La crisi cilena resta ancora senza soluzione dopo un anno di proteste
Da un anno il Cile lotta per ottenere un cambiamento: il pomeriggio del 18 ottobre 2019, all’ora di punta del rientro a casa, gli studenti delle superiori sono entrati in massa nella metropolitana di Santiago senza pagare il biglietto (che era stato aumentato di quattro centesimi di dollaro) e il governo ha risposto mandando la polizia a lanciare i gas lacrimogeni all’interno delle stazioni.
Centinaia o migliaia di persone sono state intossicate, tutti gli accessi alla metropolitana sono stati chiusi e i trasporti, compresi quelli di superficie, sono stati bloccati. Erano le cinque del pomeriggio; il caos si è imposto e milioni di persone hanno dovuto camminare per ore per tornare a casa.
Nel frattempo, il presidente Sebastián Piñera era a cena con i suoi familiari in una pizzeria di un quartiere elegante della città, dove è stato fotografato. L’immagine si è diffusa sui social network, scatenando l’indignazione dei cileni. Il presidente, allertato del caos in corso, è tornato al palazzo di governo, ma era troppo tardi: il paese stabile, ricco e fonte di ammirazione stava letteralmente precipitando e il suo governo stava collassando.
Nessuna riforma strutturale
Con il calare della sera, le stazioni della metropolitana della capitale sono state vandalizzate o bruciate. Novanta sono state distrutte del tutto o in parte; decine di autobus e l’edificio centrale della principale azienda elettrica della capitale sono stati dati alle fiamme. Centinaia di supermercati e altri negozi sono stati saccheggiati. Molti stabilimenti commerciali sono andati a fuoco quella stessa sera o nelle settimane successive.
Piñera, preso alla sprovvista, ha decretato lo stato di emergenza costituzionale, ha mandato 30mila militari nelle strade e ha detto che il Cile era in guerra contro un nemico potente, implacabile, che non rispettava nulla e nessuno e che era disposto a usare la violenza e la delinquenza senza alcun limite, tirando in ballo teorie cospirative come quella secondo cui dietro la protesta si sarebbe nascosta un’aggressione straniera.
Il 25 ottobre la società cilena ha risposto al presidente scendendo in piazza e partecipando a manifestazioni di massa in città e villaggi che hanno coinvolto milioni di persone e che sono andate avanti per mesi, al punto che Piñera ha avuto il coraggio di affermare che anche lui aveva partecipato.
La violenza all’avvicinarsi del referendum e la pandemia potrebbero condizionare l’affluenza al voto
Potremmo continuare a ricapitolare, ma in sintesi basta dire che è stato un collasso istituzionale generalizzato, dovuto all’indignazione dei cittadini vessati da un modello economico, sociale e politico che ha tolto loro la dignità imponendo un sistema di vita fondato sull’indebitamento per soddisfare i bisogni di base e di consumo, con i diritti sociali privatizzati e concepiti come un business e uno stato che svolge un ruolo puramente sussidiario.
Un anno dopo, l’unico risultato plausibile delle proteste è la promessa di un referendum che si terrà il 25 ottobre per decidere se mantenere l’attuale costituzione o aprire una nuova fase costituente. Non è stata realizzata nessuna riforma strutturale.
Promesse mancate
Il Cile è arrivato all’anniversario del 18 ottobre in una calma piena di tensione che in qualsiasi momento poteva sfociare in un alto livello di violenza. Le promesse riforme della polizia non sono state realizzate, i progressi politici sono ancora pochi, la pandemia ha colpito soprattutto i più poveri e la situazione economica è molto più critica di quella di un anno fa, come indica Lucía Dammert, sociologa ed esperta di scienze politiche dell’università di Santiago. È difficile sapere quali saranno i risultati delle proteste iniziate il 18 ottobre 2019. Secondo Dammert, il 25 ottobre sapremo dal voto popolare se i cittadini hanno capito il momento storico in corso o se la pandemia ne ha limitato l’impatto. Dammert dice che la nuova costituzione, più che una valvola di sfogo, potrebbe diventare uno strumento per tendere ponti e riunire la società attorno al sogno di un paese comune.
Ci sono però delle incognite: la violenza in aumento con l’avvicinarsi del referendum e l’impatto della pandemia potrebbero avere un ruolo fondamentale nell’affluenza al voto.
Claudio Fuentes, dottore in scienze politiche e professore dell’università Diego Portales, segnala che le cause profonde delle proteste – le ingiustizie e le disuguaglianze – sono ancora lì. La tensione sociale non è diminuita: la pandemia ha portato a una smobilitazione dei manifestanti, ma le cause del malcontento sociale non sono state risolte. C’è stata una lunga pausa dovuta al virus, ma con l’allentamento delle restrizioni la gente è tornata a protestare.
Il processo costituente serve a convogliare le aspettative dei cittadini, che sono molto alte e sono accompagnate dalla speranza; ma serpeggia anche un certo scetticismo, perché non è chiaro fino a che punto questo processo sia frutto di una partecipazione reale che ha coinvolto la cittadinanza e quanto sia stato gestito dalle stanze della politica.
C’è purtroppo un risultato: le vittime della repressione. L’Istituto nazionale per i diritti umani (Indh) ha detto che dall’inizio delle proteste si sono verificate le più gravi violazioni dei diritti umani dopo il ritorno della democrazia, chiedendo la fine dell’impunità e l’impegno dello stato a favore della verità, della giustizia e della riparazione, garantendo che certe cose non si ripetano. In cifre, ci sono stati 3.023 feriti – 1.810 uomini, 621 donne, 336 bambini, 132 bambine, 124 non specificati.
L’Indh ha presentato 2.520 denunce per fatti avvenuti tra il 18 ottobre e il 18 marzo 2020. Trentuno agenti dello stato sono stati indagati e altri 72 sono stati accusati di reati di abusi di potere (1.730), tortura (460), violenza (101) e abusi individuali (81). Più di 11.300 persone sono state arrestate; di queste, 2.500 sono ancora in carcere.
(Traduzione di Francesca Rossetti)
Questo articolo è uscito sul quotidiano messicano La Jornada.