Il Libano va al voto in piena crisi economica
Un modo per prevedere il futuro in Libano è guardare i manifesti elettorali e immaginare il contrario. L’ultima volta che gli elettori hanno scelto un parlamento, nel 2018, le strade del paese erano piene di messaggi gioiosi. “Il nostro porto arriverà”, c’era scritto su uno in riferimento a un porto turistico che avrebbe dovuto attirare le navi da crociera e dare slancio all’economia. Un altro inneggiava alla stabilità finanziaria del Libano: “Intorno a noi le valute collassano, ma la nostra lira è stabile”. Nell’agosto 2020 il principale porto del Libano è stato distrutto da una delle esplosioni non nucleari più forti mai viste nella storia e la lira ha perso più del 94 per cento del suo valore.
Lo stesso schema potrebbe applicarsi anche quest’anno. Il 15 maggio in Libano ci saranno le elezioni legislative. Candidati vestiti alla moda sorridono dai manifesti affissi ovunque. La parola più comune che si legge è “cambiamento”: tutti promettono riforme anche se la cosa più probabile è che la situazione resterà la stessa. Se mai c’è stato un momento in cui votare per liberarsi delle zavorre, è proprio questo. Il Libano sta attraversando una delle crisi economiche più gravi della storia moderna: dal 2019 il pil si è contratto del 58 per cento, l’inflazione annua supera il 200 per cento, il salario minimo è di un dollaro al giorno. Secondo le Nazioni Unite, tre libanesi su quattro sono poveri.
Senza legami con il potere
All’alba, in una zona un tempo vivace di Beirut, giovani uomini frugano nei cassonetti in cerca di qualcosa da vendere. Al tramonto i pensionati escono per chiedere qualche spicciolo. La notte porta con sé un’oscurità inquietante: la maggior parte dell’illuminazione stradale e della segnaletica non funziona. I volti sui manifesti sembrano gli unici a sorridere.
Questa situazione affonda le sue radici nel 2019, quando è stata svelata una truffa di stato messa su per supportare un sistema di cambio fisso e saldare enormi deficit fiscali e commerciali. Ma la crisi ha origini molto più lontane. La classe politica arrivata al potere dopo la guerra civile finita nel 1990 ha costruito un apparato corrotto e incapace. Ha rubato miliardi di dollari per mezzo di contratti opachi e tangenti, spendendo 40 miliardi di dollari in sussidi per un impianto per l’energia gestito dallo stato che non ha mai fornito elettricità per ventiquattr’ore consecutive. “Il governo, i parlamentari, i ministri: sono tutti un’unica entità e ugualmente responsabili”, afferma l’economista Roy Badaro. “Il sistema è completamente bloccato da queste persone, anche se sul piano politico sono avversari”.
Nessuna persona al potere è stata punita per l’esplosione al porto. I politici hanno fatto di tutto per ostacolare le indagini ufficiali.
Per l’assegnazione di 128 seggi alle elezioni di maggio si sono registrati 1.043 candidati, un vero record (42 si sono poi ritirati). Il gruppo di attivisti Sawti (La mia voce) definisce “alternativi” 212 di questi candidati, senza legami con l’élite al potere. Per esempio nel quartiere di Metn, alla periferia della capitale, gli attivisti sperano di far affondare Ibrahim Kanaan, un parlamentare che ha lavorato a stretto contatto con le banche per ostacolare un piano di ripresa finanziaria. Il suo principale avversario è Jad Ghosn, un giornalista indipendente noto per i suoi articoli sui problemi politici ed economici.
Il gruppo di tecnocrati Beirut Madinati (Beirut, città mia) ha undici candidati nella capitale, e spera di approfittare della rabbia popolare esplosa dopo l’esplosione del porto nel 2020. Provocata da migliaia di tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinato in modo inadeguato per anni, l’esplosione ha ucciso almeno 218 persone, devastando gran parte del centro della città. Nessuna persona al potere è stata punita. I politici hanno fatto di tutto per ostacolare le indagini ufficiali.
Tradurre la rabbia in voti, però, sarà difficile. Le leggi sul finanziamento delle campagne elettorali sono deboli e favoriscono i politici in carica, con risorse ingenti da spendere. Solo i manifesti costano fino a 8.500 dollari, una cifra che va oltre le disponibilità di una campagna dal basso. Invece gli indipendenti cercano di far circolare i loro messaggi sui social network. La compravendita dei voti è legale. Con una fetta così grande di popolazione in una situazione disperata, i capi dei partiti potrebbero comprare voti con maggiore facilità.
