L’altra pandemia
Oggi chi può usare l’espressione “è diventato virale” senza rabbrividire un po’? Chi può guardare qualsiasi cosa – la maniglia di una porta, una scatola di cartone, un sacchetto di verdura – senza immaginare che brulichi di quegli invisibili granuli né vivi né morti pronti ad attaccarsi ai nostri polmoni? Chi può immaginare di baciare un estraneo, saltare su un autobus o mandare un figlio a scuola senza essere realmente spaventato? Chi riesce a pensare ai normali piaceri senza valutarne i rischi? Chi tra noi non si atteggia a epidemiologo, virologo, statistico o profeta? Quale scienziato o medico non sta pregando in segreto perché avvenga un miracolo? Quale prete – almeno in segreto – non si sta affidando alla scienza?
E anche se il virus sta proliferando, chi potrebbe non essere emozionato dall’aumento degli uccelli che cantano nelle città, dai pavoni che danzano agli incroci e dal silenzio dei cieli?
La scorsa settimana il numero dei contagiati in tutto il mondo ha superato il milione. Sono già morte più di settantamila persone. Le proiezioni fanno pensare che questa cifra salirà a centinaia di migliaia, se non di più. Il virus si è spostato liberamente lungo le vie del commercio e del capitale internazionale, e la terribile malattia che ha portato con sé ha imprigionato le persone nei loro paesi, nelle loro città e nelle loro case. Ma a differenza del flusso di capitali, questo virus cerca la diffusione, non il profitto, e quindi involontariamente, e in una certa misura, ha invertito la direzione di quel flusso. Si è fatto beffe dei controlli sull’immigrazione, della biometrica, della sorveglianza digitale e di ogni altro tipo di analisi dei dati e, finora, ha colpito in misura maggiore i paesi più ricchi e più potenti del mondo, fermando con un improvviso sussulto il motore del capitalismo. Forse provvisoriamente, ma almeno per il tempo che basta a permetterci di studiarlo, di fare una valutazione e di decidere se vogliamo aggiustarlo o cercare un motore migliore.
Un treno che sbanda
I mandarini che gestiscono questa pandemia amano definirla una guerra. Non usano questa parola come una metafora, ma alla lettera. Se fosse davvero una guerra, però, quale paese dovrebbe essere più preparato ad affrontarla degli Stati Uniti? Se i suoi soldati in prima linea invece che di mascherine e guanti avessero bisogno di fucili, armi intelligenti in grado di demolire bunker e neutralizzare sottomarini, caccia a reazione e bombe atomiche, pensate che non ne avrebbero a sufficienza?
Sera dopo sera, da mezzo mondo, alcuni di noi guardano le conferenze stampa del governatore di New York con una fascinazione che è difficile da spiegare. Seguiamo le statistiche e ascoltiamo le storie di ospedali al collasso negli Stati Uniti, di infermieri sottopagati e sovraccarichi di lavoro che devono fabbricarsi le mascherine da soli con sacchetti della spazzatura e vecchi impermeabili, e che rischiano la vita per soccorrere i malati. Storie di stati costretti a farsi concorrenza per procurarsi i ventilatori polmonari, di dilemmi dei medici su quale paziente salvare e quale lasciar morire. E pensiamo: “Dio mio! Questa è l’America!”.
La tragedia è immediata, reale, epica e si svolge sotto i nostri occhi. Ma non è una novità. È il catastrofico risultato di un treno che procede sbandando sui binari da anni. Chi non ricorda i video dei “pazienti scaricati”, persone ammalate, con ancora indosso i camici dell’ospedale e il sedere di fuori, scaricate di nascosto agli angoli delle strade? Troppo spesso le porte degli ospedali sono state chiuse ai cittadini statunitensi meno fortunati, e non importava quanto fossero malati o quanto soffrissero. Almeno non è importato fino a oggi, perché oggi, nell’era del virus, la malattia di una persona povera può essere un pericolo per la salute di un’intera società ricca. Eppure, ancora oggi, Bernie Sanders, il senatore che ha sempre fatto della sanità pubblica per tutti uno dei temi centrali delle sue campagne elettorali, è ritenuto fuori dalla corsa alla Casa Bianca, perfino dal suo stesso partito.
E che dire del mio paese, l’India, povera e ricca, sospesa tra il feudalesimo e il fondamentalismo religioso, tra il sistema delle caste e il capitalismo, governata da nazionalisti indù di estrema destra?
