×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Cosa ci insegnano quattro coronavirus del passato

Un medico effettua dei test su un paziente per capire se è affetto da covid-19 in un ospedale di Chennai, India, 13 aprile 2020. (P. Ravikumar, Reuters/Contrasto)

Nel 1889 una malattia apparsa per la prima volta in Asia centrale si diffuse in tutto il mondo, trasformandosi in una pandemia che durò tutto l’anno successivo. Provocava febbre e affaticamento, e uccise circa un milione di persone. Fu chiamata “influenza russa”, ma senza campioni di tessuto per individuare il tipo di virus, non abbiamo prove certe che fosse davvero un’influenza. C’è un’altra possibilità: quella pandemia potrebbe essere stata causata da un coronavirus. E il colpevole potrebbe essere stato un virus isolato per la prima volta negli anni sessanta del novecento, che oggi causa un comune raffreddore.

I coronavirus responsabili del 20-30 per cento dei raffreddori sono quattro. Solo di recente i virologi hanno cominciato a studiarli a fondo e quello che hanno scoperto fa pensare che in passato fossero più letali. I ricercatori ritengono che tutti e quattro i virus abbiano cominciato a infettare gli umani solo negli ultimi secoli e che inizialmente abbiano scatenato una pandemia. I paralleli con la situazione attuale sono evidenti. Saperne di più su questi coronavirus del passato potrebbe aiutarci nella lotta contro il Sars-cov-2. Comprendere meglio le origini, la traiettoria evolutiva e le caratteristiche dei coronavirus che causano il raffreddore potrebbe darci indicazioni importanti su cosa aspettarci nei prossimi mesi. Conoscere questi virus relativamente innocui potrebbe perfino aiutarci a evitare un’altra pandemia.

I coronavirus fanno parte di una grande famiglia di virus noti soprattutto per scatenare le malattie nel bestiame. Fino a poco tempo fa, attiravano l’attenzione di pochi studiosi. “I coronavirus che colpiscono gli umani furono isolati per la prima volta negli anni sessanta del novecento”, dice Frank Esper, della Cleveland clinic in Ohio. Ma i due ceppi scoperti provocavano solo il raffreddore. “Così li abbiamo accantonati”, spiega Esper, “perché c’erano virus più importanti da studiare”.

Quest’atteggiamento cambiò nel 2002, l’anno in cui un nuovo virus di quella famiglia cominciò a infettare gli esseri umani. Nel tempo necessario a fermare l’epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (Sars), che finì solo l’anno successivo, il virus Sars-cov-1 colpì 26 paesi, facendo ammalare più di ottomila persone, delle quali una su dieci morì. Il fatto che un coronavirus potesse essere così letale fece scattare un campanello d’allarme. Un virus apparentemente innocuo finì improvvisamente al centro dell’attenzione dei virologi di tutto il mondo.

Chiavi per entrare
Ben presto si riuscì a risalire alle sue origini e furono scoperti virus imparentati nei pipistrelli, animali con una fisiologia insolita che gli consente di convivere con un gran numero di coronavirus senza ammalarsi. Sembra che l’epidemia di Sars sia scoppiata quando un virus dei pipistrelli passò agli zibetti e da lì agli esseri umani.

La superficie dei coronavirus è coperta di proteine che funzionano come chiavi in grado di aprire diversi tipi di cellule in diverse specie di ospiti. Queste proteine possono cambiare forma a causa di mutazioni genetiche, o quando i virus si scambiano materiale genetico tra loro, aprendosi la strada verso nuovi ospiti. Quando scoppiò l’epidemia di Sars, apparve chiaro che gli ospiti potevano anche essere umani. Colti alla sprovvista, i virologi s’imbarcarono in una caccia ai coronavirus, cercando di rintracciarli nelle persone e negli animali per capire come avvenivano le mutazioni e quali erano i potenziali rischi per il futuro.