Sono circa 244mila i libanesi che vivono all’estero e che si sono registrati per il voto, il triplo rispetto al 2018. Alcuni attivisti sperano che la diaspora sia meno propensa a supportare i partiti a base confessionale. Tuttavia molti espatriati non hanno ancora ricevuto indicazioni su come votare. Le risorse a disposizione delle ambasciate si sono ridotte a causa della crisi.
Errori dell’opposizione
Le frequenti interruzioni dell’elettricità causate dalla carenza di carburante potrebbero far svolgere lo scrutinio letteralmente al buio. Il ministro dell’interno Bassam Mawlawi ha dichiarato che l’azienda per l’energia elettrica ha chiesto 16 milioni di dollari per illuminare i seggi elettorali, una cifra superiore all’intero bilancio per le elezioni. In passato i voti sono stati contati in modo trasparente, ma alcuni temono che questa volta le cose andranno diversamente.
Anche l’opposizione ha commesso degli errori. Il più grave è stato quello di non presentarsi in una formazione unitaria. Charbel Nahas, un ex ministro di sinistra, ha sostenuto tanti candidati. Nella maggior parte delle aree però sono candidati non solo contro i vecchi partiti del sistema, ma anche contro una o due altre liste “alternative”. La complicata legge elettorale del Libano, incomprensibile anche per moltissimi elettori, combina quote a base confessionale con un sistema di liste proporzionale. I partiti che non raggiungono una soglia minima di voti non ottengono nessun seggio. Le liste in competizione tra loro frammenteranno il voto dell’opposizione.
Alcuni riformatori vogliono trasformare queste elezioni in un referendum su Hezbollah, milizia e partito sciita che difende il sistema a base confessionale. Questo ha dato vita ad alleanze fragili con personaggi della vecchia guardia, come Samy Gemayel, il capo di Kataeb, un partito cristiano legato ad ambienti paramilitari. Altri rifiutano di cooperare con partiti del passato. Le aspettative sono molto basse. Secondo alcuni attivisti, quattro o cinque parlamentari indipendenti sarebbero comunque una vittoria. Hezbollah continua ad avere molto sostegno tra le persone della stessa confessione e resta la forza armata più forte in Libano. Di sicuro non sarà ridotto all’irrilevanza con un voto.
La notte delle elezioni non sarà comunque decisiva, poiché i lavori per formare un governo si trascinano per moltissimo tempo. L’ultimo scrutinio è stato seguito da nove mesi di trattative.
In base al sistema di condivisione del potere su base confessionale in vigore in Libano, il primo ministro dev’essere un musulmano sunnita. Non si capisce però chi guiderà la comunità dopo il voto. Najib Mikati, primo ministro da settembre, non è candidato. Non lo è neanche Saad Hariri, che ha già completato due mandati con questa carica: il suo Movimento futuro non schiererà nessun candidato. A ottobre il parlamento dovrà anche scegliere un presidente che prenda il posto di Michel Aoun, arrivato al termine del suo mandato di sei anni. Vista l’incertezza che circonda due delle tre più alte cariche, potrebbero volerci mesi per raggiungere un accordo su un nuovo governo.
Il Libano non ha tempo da perdere. Il 7 aprile il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha firmato un accordo preliminare che potrebbe comprendere un prestito da tre miliardi di dollari. Per sbloccare questi fondi però il paese deve cominciare a ristrutturare le sue banche. Tra le altre cose, il parlamento non ha ancora approvato una legge sui controlli di capitale né ha corretto i regolamenti sul segreto bancario.
È difficile essere ottimisti sul voto. Molti libanesi con i soldi o con passaporti stranieri sono andati via. Molti altri, meno fortunati, stanno cercando di fare lo stesso. Il 23 aprile un’imbarcazione con a bordo dei migranti, salpata illegalmente alla volta di Cipro, si è capovolta. Almeno sette persone sono morte e altre decine risultano disperse. Un sondaggio condotto dall’istituto Arab barometer ha rilevato che il 48 per cento dei libanesi (il 63 per cento tra i giovani) vuole emigrare. Qualunque cosa succeda alle elezioni del 15 maggio, molti libanesi continueranno a scegliere di andarsene.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Quest’articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.
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