Parlare con tatto
Ci sono due pregiudizi sulle persone sordocieche: che abbiano bisogno di assistenza continua e che non sia facile comunicare con loro. Queste idee le hanno emarginate per secoli.
L’isolamento è stato in parte contenuto dai segni nati spontaneamente all’interno delle famiglie. Negli Stati Uniti dell’ottocento, Laura Bridgman per dire padre apriva la mano da una guancia all’altra, disegnando dei baffi (simili a quelli di suo papà); un paio di generazioni dopo Helen Keller poteva contare su decine di segni domestici (per esempio, per indicare pane faceva il gesto di tagliare una fetta e imburrarla).
Il sistema di scrittura braille esisteva già. Durante la vita di Keller, che è stata piuttosto celebrata nel paese, sono nati altri sistemi di comunicazione per agevolare chi ha una disabilità sia alla vista sia all’udito: il metodo Tadoma, in cui si appoggia il pollice sulla gola dell’interlocutore e il resto delle dita sulle labbra e sulla mascella, una sorta di lettura tattile delle labbra; il “guanto alfabetico” (cioè con le lettere stampate sopra), che trasforma la mano in una specie di tastiera. Nel novecento poi sono arrivati gli apparecchi acustici e gli impianti cocleari. Sono stati anche sviluppati adattamenti tattili delle lingue dei segni, che sono molte nel mondo (c’è quella americana, per esempio, abbreviata in asl, o quella italiana, chiamata anche lis).
Il tatto, com’è prevedibile, è sempre al centro di questi sistemi.
Concentrazione e sforzo
Quando pensiamo al tatto di solito ci concentriamo sulle mani e sui polpastrelli. Sbagliamo. Un articolo del sito The Conversation spiega che per le persone sordocieche “il tatto coinvolge tutto il corpo: dalla cima della testa per sentire la luce del Sole, ai piedi per capire dove ci si trova per strada”. I piedi aiutano a creare una specie di mappa mentale, con cui decifrare l’ambiente mentre si cammina e riconoscere le caratteristiche dei diversi spazi.
Sentire e leggere la realtà toccandola richiede tempo e molta concentrazione, e a volte può essere faticosissimo. “Sei pienamente consapevole dei limiti del tuo udito e della vista, e quindi il tuo cervello deve compensare, e anche il tuo corpo deve farlo”, racconta una persona citata nell’articolo. “Cerchi disperatamente di ottenere quante più informazioni possibili, in qualsiasi modo”.
Nuccio articolava le parole sulla mano di Clark, ma anche sulle sue braccia, sulla schiena, sul petto e sulla parte inferiore delle cosce
Questo sforzo forse è rappresentato al meglio da un altro sistema di comunicazione tattile: il protactile, o pt. Il pt è nato una ventina di anni fa a Seattle, negli Stati Uniti, grazie all’impegno di due persone sordocieche, Jelica Nuccio e aj granda (nome scritto tutto in minuscolo), che volevano rendere più accessibile la comunicazione tattile. In neanche una decina di anni il pt è passato da essere un insieme di pratiche di comunicazione a un movimento nazionale.
John Lee Clark, sordocieco dall’adolescenza, ha scoperto questo metodo nel 2013, partecipando a un corso di formazione tenuto proprio da Nuccio. Il New Yorker, in un articolo molto bello dedicato al protactile, descrive il momento in cui Nuccio ha mostrato a Clark come funzionava. Si sono seduti l’uno di fronte all’altra. Poi Nuccio ha appoggiato la mano di Clark sul suo ginocchio, spiegando che, mentre lei parlava, lui avrebbe dovuto darle un colpetto per indicarle che aveva capito, come se fosse un cenno del capo, una pratica chiamata back-channelling. Nuccio articolava le parole sulla mano di Clark, ma anche sulle sue braccia, sulla schiena, sul petto e sulla parte inferiore delle cosce.
Dopo il corso di formazione Clark ha inserito alcune delle pratiche che aveva appena imparato nelle interazioni con la sua famiglia. Lui e la moglie hanno cominciato a usare un principio di protactile noto come compresenza: se lei entrava in una stanza, lo sfiorava per fargli sapere che era lì. Prima, durante i pasti, chi mangiava accanto a Clark interpretava ciò che dicevano gli altri. Ora, invece, cercavano di avere conversazioni tattili di gruppo.
Senza comunità
Terra Edwards, un’antropologa del linguaggio, e Diana Brentari, una linguista, hanno studiato i gesti che compongono le parole del protactile e li hanno catalogati: si può tracciare, afferrare, muovere, schiaffeggiare e così via. Hanno anche individuato regole condivise per combinare i movimenti. La loro conclusione è che il sistema si potrebbe considerare una lingua a sé. Tra i colleghi, però, in tanti non sono d’accordo: il pt ha tante lacune; è più simile a un dialetto dell’asl; e soprattutto gli manca una comunità di parlanti densa e presente.