Una cacciatrice di virus era già più avanti di tutti. Lia van der Hoek, dell’università di Amsterdam, aveva perfezionato una tecnica genetica per scoprire virus sconosciuti e aveva trovato un altro coronavirus, l’Hcov-nl63, in un bambino di sette mesi con la bronchiolite. “Ho scoperto l’Nl63 per caso, prima che venissimo a conoscenza della Sars e che il mondo intero cominciasse a indagare”, dice. I successivi dieci anni di ricerche hanno mostrato che l’Nl63 è molto diffuso, colpisce dall’1 al 9 per cento della popolazione mondiale con infezioni delle vie respiratorie. Provoca febbre, tosse, mal di gola, bronchite e polmonite. Fa ammalare soprattutto i bambini piccoli. “La tosse abbaiante, simile al verso delle foche, è tipica dell’Nl63”, dice Van der Hoek.

Virus imparentati con l’Nl63 sono stati trovati nei maiali, nei gatti e nei pipistrelli. Nel 2012 dalle comparazioni genetiche tra i virus umani e quelli trovati nei pipistrelli è emerso che tra 563 e 822 anni fa avevano un antenato comune. Questo fa pensare che il virus abbia fatto il salto di specie, passando agli esseri umani, fra il tredicesimo e il quindicesimo secolo. Quando accadde, probabilmente scoppiò una pandemia, osserva Ralph Baric, virologo dell’università del North Carolina. Come il Sars-cov-2, il virus che provoca il covid-19, l’Nl63 originario fu sicuramente fatale per una popolazione che non aveva ancora sviluppato nessuna forma d’immunità. Entrambi i virus si attaccano allo stesso recettore cellulare, l’enzima 2 convertitore dell’angiotensina (Ace2), abbondante nei polmoni e nell’intestino. “La malattia somigliava probabilmente all’influenza”, spiega Baric. “Ma causava sintomi più gravi negli anziani”.

Baric vorrebbe che gli storici della medicina cercassero le prove di questa pandemia medievale, ma non ci sono garanzie di trovarle. All’epoca circolava un gran numero di agenti infettivi, compresi virus influenzali e batteri come quello della tubercolosi, spiega Van der Hoek: “Non sono sicura che nel medioevo una pandemia di Sars sarebbe stata notata”. Ma forse si possono trovare le prove di un’altra pandemia da coronavirus più recente. Ed è qui che entra in ballo l’influenza russa.

Non una semplice influenza
Dopo la Sars ci fu una rinnovata attenzione per due coronavirus apparentemente poco interessanti scoperti negli anni sessanta, l’Hcov-229e e l’Hcov-oc43. “Questi virus non hanno nomi di fantasia, il che significa che sono stati studiati poco”, dice Marc Van Ranst dell’università cattolica di Lovanio, in Belgio. Nel 2003 Van Ranst e la sua équipe sequenziarono per primi il genoma dell’Oc43, che era stato isolato nel 1967. Confrontando la sequenza con quella dei ceppi trovati in altri animali, i ricercatori arrivarono alla conclusione che l’Oc43 doveva aver avuto origine nei bovini o nei suini. Tenendo conto del tasso di mutazione stimato e risalendo all’indietro nel tempo, calcolarono che il passaggio agli esseri umani doveva essere avvenuto nel 1890.

Questa data non è l’unico elemento che collega l’Oc43 all’influenza russa. Molte persone che si ammalarono riportarono danni al sistema nervoso centrale. Anche se oggi l’Oc43 è per lo più associato ai raffreddori, si ritiene che colpisca soprattutto i tessuti nervosi. Si sospetta che possa avere un ruolo in varie patologie del sistema nervoso come la polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica e la sclerosi multipla. Inoltre il caso del 1994 di un bambino di sei anni che contrasse un coronavirus bovino fa pensare che i ceppi del bestiame possano infettare gli umani. Se l’Oc43 fu responsabile di una pandemia alla fine dell’ottocento, negli ultimi 130 anni ha perso molta della sua pericolosità. “Probabilmente ha continuato a nuocere per un buon numero di anni, come le brutte epidemie d’influenza, fino a quando non ha perso la sua capacità patogena”, dice Van Ranst.

