×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Chi ha paura del bosco?

George Berberich, Unsplash

Per Mario Rigoni Stern la più bella descrizione di una quercia è quella che fa Lev Tolstoj in Guerra e pace, quando il principe Andrej è diretto a Rjazan una mattina di primavera del 1809: “Sul margine della strada c’era una quercia. Probabilmente dieci volte più vecchia delle betulle che formavano il bosco, era dieci volte più grossa e due volte più alta di ogni betulla. Era un’immensa quercia che aveva due braccia di circonferenza, con i rami spezzati certo da molto tempo e la corteccia screpolata, coperta di antiche ferite. Con le sue enormi braccia e le sue dita tozze, divaricate senza simmetria, essa si ergeva come un vecchio mostro, irato e sprezzante, in mezzo alle sorridenti betulle”.

In Arboreto selvatico (Einaudi 1991) Rigoni Stern spiega che, “per le loro qualità e per la loro maestà, le querce erano venerate dagli uomini fin dai primordi della civiltà”, e le loro foreste più belle erano sacre e inviolabili. I poeti raccontavano che dalle querce erano nati certi uomini e alcune divinità. Le querce furono le prime chiese, i primi centri della comunità, perché sotto la loro ombra i popoli si raccoglievano per le assemblee e “per apprendere la sapienza degli anziani”, continua lo scrittore. Erano insomma l’Albero per eccellenza.

Questa pianta è anche la protagonista di un documentario francese, La quercia e i suoi abitanti, uscito nei cinema italiani un paio di settimane fa e ancora in qualche sala. Il film, diretto da Laurent Charbonnier e Michel Seydoux, racconta (senza l’uso delle parole) le giornate di una quercia di più di duecento anni e della moltitudine di animali che la abitano, la scalano, le passano accanto o raccolgono i suoi frutti. Impariamo a conoscere i topi selvatici, uno scoiattolo rosso, la cinciarella, il barbagianni, e poi nutrie, caprioli, cinghiali, scarabei, e perfino un saettone (una specie di serpente lunghissimo). Vediamo la femmina del balanino, un piccolo insetto con una lunga proboscide rossa, che dopo l’accoppiamento depone le uova sulla ghianda, e poi un inseguimento al cardiopalmo tra una ghiandaia e un astore. Osserviamo l’albero e gli animali mentre sono inondati di sole o immersi nel buio, sotto una pioggia scrosciante, in primavera, in inverno.

La quercia e i suoi abitanti è un film poetico, una favola pensata soprattutto per l’infanzia. Ma anche per gli adulti è difficile non restare incantati davanti alla bellezza di quell’immenso albero secolare o ai comportamenti e ai gesti, alcuni molto umani, degli animali.

La vita sociale degli alberi
Le foreste sono sistemi viventi complessi in cui enormi reti sotterranee di funghi permettono agli alberi di cooperare e comunicare tra loro. Ma cosa si dicono? Dall’archivio di Internazionale.

L’affinità con il mondo naturale è stata chiamata biofilia dal biologo statunitense E.O. Wilson, quasi quarant’anni fa. Ma la biofilia ha anche il suo contrario: la biofobia. Chi non conosce qualcuno che ha il terrore dei ragni, che scappa quando vede un pipistrello o a cui fanno schifo i vermi? Per biofobia si intende qualsiasi atteggiamento negativo nei confronti della natura, dalle reazioni fobiche come l’aracnofobia (la paura dei ragni appunto) all’ansia e al disgusto.

“Ci sono ragioni evolutive per queste emozioni”, notano i ricercatori Ricardo Correia e Stefano Mammola su The Conversation. “Nel nostro passato ancestrale, il mondo selvatico era pieno di potenziali pericoli e tenere a distanza certi elementi può aver aiutato i primi esseri umani a sopravvivere e a diffondersi come specie. Ma oggi? Considerato che più della metà della popolazione mondiale viveva in aree urbane e lontane dalla fauna selvatica, sarebbe normale aspettarsi una riduzione della biofobia”. Invece non solo non è diminuita, ma sembra crescere.

Secondo Masashi Soga, ecologo dell’Università di Tokyo, in Giappone, molte persone hanno paura di organismi selvatici in cui difficilmente s’imbatteranno o che non sono pericolosi. Nel 2020 Soga e un suo collega hanno condotto un esperimento su 13mila adulti e hanno rilevato un forte disgusto e odio per insetti e altri invertebrati, soprattutto tra chi vive in città e passa poco tempo nella natura. Chi non sapeva distinguere gli insetti aveva una maggiore probabilità di trovare ripugnanti anche quelli innocui, come le coccinelle per esempio. Un altro studio, stavolta su 5.375 bambini, ha portato a conclusioni simili.

Per prevenire la biofobia, o addirittura convertirla in biofilia, è importante capire come nasce. Il “circolo vizioso della biofobia”, come l’hanno chiamato Soga e il suo team, si basa sulla premessa che gli esseri umani tendono a temere le sensazioni negative e cercano di evitarle. Una persona che ha paura della natura è più propensa a starne alla larga. Mantenendo le distanze, comincia a sentirsi sempre più sconnessa dal mondo selvatico, perdendo ogni interesse a conoscerlo. E visto che in genere si ha paura di quello che non si conosce, la fobia e l’avversione aumentano. Graham Lawton su New Scientist riassume questa dinamica in due concetti. Uno è “estinzione dell’esperienza”, ovvero la perdita delle interazioni dirette tra esseri umani e natura. L’altro è “slittamento dei parametri di base”, l’idea che, man mano che il mondo selvatico viene distrutto, ciò che le persone percepiscono come naturale è definito dalla loro minore esperienza della natura.

Questo circolo vizioso non ha conseguenze solo sulla salute degli individui. È un problema serio anche per l’ambiente e la biodiversità, perché se non ci si preoccupa di qualcosa, non si farà molto per proteggerlo.

Per fortuna, i rimedi ci sono. Uno è investire nell’istruzione, scrive Emily Harvitz su Hakai Magazine: i bambini si lasciano suggestionare facilmente e avvicinarli al mondo selvatico in un contesto sicuro, per esempio con un insegnante, può cambiare il modo in cui percepiscono la natura. Per Masashi Soga, l’ecologo giapponese, la scuola è stata fondamentale. I suoi genitori non erano grandi amanti della vita all’aperto, ma il maestro delle elementari sì. “Mi ha insegnato lui a collezionare le farfalle, a distinguerle e classificarle”, ricorda il ricercatore.

Al di là della scuola, ci sono le iniziative dei musei e dei parchi, le passeggiate guidate. Anche attività come curare un orto o fare giardinaggio possono avere effetti positivi. Dove non è facile accedere alla natura, potrebbe anche intervenire la realtà virtuale. Può far storcere il naso a qualcuno, ma le soluzioni creative servono: con città sempre più grandi e popolate, l’accesso agli spazi verdi sta diventando complicato per molti, soprattutto per chi vive in comunità a basso reddito, spiega Linda Powers Tomasso, una ricercatrice di Harvard specializzata in salute pubblica. Se queste alternative non vi convincono, ci sono sempre uno scrittore che parla stupendamente di alberi e di boschi, e un film delizioso su una quercia.

Questo testo è tratto dalla newsletter Doposcuola.

pubblicità