Mesi impegnati
A dicembre, mentre la Cina combatteva contro l’epidemia a Wuhan, il governo indiano affrontava le proteste di centinaia di migliaia di cittadini contro la legge sulla cittadinanza appena approvata dal parlamento, che discrimina sfacciatamente i musulmani. In India il primo caso di covid-19 è stato registrato il 30 gennaio, solo qualche giorno dopo che l’ospite d’onore alla parata per la festa della repubblica, il presidente brasiliano divoratore di foresta amazzonica e negazionista dell’epidemia Jair Bolsonaro, aveva lasciato New Delhi. Ma a febbraio il governo indiano aveva troppo da fare per inserire l’epidemia nel suo calendario. C’era la visita ufficiale, prevista per l’ultima settimana del mese, del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, attirato con la promessa che in uno stadio nello stato del Gujarat ci sarebbe stato un milione di persone ad acclamarlo. Per organizzare tutto questo ci volevano soldi, e tanto tempo.
Poi c’erano le elezioni dell’assemblea di New Delhi, che il Bharatiya janata party (Bjp) del primo ministro Narendra Modi era destinato a perdere se non alzava la posta in gioco, cosa che ha fatto scatenando una campagna nazionalista indù senza esclusione di colpi, con l’aggiunta di minacce di violenza fisica e di fucilazione dei “traditori”. Ha perso comunque. Quindi a quel punto bisognava punire i musulmani di New Delhi, ritenuti colpevoli di quell’umiliazione. Folle armate di vigilantes indù, appoggiati dalla polizia, hanno attaccato i musulmani nei quartieri operai della zona nordest della città. Hanno dato fuoco a case, negozi, moschee e scuole. I residenti, che si aspettavano quell’attacco, hanno reagito. Sono morte più di cinquanta persone, soprattutto musulmani e qualche indù. Migliaia si sono rifugiati nei cimiteri. Quando il governo si è riunito per discutere del covid-19 per la prima volta, e la maggior parte degli indiani ha sentito parlare per la prima volta dell’esistenza dei disinfettanti per le mani, si stavano ancora estraendo corpi mutilati dalla rete di luridi, puzzolenti canali di scolo.
L’India si è mostrata in tutta la sua vergogna, le sue brutali disuguaglianze, la sua insensibilità e indifferenza
Anche a marzo c’è stato molto da fare. Le prime due settimane sono state dedicate a far cadere il governo dello stato del Madhya Pradesh, guidato dal partito del Congress, e a mettere al suo posto un governo del Bjp. L’11 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che si trattava di una pandemia. Due giorni dopo, il 13, il ministro della salute ha dichiarato che il coronavirus non era “un’emergenza sanitaria”. Finalmente, il 19 marzo, Modi ha tenuto un discorso alla nazione. Però non aveva fatto i compiti a casa, quindi ha preso in prestito il modello francese e quello italiano. Ci ha detto che il distanziamento sociale (facile da capire in un paese tradizionalmente diviso in caste) era necessario e ha indetto un giorno di “coprifuoco” per il 22 marzo. Non ha detto nulla su quello che il governo intendeva fare, ma ha chiesto alla gente di uscire sui balconi, suonare le campane e battere sulle pentole per rendere omaggio agli operatori sanitari. Non ha neanche accennato al fatto che in quello stesso momento l’India stava esportando dispositivi di protezione e respiratori, invece di tenerli per i suoi ospedali e i loro dipendenti.
Blocco criminale
Com’era prevedibile, la richiesta di Narendra Modi è stata accolta con grande entusiasmo. Nelle strade ci sono state sfilate di gente che batteva sulle pentole, danze e processioni. Ben poco distanziamento sociale. Nei giorni successivi ci sono stati uomini che saltavano nei barili di sterco delle vacche sacre, e sostenitori del Bjp che organizzavano feste in cui si beveva urina di vacca. Per non sfigurare, molte organizzazioni musulmane hanno dichiarato che la risposta al virus era l’Onnipotente e hanno invitato i fedeli a riunirsi in gran numero nelle moschee. Il 24 marzo, alle otto di sera, Modi è apparso in tv per annunciare che, a partire dalla mezzanotte, tutta l’India sarebbe stata bloccata. I mercati sarebbero stati chiusi. Tutti i trasporti, pubblici e privati, si sarebbero fermati. Ha detto di aver preso quella decisione non solo come primo ministro ma come anziano della famiglia. Chi altro avrebbe potuto decidere, senza consultare i governi dei vari stati su cui sarebbero ricadute le conseguenze di questa misura, di chiudere un paese con 1,38 miliardi di abitanti senza alcuna preparazione e con un preavviso di quattro ore? I metodi di Modi danno decisamente l’impressione che consideri i cittadini una forza ostile di cui non ci si può fidare e a cui bisogna tendere imboscate all’improvviso.
E così siamo rimasti chiusi dentro. Molti professionisti della sanità ed epidemiologi hanno applaudito questa scelta. Forse in teoria hanno ragione. Ma sicuramente nessuno di loro può approvare la disastrosa mancanza di preparazione e pianificazione che ha trasformato la più estesa e punitiva forma d’isolamento nell’esatto contrario di quello che avrebbe dovuto essere.