Il coronavirus 229e fu isolato negli anni sessanta e dagli esperimenti successivi è emerso che metà dei volontari infettati si ammalavano di raffreddore tra i due e i cinque giorni dopo. Nel 2007 è tornato alla ribalta quando si è scoperto un suo stretto parente nei polmoni degli alpaca con patologie respiratorie. Intanto un gruppo di ricercatori guidato da Christian Drosten, che all’epoca lavorava all’università di Bonn, in Germania, aveva studiato una serie di coronavirus dei fillostomidi, una famiglia di pipistrelli che vive in Ghana. Gli studiosi avevano concluso che il 229e era passato agli esseri umani tra il 1686 e il 1800.

Le tessere del puzzle cominciarono a incastrarsi nel 2012, quando un coronavirus misterioso e letale colpì per la prima volta l’Arabia Saudita dove si diffuse la sindrome respiratoria mediorientale (Mers). Il virus responsabile, il Mers-cov, fu fatto risalire ai dromedari e, seguendo questa traccia, Drosten e altri scoprirono che nella penisola Arabica e in Africa il 5,6 per cento dei camelidi è infetto da virus simili al 229e. La comparazione genetica tra il 229e e altri virus degli animali fa pensare che, prima di infettare gli esseri umani verso la fine del settecento, sia passato dai pipistrelli africani ai camelidi.

Negli anni novanta un coronavirus fece una strage tra i bovini con la “polmonite da trasporto”

L’idea che alla loro prima comparsa negli esseri umani i coronavirus del raffreddore fossero più letali è sostenuta da studi condotti sugli animali. Nel 2016 gli scienziati hanno osservato un coronavirus quasi nel momento esatto del salto di specie verso i suini. “La sequenza genetica era strettamente collegata a quella dei coronavirus dei pipistrelli, perciò sembrava che il virus fosse arrivato direttamente da lì”, dice Linda Saif dell’Ohio state university. In Cina quel virus uccise 25mila maialini in pochi mesi. Queste cose succedono spesso, dice Saif, che studia le epidemie di coronavirus negli animali da decenni. Negli anni novanta, per esempio, un coronavirus fece una strage tra i bovini con la “polmonite da trasporto”. Nel 1977, in Europa scoppiò un’epidemia di diarrea tra i suini, che poi si sarebbe diffusa anche in Cina e negli Stati Uniti, che uccise circa otto milioni di maiali.

“È possibile che quando sono passati negli esseri umani questi coronavirus associati al raffreddore abbiano provocato malattie gravi”, dice Saif. Ma la cosa che sorprende è quanto poco frequenti siano stati questi salti. “Quando scoppiò la Sars”, dice Esper, “cominciammo a cercare altri coronavirus che potevano provocare infezioni respiratorie”. Ne trovarono solo uno. Nel 2005 il quarto coronavirus del raffreddore comune fu scoperto in un paziente di 71 anni affetto da polmonite in un ospedale di Hong Kong. L’Hcov-hku1 causa malattie respiratorie ed è diffuso in tutto il mondo. Il suo parente più stretto sembra essere un coronavirus dei roditori. Non sappiamo quando ha cominciato a infettare gli esseri umani. Ma Esper ha osservato che le persone rischiano meno il ricovero in ospedale se contraggono l’Hku1 e l’Nl63 piuttosto che il 229e e l’Oc43, il che fa pensare che i primi due circolino da più tempo tra gli esseri umani.

Esper ha studiato a fondo l’Hku1 quando è stato individuato in alcuni pazienti di un ospedale dell’Ohio. Il virologo ha notato che colpisce più gravemente gli anziani. Mentre i virus del raffreddore comune sono spesso considerati la causa di malattie tipiche dei bambini, l’équipe di Esper ha scoperto che gli adulti sono il 70 per cento dei contagiati da questi coronavirus. Non succede con gli altri virus e corrisponde a quello che sappiamo finora del Sars-cov-2. “Questi coronavirus sembrano agire in modo simile”, dice Esper. “Capire perché colpiscono soprattutto gli adulti potrebbe aiutarci a comprendere l’attuale pandemia, e quelle future”.

