“Il fatto che io non abbia una dimora fissa è direttamente collegato alla violenza domestica, perché me ne sono andata via di casa”, racconta Naomi, 47 anni, che ha chiesto di essere identificata solo con il nome. Naomi, una donna aborigena cresciuta nel centro di Melbourne, ama parlare e la sua energia e la sua assertività nascondono anni di difficoltà.
Oggi vive nel Queensland, lo stato più settentrionale dell’Australia, e descrive in una lunga telefonata le sue esperienze di senzatetto e di vittima di violenza familiare. “La violenza domestica per me era normale, perché l’ho vista fin da piccola”, spiega senza giri di parole. Crescendo con la madre aborigena e il padre irlandese ha vissuto in mezzo a gravi violenze domestiche, spesso alimentate dall’alcol. “Mamma – non fraintendermi, le voglio un bene dell’anima – ma da ragazzina semplicemente non la capivo, era davvero pazza”, racconta con tristezza. “Si ubriacava e dava di matto. Lei e papà andavano avanti fino a esplodere di rabbia alcolica”.
Naomi all’epoca non lo sapeva, ma sua madre apparteneva alla cosiddetta generazione rubata di bambini indigeni sottratti con la forza alle loro famiglie, ed era cresciuta in una missione gestita da suore non indigene. I bambini aborigeni spesso subivano gravi abusi in queste istituzioni, dove le condizioni di vita erano durissime e le punizioni molto severe.
Il dolore provocato dalla separazione dalla famiglia e l’allontanamento dalla loro cultura e dal loro patrimonio ha provocato nelle “generazioni rubate” un trauma spesso sfociato nell’abuso di alcol e droghe, violenza domestica e vita senza fissa dimora, con un impatto fortissimo sulla generazione successiva.
La violenza domestica e la penuria di alloggi
Dopo la separazione dei genitori, Naomi si è trovata a 14 anni senza casa e ha vissuto in diversi ostelli nei dintorni di Melbourne.
“Ho lavorato in molte fabbriche a Richmond. Trovavo dei lavoretti con cui mantenermi”, racconta. “Però non avevo l’età per affittare una casa, perciò dovevo vivere in questi ostelli o cercare sistemazioni di fortuna in casa di altri”.
Descrive gli ostelli “sempre lerci, pieni di persone di ogni genere, soprattutto anziani. Io ero molto giovane. Avevo paura”.
Le storie come quella di Naomi non sono rare in Australia. Di fatto la violenza domestica è la causa principale della condizione di senzatetto nel paese e le donne rappresentano quasi la metà delle persone che vivono così. Secondo le statistiche, più di un terzo delle donne di età superiore ai 15 anni ha subìto violenze fisiche, psicologiche o sessuali da parte del partner attuale o di un ex. A causa di questa minaccia alla loro sicurezza, donne come Naomi sono costrette ad andarsene di casa, spesso insieme ai loro figli.
Gli uomini senzatetto spesso dormono all’aperto, ma le donne in queste condizioni di frequente sono con bambini che dipendono da loro. Questo le spinge a cercare sistemazioni più sicure della strada, per esempio chiedendo ospitalità ad amici, in alloggi o pensioni o sistemandosi perfino in auto.
L’opinione pubblica ha una percezione imprecisa riguardo le donne senzatetto
Naomi, che ha avuto il primo dei suoi tre figli all’età di 22 anni, ha vissuto una serie di relazioni violente che, sommate alle esperienze vissute da bambina, l’hanno indotta a ritenere la violenza domestica una parte normale della vita.
“Pensavo che la violenza fosse la norma. A un certo punto ti ci abitui e basta”, racconta. Le capitava spesso di dover scappare di casa senza preavviso con i figli e andare a stare da amici o parenti, prendere in affitto posti letto in case di altri o tornare a vivere temporaneamente negli ostelli.
“Pensavo fosse normale anche dover fare le valigie e trasferirsi in un altro posto”, racconta. “L’ho fatto per molto tempo con i due figli più grandi, poi a un certo punto mi sono detta ‘no, così non va bene’, proprio non andava”.
Problemi strutturali
Secondo gli esperti, l’opinione pubblica ha una percezione imprecisa riguardo le donne senzatetto, poiché le donne che vivono così sono spesso “invisibili”.
“Le donne vivono questa condizione in modo molto diverso”, afferma Anna Paris, direttrice operativa della Sacred heart mission, una ong di Melbourne che offre una serie di servizi a chi non ha casa, tra cui la distribuzione di pasti e un posto sicuro per le donne. “Non se ne vedono molte a dormire per strada, nei luoghi di lavoro o posti simili, ed è meno probabile che si sistemino in pensioni”.
“Spesso si pensa che le donne senza fissa dimora siano una percentuale molto bassa, ma in realtà sappiamo che rappresentano una proporzione molto più alta, quasi il 50 per cento. Sono però diversi il modo in cui il fenomeno si presenta e il modo in cui è misurato”.
