Negli Stati Uniti è a rischio il diritto all’aborto
Il 2 maggio il sito d’informazione Politico ha ottenuto, e diffuso, la bozza di un’opinione di maggioranza della corte suprema degli Stati Uniti: i giudici potrebbero votare a favore del rovesciamento della sentenza Roe contro Wade, che aveva legalizzato l’aborto in tutto il paese.
La corte suprema e la Casa Bianca si sono rifiutate di commentare.
Cos’è la sentenza Roe contro Wade
Il diritto delle donne di abortire nel corso del primo trimestre di gravidanza è garantito dal 1973, in seguito alla storica decisione della corte suprema per sette voti a due, nel caso Roe contro Wade.
La querelante Jane Roe, in seguito identificata come Norma McCorvey, era una donna incinta e nubile a cui era stato impedito di interrompere la gravidanza ai sensi della legge del Texas, dove la donna risiedeva e dove la pratica era illegale a meno che non servisse a salvare la vita della madre. La controparte era Henry Wade, procuratore distrettuale della contea di Dallas.
I legali di Roe dissero che la donna non poteva uscire dallo stato per abortire e sostennero che la legge era troppo rigida e contrastava con i diritti costituzionali della donna in quanto lo stato interferiva nelle scelte individuali.
Secondo la decisione della corte, la legge del Texas violava quindi il diritto delle donne alla privacy e la clausola del giusto processo previsto dal quattordicesimo emendamento della costituzione degli Stati Uniti.
“Il diritto alla privacy è abbastanza ampio da comprendere la decisione di una donna di interrompere o meno la sua gravidanza. Il danno che lo stato imporrebbe alla donna incinta negandole del tutto questa scelta è evidente”.
“Per la donna può esistere un danno specifico e diretto, diagnosticabile da un medico, derivante dalla gravidanza. La maternità, o un ulteriore figlio, rischia di condannare una donna a una vita e un futuro angosciosi. C’è il rischio di un danno psicologico. La salute mentale e fisica può essere messa a dura prova dalla cura del bambino. Esiste inoltre l’angoscia, per tutti gli interessati, legata a un bambino non voluto e il problema d’inserire un bambino in una famiglia già incapace, psicologicamente e da altri punti di vista, di prendersi cura di lui”.
“In altri casi, come in questo, possono esistere difficoltà aggiuntive, oltre alla stigmatizzazione di una maternità avvenuta senza matrimonio. Tutti questi sono fattori che la donna e il suo medico curante dovranno necessariamente considerare in sede di consulto”.
In sostanza, la sentenza del 1973 prevede che, nel primo trimestre della gravidanza, la decisione se abortire appartiene sempre alla donna, insieme al suo medico. Lo stato non può porre nessuna limitazione. Nel secondo trimestre, lo stato può intervenire e regolare l’interruzione di gravidanza ma solo per tutelare la salute della donna. Nel terzo trimestre, considerando la capacità del feto di sopravvivere al di fuori dall’utero, l’interesse dello stato è quello di proteggere il feto stesso e può quindi limitare o vietare l’aborto.
A opporsi alla sentenza furono i giudici Byron White, di nomina democratica, e William Rehnquist, di nomina repubblicana, poi presidente della corte suprema degli Stati Uniti.
Prima della sentenza l’aborto era disciplinato da ciascuno stato con una legge propria. In più della metà degli stati l’aborto era considerato reato, quindi non poteva essere praticato in nessun caso. In 13 era legale solo se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali. In tre era legale solo in caso di stupro e di pericolo per la donna.
Dopo la diffusione dell’indiscrezione sono cominciate le proteste dei movimenti femministi e pro choice (favorevoli alla libertà di scelta per la donna), ma anche l’attività di politici conservatori che puntano a rendere sempre illegale l’aborto dopo la sesta settimana di gravidanza.–Reuters, Politico, The Washington Post
(Traduzione di Federico Ferrone)