I quattro coronavirus del raffreddore hanno un’altra caratteristica interessante: salgono e scendono come la marea. “Per l’Nl63 ci sono anni di alta e di bassa”, dice Van der Hoek. “I picchi sono più o meno ogni due anni”. Tra il 2000 e il 2010 le infezioni da Nl63 e Oc43 sono state più comuni tra i bambini di quelle da 229e e Hku1. “Questi virus sono in competizione tra loro”, spiega. Anche Esper ha notato che colpiscono a turno: “In Ohio è appena stato l’anno dell’Hku1”, con 160 casi confermati. Ci sono stati anche diversi casi di Oc43, ma nessuno di Nl63 e 229e. “Forse è perché il nostro sistema immunitario accelera, ci mantiene protetti per un paio d’anni e poi si ferma”.

Ma forse sta succedendo qualcosa di peggio. In un esperimento condotto nel 1990 emerse che i volontari infettati con il 229e rischiavano di ammalarsi di nuovo l’anno successivo. Quando questo succedeva, non avevano sintomi, ma potevano comunque trasmettere il virus. Secondo Van der Hoek questo ha conseguenze preoccupanti per la lotta al covid-19: “Immaginate cosa significherebbe per le persone vulnerabili avere in giro individui asintomatici che diffondono il virus senza saperlo”. Le persone che hanno sviluppato gli anticorpi al Sars-cov-2 devono essere studiate, dice, per vedere se può succedere lo stesso anche oggi.

Le ricerche sui virus del raffreddore ci danno anche motivi per essere ottimisti. L’albero genealogico dei coronavirus è costituito da quattro sottofamiglie, e quelli che colpiscono gli umani rientrano in due di queste. L’Nl63 e il 229e appartengono alla sottofamiglia alpha, insieme ai coronavirus di felini e canidi. L’Oc43 e l’Hku1 appartengono alla sottofamiglia beta, insieme ai virus che provocano Mers, Sars e covid-19. Gli anticorpi sviluppati dal sistema immunitario contro un virus potrebbero essere efficaci anche contro un altro virus della stessa sottofamiglia, dice Van der Hoek: “Dovremmo indagare per capire se le persone che hanno già preso l’Oc43 o l’Hku1 sono un po’ protette dal covid-19”. Ma potrebbe essere vero anche il contrario, avverte Van Ranst: “Forse nel corpo di chi è più anziano e ha un po’ di immunità residua potrebbe scatenarsi una reazione eccessiva”.

I virologi non sono in grado di prevedere come evolverà il Sars-cov-2. Potrebbe continuare a causare malattie gravi ancora per qualche anno, soprattutto tra gli anziani. Ma è probabile che un giorno diventerà come gli altri coronavirus del raffreddore, che “infettano, si riproducono a milioni e si diffondono”, ma che di solito il nostro sistema immunitario uccide in cinque giorni, spiega Esper. Se i virus sono troppo letali, non hanno modo di diffondersi, quindi è nel loro interesse diventare più miti. “Se il Sars-cov-2 rimarrà tra noi, nel corso del tempo s’indebolirà”.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Da sapere
Responsabili di tosse e starnuti

In media gli adulti hanno due o tre raffreddori all’anno, i bambini di più. Se quattro coronavirus sono responsabili di un quarto delle infezioni, la metà dei raffreddori è causata da un centinaio di diversi rhinovirus, che oltre a tosse e starnuti possono causare otiti e sinusiti, scrive New Scientist. Altri due virus imparentati, il virus respiratorio sinciziale umano e il metapneumovirus umano, si possono annidare nelle vie respiratorie provocando, nei casi più gravi, polmoniti e bronchiti. Se ci raffreddiamo d’estate, i responsabili potrebbero essere quattro diversi virus parainfluenzali. Possono causare malattie anche gravi, ma il più delle volte si guarisce nel giro di una settimana.


Questo articolo è uscito sul settimanale britannico di divulgazione scientifica New Scientist.

pubblicità