Centinaia di migliaia di persone negli Stati Uniti soffrono di una perdita combinata dell’udito e della vista (in Italia sono circa 189mila, secondo una stima realizzata nel 2016 dall’Istat e promossa dalla Lega del filo d’oro). La maggior parte di loro, però, si è trovata in questa condizione da anziana, cioè dopo aver potuto vedere e sentire per quasi tutta la vita. Un gruppo molto più ristretto – circa diecimila persone – diventa sordocieco prima, e una delle principali cause genetiche è la sindrome di Usher, per cui si può nascere sordi e perdere gradualmente la vista.
Per la navigazione online il braille può essere un incubo!
Tra le persone sordocieche quelle che usano ogni giorno il protactile sono solo alcune centinaia: poche. George Stern, uno scrittore statunitense che di solito adopera apparecchi acustici e comunica oralmente, dice al giornalista del New Yorker: “Sono contento che dei volenterosi stiano sviluppando il pt in quanto lingua. Ma come sarà dove abito io? Io non vivo in una comunità sordocieca. Vivo in un mondo prevalentemente udente, immerso in una cultura che non ha un buon rapporto con il tatto”.
Alcuni studenti universitari hanno provato a ridurre le distanze tra questi mondi, combinando la particolare sensibilità al tatto delle persone sordocieche con la tecnologia. Hanno progettato dei dispositivi in grado di inviare colpetti e pressioni a distanza: una sorta di FaceTime tattile primitivo. Ma la loro invenzione poteva trasmettere solo singoli, lenti colpetti su una porzione limitata del corpo, e non aveva nulla della ricca gamma di schiacciamenti e pressioni che offre un metodo come il pt. Insomma, non è stata un successo. Oggi molte persone sordocieche si tengono in contatto usando un display in braille, con punti che si muovono su e giù. Solo che per la navigazione online il braille può essere un incubo! Va meglio con le email, grazie al software Listservs.
Paradossalmente a imprimere un’accelerazione a questo genere di tentativi è stato il covid-19, che ha sì imposto il distanziamento fisico e ha stravolto gli spazi esterni (pensate ai bar e ai ristoranti che si sono espansi sui marciapiedi), ma ha anche sollecitato soluzioni alternative. Una ricercatrice e videomaker, Azadeh Emadi, e un fisico quantistico, Daniele Faccio, entrambi dell’università di Glasgow, nel Regno Unito, si sono resi conto che serviva qualcosa che aiutasse i sordociechi a spostarsi in modo autonomo negli ambienti che la pandemia aveva trasformato. Così hanno provato a costruire uno strumento di “consapevolezza spaziale”, in grado di localizzare con precisione le persone e gli oggetti nelle vicinanze. Il progetto si chiama Touch post-covid-19 ed è finanziato dall’Uk research and innovation (Ukri, un’istituzione pubblica britannica).
In un ciclo di laboratori avviati nel giugno 2021 il gruppo di ricerca ha coinvolto dei volontari sordociechi per capire come immaginavano, memorizzavano e mappavano uno spazio, con e senza il tatto – e quindi di cosa potevano avere bisogno.
Il prototipo dello strumento era composto da tre elementi: un radar portatile e due dispositivi indossabili (una fascia e un bracciale). Il radar scansionava lo spazio in un raggio di sei metri, rilevando persone e movimenti. Queste informazioni erano trasformate in vibrazioni di diversa intensità nella fascia (per indicare la direzione di una persona) e nel bracciale (per la distanza dal soggetto). Ma i segnali creavano confusione in chi li riceveva. Sarebbe stato meglio combinare i due tipi d’informazione in un unico meccanismo, sempre indossabile. Un cappellino, per esempio.
“Privilegiare la vista rispetto agli altri sensi significa rischiare di perdere esperienze e connessioni, non da ultimo con chi ha una disabilità”, afferma Emadi. “L’ambizione della nostra ricerca, che combina una comprensione più approfondita delle esigenze dei sordociechi con una tecnologia quantistica all’avanguardia, non è solo consentire a queste persone di partecipare alla vita sociale. Vogliamo anche usare la loro percezione unica del mondo per arricchire quella di tutti gli altri”.
Se volete vedere il protactile all’opera, vi segnalo questo video realizzato un paio di anni fa dal settimanale Christian Science Monitor. Mentre qui trovate qualche informazione su un progetto di ricerca che si concentra su un altro sistema di comunicazione per sordociechi, i segnali aptici. Il progetto è stato lanciato nel 2019 dall’European sign language centre, in Svezia, e coinvolge l’Association of teachers of deaf/hearing impaired children dell’Estonia, l’università di Porto, in Portogallo, e l’università Ca’ Foscari di Venezia (che ha attivato un corso specifico di lingua dei segni tattile o list).
Questo articolo è tratto dalla newsletter di Internazionale Doposcuola, che racconta cosa succede nel mondo della scuola, dell’università e della ricerca. Ci si iscrive qui.