In Sri Lanka un collettivo sfida la crisi con i dati
La sera del 3 maggio al Galle face green, un parco pubblico che dà sul mare a Colombo, la città più importante dello Sri Lanka, gli adolescenti suonano trombette di plastica. I genitori passeggiano con i bambini sulle spalle. Qualcuno sale su podi improvvisati per rivolgersi alla folla, accolto da applausi. Sembra di essere a una festa, invece è una delle tante proteste che da marzo inondano il paese per chiedere la destituzione del presidente Gotabaya Rajapaksa e soluzioni alla crisi economica più grave degli ultimi settant’anni.
Yudhanjaya Wijeratne è lì e osserva. Indica il punto in cui i manifestanti hanno costruito una rete elettrica saldando dei pannelli solari su un camion scoperto e collegandoli a una batteria. Con l’energia ricavata riescono ad alimentare più di venti smartphone che emanano le loro luci in una grande tenda blu, dove è stata allestita una biblioteca con quindicimila libri. “Questo è quello che producono gli srilanchesi se li lasciate fare: strutture costruite da zero, cazzo”, dice a Nilesh Christopher, il giornalista di Rest of World che è lì con lui. “La vera ricchezza che dovremmo esportare è la laurea in contestazione”, aggiunge.
Wijeratne ha 29 anni. È alto, con i capelli arruffati e la barba incolta, scrive Christopher. Ha imparato da solo a programmare usando un computer recuperato da una discarica, vicino a un negozio che vendeva pc e telefoni di seconda mano. Sul braccio destro ha un tatuaggio di un albero con il casco di Darth Vader. “Ama discutere, impreca continuamente e cita a memoria frasi di George Bernard Shaw. Quando non parla, fuma”.
È conosciuto soprattutto per aver scritto Numbercaste, un romanzo di fantascienza ambientato in un futuro non troppo lontano in cui tutti sono associati a un punteggio in base alle loro frequentazioni e all’attività sui social network. Ma da qualche mese in Sri Lanka si parla di lui anche perché è una delle menti dietro il collettivo Watchdog. Il gruppo formato da una decina di persone tra informatici, giornaliste, economisti, ricercatrici e studenti in realtà esiste dal 2019 come sito e app di fact-checking, cioè di verifica delle notizie e delle loro fonti.
Il collettivo è partito da dati open source e da lì ha localizzato e verificato i video sulle manifestazioni
Era nato in risposta a una serie di attentati che avevano traumatizzato il paese e scatenato una folle caccia ai musulmani: i social straripavano di contenuti che li accusavano di voler contaminare l’acquedotto, di pianificare attacchi e di far circolare una pillola che rendeva le donne sterili. Per smentire queste voci il collettivo aveva costruito in due giorni un’app, combinando un foglio di calcolo di Google, migliaia di messaggi usciti su gruppi WhatsApp e Facebook e una squadra di volontari e giornalisti da contattare per farsi dare una mano. Quando gli utenti accedevano all’app, si trovavano davanti due elenchi di notizie: quelle verificate da un lato e quelle false dall’altro.
Negli ultimi mesi, però, Watchdog ha attirato l’attenzione di un numero crescente di srilanchesi, e delle autorità, per il suo Protest tracker: una mappa delle proteste. Per costruire e aggiornare questa mappa il collettivo è partito da dati open source, cioè liberamente accessibili – archivi pubblici, post sui social network, immagini satellitari – e da lì ha localizzato e verificato i video sulle manifestazioni che venivano pubblicati online.
Nella prima settimana, Watchdog ha controllato e classificato filmati girati in 116 luoghi del paese, fornendo stime sulle dimensioni di ogni assembramento e altre informazioni. Poi, quando le autorità si sono mosse per reprimere le contestazioni, ha cominciato a raccogliere ed esaminare i video che mostravano le violenze compiute dalla polizia, gli scontri e le manifestazioni filogovernative.
Fra il 30 marzo e l’11 maggio ha confermato 597 mobilitazioni e 49 scontri, offrendo l’archivio online più completo delle proteste. La sua mappa è stata citata da mezzi d’informazione locali e internazionali come fonte affidabile. Ad aprile ha raggiunto più di un milione di utenti.
Ma il collettivo non si è fermato lì. Ha indagato anche sulle ragioni che portavano le persone a scendere in strada. Per esempio, le interruzioni di corrente: le case restavano continuamente senza luce, anche per tredici ore di fila. Il governo, tuttavia, insisteva che si trattava d’incidenti isolati, assicurando che la fornitura di elettricità era costante. C’era una distanza enorme tra l’esperienza quotidiana delle persone e la versione ufficiale. Così Watchdog ha chiesto agli utenti di indicargli la posizione e la durata dei blackout; ha incrociato quei dati con i documenti pubblici sulla fornitura di energia elettrica e i bilanci delle aziende che erogavano il servizio. Alla fine ha dimostrato che queste aziende statali non avevano pianificato un’offerta che coprisse la domanda ed erano sommerse dai debiti, per cui non avevano i soldi per acquistare il carburante necessario a far arrivare la luce ovunque.
Dopo i blackout, il gruppo si è dedicato agli ospedali, a cui mancavano farmaci e attrezzature. Per aiutarli a fare scorta, ha elaborato un semplice modulo (sempre un foglio di Google) su cui medici e strutture potevano indicare i medicinali che avevano esaurito o stavano per finire. Poi ha creato un archivio pubblico che funziona come un sistema di previsione della domanda: abbina ogni richiesta a un elenco di fornitori approvati dalle autorità competenti. Una volta che la loro domanda appariva nell’archivio, i medici dovevano solo aspettare che i donatori o le organizzazioni umanitarie si attivassero per fargli avere quello di cui avevano bisogno.
Il problema è che le urgenze sono senza fine: la corrente continua a saltare, i generi alimentari scarseggiano. A fine giugno le scuole statali sono state chiuse e il personale negli uffici pubblici è stato ridotto all’osso per limitare la circolazione delle auto, cioè il consumo di carburante. In tanti sperano in una nuova mappa di Watchdog, stavolta sulle pompe di benzina.
Questo articolo è tratta da una newsletter di Internazionale che racconta cosa succede nel mondo della scuola, dell’università e della ricerca. Ci si iscrive qui.