Spesso le donne finiscono per tornare in un ambiente violento per mancanza di alternative
Secondo Paris, oltre alla violenza domestica e ai traumi, anche la penuria di alloggi nello stato di Victoria, dove si trova Melbourne, ha un forte impatto sul fenomeno. “Le persone si rivolgono ai servizi per i senzatetto ogni giorno, ma molti di questi problemi sono strutturali”, spiega. “C’è una grave penuria di alloggi economici, soprattutto per donne sole, che ricevano i sussidi o meno”.
Nel 2015 si sono conclusi con 227 raccomandazioni i lavori di una commissione sulla violenza familiare istituita dal governo dello stato di Vittoria. Una di queste raccomandazioni si riferiva alla necessità di riconoscere alle donne vittime di violenza familiare una priorità nell’assegnazione di alloggi popolari, un impegno che il governo punta a mantenere annunciando la costruzione di nuovi complessi di case popolari.
Paris loda il governo per le politiche di prevenzione dimostrate nel contrasto alla violenza domestica e alla condizione di senzatetto che ne può conseguire, ma è convinta che ci sia ancora molto da fare e che spesso le donne finiscano per tornare in un ambiente violento solo per mancanza di alternative. “Anche chi è inserita in un gruppo a cui è data priorità può aspettare anni prima di ottenere l’assegnazione di una casa”, racconta.
Una condizione determinata dal genere
Sam Sowerwine è un’avvocata a capo della squadra di risposta alla condizione di senzatetto di Justice connect, un servizio di consulenza legale per la comunità che si occupa di diverse questioni sociali, garantendo alle persone marginalizzate e svantaggiate accesso al sistema legale e a un’educazione alla legalità. A suo avviso “la mancanza di visibilità rende molto più difficile quantificare l’esperienza del vivere senzatetto per le donne. Di sicuro è sottostimata. E poi c’è una forte preoccupazione per la sicurezza”.
Il progetto di prevenzione attuato dall’organizzazione punta a garantire che le vittime di violenza domestica e familiare possano essere alloggiate in posti sicuri. Offre un servizio integrato che non solo assiste le donne sul piano legale, ma le mette in collegamento con altri servizi sociali come quelli di consulenza psicologica o quelli che si occupano dell’assegnazione di alloggi popolari.
La squadra mette a disposizione avvocati e assistenti sociali che forniscono un servizio “su misura”. Sam spiega che la combinazione tra la mancanza di case popolari e affitti privati troppo cari fa sì che le donne non riescano a trovare una sistemazione adeguata. “Una volta sprofondate nella condizione di senzatetto, per le donne è molto più difficile avere accesso ad alloggi adeguati e sicuri”, afferma. “E questo ha un impatto enorme sulle loro vite e su quelle dei loro figli”.
Il fatto che molte di loro continuino a dover provvedere da sole all’accudimento dei bambini dopo la fine di una relazione crea ulteriori pressioni economiche, soprattutto per ciò che concerne la possibilità di prendere in affitto una casa e il crescente costo della vita.
Altri elementi di pressione economica sono le disuguaglianze sul posto di lavoro – le donne sono pagate meno degli uomini – e la mancanza di risparmi. Non stupisce il fatto che lo stress provocato dall’insicurezza economica, dalla rottura delle relazioni, dalla responsabilità dell’accudimento dei figli e dalla violenza domestica sia spesso inevitabilmente esacerbato dal disagio mentale.
“Restano così intrappolate in un circolo vizioso fatto di difficoltà nel trovare un alloggio e sistemazioni temporanee conseguenti alla mancanza di condizioni abitative più stabili”, afferma Sam.
Per le donne aborigene come Naomi i casi di violenza domestica sono ancora più frequenti. In media le donne indigene hanno 35 probabilità in più di essere ricoverate in ospedale a causa di episodi di violenza domestica o familiare rispetto alle non indigene. Tuttavia negli ultimi anni Naomi è riuscita a riprendere in mano la sua vita, spostandosi nel Queensland per allontanarsi dal suo passato violento e concentrarsi sulla necessità di far crescere i figli in un ambiente sano.
Lavora anche nel settore dell’assistenza legale alla comunità, dove spera di poter cambiare le vite di altre persone indigene. Si dedica alla guarigione dei traumi di donne che hanno sperimentato la violenza ed è convinta della necessità di iniziative in cui alle donne vittime di violenza domestica si dà la possibilità di raccontare le loro storie ai loro aguzzini in carcere.
“Chi commette queste violenze fa parte della nostra stessa comunità, perciò non possiamo rinchiuderli e dimenticarci di loro. Alla fine torneranno a casa, e allora cosa succederà? E qual è il nostro ruolo di donne aborigene in questo processo? Non sarebbe meglio se questi uomini – i nostri uomini – ascoltassero le testimonianze dirette della donna che è stata danneggiata? E si sentano dire ‘ecco come mi hai fatto sentire, ecco cosa succede. Non fai del male solo a noi, fai del male anche ai nostri figli, fai del male alla nostra comunità’”.
“Noi siamo le donne, la madri, le zie”, dice. “Noi donne siamo parte di questo processo di guarigione”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul sito d’informazione online Al Jazeera.
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