I dati che raccontano la società statunitense e provano a cambiarla
Ogni settimana sulla stampa statunitense escono moltissimi articoli sulle principali crisi del paese, come quelle che riguardano gli oppioidi, i senzatetto e le stragi con armi da fuoco. Oltre alla gravità e all’enormità di questi problemi, emerge lo straordinario lavoro di documentazione e misurazione che c’è dietro il racconto di questi fenomeni.
Come facciamo a sapere con precisione quante decine di migliaia di persone muoiono ogni anno a causa di una delle crisi citate in precedenza? In alcuni casi, per esempio per gli oppioidi, la risposta è semplice: è il governo che raccoglie dati dalle istituzioni sanitarie, dalla polizia e da tante agenzie, li elabora e alla fine li rende noti. Ma in altri casi non esistono sistemi governativi di raccolta ed elaborazioni di informazioni, e il lavoro di tenere informata l’opinione pubblica viene fatto principalmente da comuni cittadini.
Questo fatto, oltre a essere molto interessante dal punto di vista giornalistico, è in un certo senso rassicurante, perché dimostra la spinta della società civile a riconoscere e risolvere un problema. E spesso conoscere le storie che ci sono dietro alla raccolta di quei numeri permette di capire molte cose sulla società americana. Un articolo del New York Times racconta per esempio il Point-in-time count, il conteggio della popolazione dei senzatetto che si tiene ogni anno negli ultimi dieci giorni di gennaio. Il programma è gestito dall’autorità del dipartimento per le politiche abitative e lo sviluppo urbano, ma è messo in pratica da decine di migliaia di volontari che scandagliano ogni angolo di città, sobborghi e comunità rurali in tutto il paese: dietro i cassonetti, sotto i ponti, nelle tende, in roulotte abbandonate, case diroccate e ogni altro posto dove una persona potrebbe cercare rifugio. Il quotidiano ha mandato i suoi giornalisti in quattro città molto diverse tra loro, per dare un’idea di quanto il problema sia complesso e sfaccettato.
A Los Angeles il giornalista accompagna gli operatori – tra cui ci sono assistenti sociali e agenti del dipartimento dello sceriffo – a Skid Row, il quartiere di cinquanta isolati nel centro della città dove vivono circa tremila senzatetto. I volontari sono seicento, compresa Suzette Shaw, una donna di 58 anni che in passato ha vissuto per strada. La contea di Los Angeles è l’epicentro di questa crisi: i senzatetto sono circa 50mila, il 20 per cento del totale nazionale. Quelli che vivono a Skid Row sono abituati a ricevere visite, anche perché negli anni il quartiere è diventato il simbolo dell’emergenza. In altri posti i volontari durante il censimento parlano con i senzatetto, chiedendo informazioni sulla loro salute e offrendo aiuto. A Los Angeles questo approccio è sconsigliato, per motivi di sicurezza e di sensibilità.
A Phoenix invece il censimento si intreccia con il racconto di storie molto personali. “I volontari, che in tutto sono quasi mille, chiedono ai senzatetto non solo nome, età e appartenenza etnica, ma anche se sono stati in carcere e se hanno tossicodipendenze, e se queste circostanze hanno contribuito a farli finire per strada. Ai senzatetto viene chiesto anche se hanno mai offerto prestazioni sessuali in cambio di un rifugio dove vivere”.
Il lavoro dei 25 volontari di Cleveland, una cittadina di diecimila abitanti in Mississippi, è molto diverso da quello svolto nelle metropoli. “Ci sono molte persone in difficoltà – nella contea il reddito familiare mediano è meno della metà di quello nazionale e il tasso di povertà è il triplo – ma sono sparse in tutta la zona, il che rende il Point-in-time count un lavoro da detective su un’area molto vasta”. Nelle zone rurali, soprattutto in quelle più povere, ci sono generalmente pochi centri di accoglienza, pochissimi progetti abitativi per le persone in difficoltà e molte meno case in affitto rispetto alle aree urbanizzate. Nella zona di Cleveland i posti di lavoro scarseggiano, i servizi governativi sono limitati e la rete delle organizzazioni non profit è debole.
Per fare il censimento, i volontari e gli operatori si basano sulle indicazioni che arrivano dalle chiese, dagli impiegati del tribunale, dai benzinai, dai proprietari di motel, dagli agenti di polizia o contatti di lunga data nella comunità dei senzatetto. “Nelle notti fredde, i senzatetto cercano riparo dove possono, nelle auto, nelle case e nei centri commerciali abbandonati. L’unico modo per sapere veramente chi sta dove è vivere in queste comunità e conoscere direttamente le persone che hanno bisogno d’aiuto”.
