsueto. È questo, forse, il sentimento prevalente nella politica russa. Quando Putin è entrato in carica, l’establishment moscovita della politica estera (alti funzionari del ministero degli esteri, generali e ammiragli), era convinto che si sarebbe “fatto rispettare” dagli Stati Uniti più di quanto avesse fatto Eltsin. Poi c’è stato l’11 settembre. “Subito dopo gli attentati, Putin ha convocato vari politici per discutere del ruolo della Russia di fronte a quegli eventi”, racconta Grigorij Javlinskij, capo del partito Jabloko. “Ebbene, la stragrande maggioranza ha sostenuto che Mosca doveva restare neutrale, o addirittura sostenere i taliban. Sono stati in pochi a dire apertamente che bisognava appoggiare gli Stati Uniti”.

Putin ha scelto di andare controcorrente e di schierarsi con i liberali. È stato il primo leader di un grande paese a telefonare a George W. Bush per assicurargli il suo sostegno. In questo appoggio rientrava anche la fornitura ai militari americani di alcuni importanti rapporti dello spionaggio sulle forze taliban in Afghanistan. Queste mosse hanno poi consentito a Putin di sostenere, davanti all’occidente, che la guerra in Cecenia non era una brutale aggressione, bensì uno dei fronti della guerra contro il terrorismo. E Washington – che aveva sempre protestato, anche se debolmente, contro l’intervento russo in Cecenia – ha smesso di farlo.

Ma la reazione all’11 settembre è stata una scelta facile rispetto alla questione dell’Iraq. Putin aveva dei dubbi sull’imminente invasione americana e ha subìto forti pressioni dal cancelliere tedesco Schröder e dal presidente francese Chirac per unirsi a loro nel contrastare Washington all’interno delle Nazioni Unite. Ma le pressioni erano forti anche in patria. “Nel Kgb e nel complesso militare-industriale russo c’erano diverse persone che volevano ostacolare l’avvicinamento di Putin all’America”, dice Sergej Karaganov, un ex consigliere di Eltsin. Secondo fonti diplomatiche e di intelligence, i generali e i capi dello spionaggio hanno detto a Putin che sarebbe stato impossibile per gli Stati Uniti trovare prove tangibili dell’esistenza di armi di distruzione di massa, e che per portare a termine un’invasione ci sarebbero voluti mesi, se non anni.

Dmitrij Rogozin è il presidente della commissione esteri della duma. A proposito della guerra in Iraq dice: “In Europa tutti pensano che sia una calamità. Noi invece abbiamo scrollato le spalle quando ci siamo resi conto che non ci potevamo fare niente. Prima della fine degli anni ottanta esisteva ancora qualche forza in grado di contrastare gli americani. C’era l’Unione Sovietica ed esisteva un equilibrio fra pressioni contrapposte. Ora tutto questo è sparito, sembra di assistere a un combattimento fra lottatori di sumo: gli Stati Uniti sono caduti in avanti per mancanza di avversari e sono diventati i responsabili di tutto. Durante la guerra fredda ciascuna delle due parti ha creato i suoi cyborg: noi quello palestinese, gli americani bin Laden, in Afghanistan. Adesso, d’un tratto, questi cyborg si sono sottratti al controllo dei loro padroni. Gli Stati Uniti sono costretti a riempire ogni spazio, sono responsabili di tutto. Di conseguenza sono colpevoli di tutto”.

Putin è chiaramente convinto che la Russia non può più sperare di essere una rivale o di fare da contrappeso alla potenza americana. Può soltanto cercare di influenzarla nell’interesse della stabilità interna e internazionale. Perché è soltanto in condizioni di relativa calma (prezzi del petrolio stabili, quiete più o meno assoluta lungo i confini meridionali, integrazione con l’occidente) che la Russia può conoscere uno sviluppo costante. In fin dei conti, Putin ha saputo giocare bene la partita dell’Iraq: si è opposto alla guerra senza danneggiare i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Se c’è qualcuno che ha vinto quella battaglia diplomatica, è stato lui.

Il peso della storia
Un pomeriggio sono andato al Cremlino per incontrare Andrej Ilarionov, uno dei principali consiglieri economici di Putin. Gli ho raccontato che mentre attraversavo la Piazza Rossa e la porta Spasskij avevo notato degli operai che stavano preparando una parata. Avevano montato su un lato della piazza un’aquila dorata a due teste, simbolo dell’epoca zarista, e drappeggiato un grande tricolore russo sulla tomba di Lenin.

“Domani è la festa dell’indipendenza”, mi ha detto Ilarionov. Non molti se lo ricordano, ma è il giorno in cui la Russia è stata dichiarata indipendente”.

“E tutti quei simboli?”, gli ho chiesto.

Si è stretto nelle spalle e ha detto: “Rispecchiano la complessità della storia russa. È un dato di fatto. Abbiamo ereditato il retaggio dell’impero russo, settantatré anni di comunismo sovietico e adesso dodici di Russia indipendente”.

Oggi viviamo così: siamo circondati dalla storia e dalle storie, tutto si mescola e tutto si confonde

Si tende a dimenticare, ha continuato, il peso della storia che la Russia si porta dietro, e a concentrarsi su questa o quella presa di posizione, su questa o quella personalità. Ma sono tutti fenomeni passeggeri: “Dopo il 1917 ci sono stati settantacinque anni di guerra civile con milioni di morti. Prima nella lotta fra rossi e bianchi, poi durante la collettivizzazione. Poi c’è stata di nuovo una vera guerra civile, e ancora le purghe del 1937 e la seconda guerra mondiale: una battaglia contro il fascismo, ma anche una specie di guerra civile in cui un milione di persone è passato da uno schieramento all’altro. In quale altro posto esiste una storia come questa?”.

“Più tardi”, ha proseguito Ilarionov, “ci sono state le purghe dei prigionieri di guerra, poi la lotta contro il cosmopolitismo, una guerra civile contro le minoranze come i ceceni, i tedeschi del Volga, i tatari di Crimea: ben venti di questi popoli sono stati deportati o addirittura eliminati. Un’altra guerra civile. Intanto, decine di milioni di persone venivano educate negli ideali, o nell’ideologia, del comunismo. Non sono cose che si possono cambiare da un giorno all’altro. È come crescere fin da bambini in una specie di chiesa ortodossa. Quando cerchi di cambiare il mondo, susciti reazioni molto forti, e per placarle ci vuole tempo. Così, quello che attualmente anima la maggioranza dei russi è il desiderio di sopravvivenza. E Putin rappresenta proprio questo. Oggi noi viviamo così: siamo circondati dalla storia e dalle storie, tutto si mescola, e tutto si confonde”.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo e Marina Astrologo)

Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2003 nel numero 518 di Internazionale.

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