L’uomo che ama gli spettacoli ha creato la madre di tutti gli spettacoli.
Mentre il mondo guardava attonito, l’India si è mostrata in tutta la sua vergogna, le sue brutali disuguaglianze strutturali, economiche e sociali, la sua insensibilità e indifferenza nei confronti di chi soffre. Il blocco totale è stato come un esperimento chimico che ha improvvisamente illuminato certe zone nascoste. Mentre i negozi, i ristoranti, le fabbriche e l’industria delle costruzioni chiudevano, mentre i ricchi e la borghesia si rifugiavano nelle loro residenze protette da muri, le nostre città e megalopoli hanno cominciato a espellere i loro lavoratori, spesso immigrati, come se fossero un’escrescenza indesiderata. Molti sono stati licenziati o mandati via dai loro padroni di casa, e milioni di persone povere, affamate, assetate, giovani e vecchi, uomini, donne, bambini, ammalati, ciechi, disabili senza un posto dove andare, senza trasporti pubblici, hanno cominciato una lunga marcia verso i villaggi d’origine. Hanno camminato per giorni verso i distretti di Badaun, Agra, Azamgarh, Aligarh, Lucknow, Gorakhpur, a centinaia di chilometri di distanza. Qualcuno è morto lungo la strada.
Sapevano che stavano andando a casa nella speranza di non morire di fame. Forse sapevano anche che rischiavano di portare con sé il virus e infettare le loro famiglie, i genitori e i nonni, ma avevano un disperato bisogno di familiarità, accoglienza e dignità, se non di amore, oltre che di cibo. Lungo il cammino alcuni sono stati picchiati e umiliati dalla polizia, che aveva l’ordine d’imporre con la forza il coprifuoco. Alcuni sono stati costretti ad accovacciarsi e a saltare come rane lungo la strada. Alla periferia di Bareilly un gruppo di persone è stato innaffiato con uno spray chimico.
Qualche giorno dopo, preoccupato che la popolazione in fuga diffondesse il virus nei villaggi, il governo ha chiuso i confini degli stati anche per chi andava a piedi. Gente che camminava da giorni è stata fermata e costretta a tornare negli accampamenti delle città che aveva appena dovuto lasciare. Tra gli anziani questo ha evocato il ricordo dei trasferimenti forzati del 1947, quando l’India fu divisa e nacque il Pakistan. Solo che il motivo dell’esodo di oggi è la divisione in classi, non la religione. E i protagonisti di quest’esodo non sono neanche le persone più povere. Sono persone che (almeno fino a un attimo prima) avevano un lavoro in città e una casa a cui tornare. I disoccupati, i senzatetto e i diseredati sono rimasti dov’erano, nelle città e nelle campagne, dove la disperazione cresceva anche prima di questa tragedia. In tutti quegli orribili giorni, il ministro dell’interno Amit Shah non è mai apparso in pubblico.
Fame e violenza
Quando le carovane di persone sono partite dalla capitale, ho usato il permesso stampa per andare in macchina a Ghazipur, al confine tra lo stato di New Delhi e l’Uttar Pradesh. La scena davanti ai miei occhi era biblica. O forse no. Ai tempi della Bibbia quei numeri non esistevano. Il lockdown per imporre il distanziamento sociale aveva provocato il suo opposto, la compressione fisica a livelli inimmaginabili. Questo succede anche nelle città indiane piccole e grandi. Le strade principali saranno pure vuote, ma i poveri sono asserragliati nelle anguste abitazioni delle baraccopoli. Tutte le persone con cui ho parlato erano preoccupate per il virus. Ma era meno reale, meno presente nella loro vita della disoccupazione che li aspettava, della fame e della violenza della polizia. Tra i discorsi di quella gente, compreso un gruppo di sarti musulmani che solo due settimane prima erano sopravvissuti agli attacchi dei nazionalisti indù, mi hanno colpito in particolare le parole di un uomo, un falegname di nome Ramjeet, che voleva camminare fino a Gorakhpur, al confine con il Nepal.
“Forse quando Modi ha deciso di farlo, nessuno gli ha parlato di noi. Forse non sa che esistiamo”, ha detto.
Quel “noi” significa circa 460 milioni di persone.
I governi dei singoli stati (com’è successo negli Stati Uniti) hanno mostrato più cuore e comprensione in questo momento di crisi. Sindacati, privati cittadini e altri collettivi stanno distribuendo provviste e razioni d’emergenza. Il governo centrale è stato lento a rispondere alla loro disperata richiesta di soldi. Sembra che il Fondo nazionale di soccorso non abbia liquidità. Invece le donazioni stanno affluendo verso un nuovo misterioso fondo del primo ministro. Hanno cominciato a circolare pasti preconfezionati con sopra l’immagine di Modi. Per giunta, il primo ministro ha condiviso online i suoi video di yoga nidra, in cui un cartone animato che gli somiglia, con un corpo da sogno, mostra varie posizioni yoga per aiutare le persone a superare lo stress dell’autoisolamento.