A inizio gennaio a Rockford, città di 150mila abitanti in Illinois, la temperatura scende stabilmente sotto lo zero, e i volontari sanno che la maggior parte dei senzatetto si rifugia nei locali di una chiesa. “Quella di Rockford”, racconta il New York Times, “è una delle rare storie di successo, perché la città è riuscita a togliere dalla strada tutti i veterani di guerra e i senzatetto cronici”. Il successo di Rockford però è dovuto anche al fatto che in città gli affitti sono bassi e ci sono tante case libere, per via della crisi che ha colpito il settore industriale. E uno degli aspetti più paradossali della crisi dei senzatetto: “Dal punto di vista economico è più facile risolverlo nei posti dove le cose vanno male che in quelli dove vanno bene”.
Il censimento del 2023 sarà particolarmente importante, perché permetterà di capire i risultati delle politiche governative introdotte per arginare gli effetti sociali della pandemia di covid-19. Nel gennaio del 2022 i senzatetto erano 582.462, un numero molto simile ai due anni precedenti. Probabilmente il dato è rimasto stabile per via della moratoria sugli sfratti e dei miliardi di dollari stanziati per aiutare le persone in affitto. Gli operatori e i volontari sperano che quest’anno la curva cominci a scendere.
Un archivio sulle armi
Il tema su cui la mancanza di dati ufficiali è più grave – e su cui il lavoro dei cittadini è più importante – è quello delle armi. L’Fbi, la polizia federale, raccoglie dati sugli omicidi e le aggressioni con armi da fuoco, mentre i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie hanno un database con tutte le morti causate dalle armi. Ma queste informazioni vengono rese pubbliche a intervalli di mesi se non addirittura di anni. Il compito di informare tempestivamente l’opinione pubblica è svolto principalmente dal sito Gun Violence Archive, che usiamo spesso su Internazionale e viene citato come fonte principale ogni volta che si parla di stragi (l’anno scorso il sito è stato menzionato perfino in un’audizione della corte suprema).
La storia del Gun Violence Archive è notevole. Dopo la sparatoria nel 2012 alla scuola Sandy Hook di Newtown, in Connecticut, due giornalisti di Slate, frustrati dal fatto che non ci fossero dati ufficiali e pubblici sulle stragi, crearono un database online. Ma i loro dati erano incompleti, visto che si basavano soprattutto su un account Twitter che diffondeva notizie su sparatorie uscite sulla stampa locale. Inoltre era un lavoro troppo grande per due persone. Il loro progetto attirò comunque l’attenzione di mezzi d’informazione e di alcuni cittadini che stavano già cercando modi per colmare il vuoto informativo.
Tra queste persone c’era Mark Bryant, un uomo di 67 anni con una lunga barba bianca, che per gran parte della sua vita ha progettato sistemi informatici per l’Ibm. “Bryant”, ha raccontato la Cnn in un articolo uscito lo scorso anno, “viene dal Kentucky e ha una certa familiarità con le armi. Imbracciò per la prima volta un fucile a cinque anni, sparando ai topi, e da adulto non ha mai smesso di andare al poligono”. Nel novembre del 2012, dopo un grave problema di salute, decise di cambiare vita. Cominciò a interessarsi al database di Slate e notò che i dati erano incompleti. Infastiditi dalle osservazioni di Bryant, i giornalisti decisero di dargli le password del sito in modo che potesse aggiornare da solo il database.
Bryant cominciò a lavorare a un sistema informatico che permettesse di aggiornare i dati in tempo reale, ma aveva bisogno di un finanziatore. Trovò Marl Klein, un uomo di ottant’anni che ha fatto soldi nel settore immobiliare e ha usato una parte della sua ricchezza per finanziare iniziative a favore della trasparenza delle istituzioni. Bryant raccolse altri soldi vendendo alcune delle sue pistole Colt Python per circa tremila dollari l’una. Fondò un’organizzazione non profit (quindi esentata dal pagamento delle tasse) e lanciò il sito Gun Violence Archive il 1 gennaio 2014. Un po’ alla volta il gruppo di lavoro si è allargato.
Oggi sotto la direzione di Bryant lavorano venti persone che vivono in varie zone del mondo e provengono da contesti diversi. Molti sono bibliotecari. Non sono dipendenti a tempo pieno ma collaboratori esterni. Raccolgono automaticamente i dati da circa 7.500 agenzie di polizia, mezzi d’informazione e altre organizzazioni, poi passano al setaccio i risultati, ricontrollano le fonti, si mettono in contatto con la polizia e aggiungono le informazioni al database. La maggior parte delle sparatorie viene aggiunta al sistema entro circa 72 ore.
Il livello di precisione e dettaglio delle informazioni è impressionante. Oltre al numero di morti e feriti, c’è l’indirizzo della sparatoria, l’ora precisa, l’età della vittima e in molti casi il suo nome. Si dice se è stata coinvolta la polizia, se si è trattato di un suicidio, se il colpo è partito in modo involontario, volontario o per difesa.
Questo articolo è tratto da una newsletter settimanale, Americana, che racconta cosa succede negli Stati Uniti. Ci si iscrive qui.