Il suo narcisismo è davvero inquietante. Forse una delle posizioni potrebbe essere quella in cui chiede al primo ministro francese di permetterci di rinunciare all’oneroso accordo per l’acquisto di aerei da caccia Rafale e investire quei 7,8 miliardi di euro nei provvedimenti d’emergenza di cui abbiamo un disperato bisogno per aiutare qualche milione di persone affamate. Sicuramente i francesi capirebbero.
Mentre il blocco totale entra nella seconda settimana, le catene logistiche si sono interrotte, le medicine e i rifornimenti essenziali cominciano a scarseggiare. Migliaia di autisti di camion sono ancora bloccati sulle autostrade, senza niente da mangiare né acqua. Le colture pronte per essere raccolte stanno lentamente marcendo.
La crisi economica è arrivata. Quella politica continua. I mezzi d’informazione di regime hanno inserito la storia del covid-19 nella velenosa campagna che portano avanti ininterrottamente contro i musulmani. Hanno scoperto che un’organizzazione chiamata Tablighi jamaat, che aveva organizzato un raduno a New Delhi prima che fosse annunciato il blocco totale, “sta diffondendo in lungo e in largo il contagio”. Usano questa notizia per incolpare e demonizzare i musulmani. Il tono generale fa pensare che siano stati loro a inventare il virus e lo stiano deliberatamente diffondendo come una forma di jihad.
La vera crisi del covid-19 deve ancora arrivare. O forse no. Non lo sappiamo. Se e quando arriverà, possiamo essere sicuri che sarà affrontata con tutti i pregiudizi religiosi, di casta e di classe ancora al loro posto. Il 2 aprile in India c’erano quasi duemila casi confermati e 58 morti. Sono cifre inaffidabili, basate su pochissimi test. Le opinioni degli esperti variano molto. Alcuni prevedono milioni di casi. Altri pensano che saranno molti di meno. Forse non conosceremo mai i veri numeri della crisi, anche quando arriverà. Per ora sappiamo solo che la corsa agli ospedali non è ancora cominciata.
Gli ospedali e le cliniche pubbliche in India – che non sono in grado di curare il milione circa di bambini che ogni anno muoiono di diarrea, malnutrizione e altri problemi di salute, le centinaia di migliaia di malati di tubercolosi (un quarto dei casi del mondo), una vasta popolazione di persone anemiche e malnutrite facilmente soggette a una serie di malattie minori che per loro si dimostrano fatali – non saranno in grado di gestire una situazione come quella che stanno affrontando oggi l’Europa e gli Stati Uniti. I servizi di assistenza sanitaria sono quasi tutti sospesi perché gli ospedali sono stati interamente dedicati agli infetti. Il centro traumatologico del famoso All India institute of medical sciences di New Delhi è chiuso, le centinaia di cosiddetti “rifugiati oncologici” che vivono per le strade fuori da quell’enorme ospedale vengono cacciati via come animali. Le persone si ammaleranno e moriranno in casa. Forse non conosceremo mai le loro storie. Forse non rientreranno neanche nelle statistiche. Possiamo solo sperare che gli studi secondo cui il virus preferisce i climi freddi abbiano ragione (anche se altri ricercatori lo mettono in dubbio). La gente non ha mai così tanto e così irrazionalmente desiderato l’arrivo della cocente, massacrante estate indiana.
Lo strappo
Cos’è questa cosa che ci sta capitando? È un virus, certo. In sé non ha nessun mandato morale. Ma è decisamente qualcosa di più di un virus. Qualcuno crede che sia il modo di dio per riportarci alla ragione. Altri che sia un complotto cinese per impadronirsi del mondo. Qualunque cosa sia, il nuovo coronavirus ha messo in ginocchio i potenti e fermato il mondo come nient’altro avrebbe potuto fare. Il nostro cervello continua a girare pensando al ritorno alla “normalità”, cercando di cucire il futuro al passato e rifiutandosi di ammettere che c’è stato uno strappo. Ma lo strappo c’è stato. E, in questa terribile disperazione, ci offre la possibilità di rivedere la macchina apocalittica che ci siamo costruiti. Nulla potrebbe essere peggio di un ritorno alla normalità.
Storicamente, le pandemie hanno sempre costretto gli esseri umani a rompere con il passato e a immaginare il loro mondo da capo. Questa non è diversa. È un portale, un cancello tra un mondo e un altro. Possiamo scegliere di attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, la nostra avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E a lottare per averlo.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul numero 1353 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati