La diaspora filippina intrappolata dalla pandemia
Norman Eleazar ha trascorso gli ultimi 14 anni lavorando in alberghi di lusso nelle scintillanti capitali degli stati del golfo Persico. Era a Teheran, dove lavorava come responsabile delle vendite all’Espinas palace hotel, l’unico albergo a cinque stelle della città, quando ha sentito per la prima volta parlare di un nuovo virus che si stava diffondendo in Cina.
Eleazar ha chiesto ad alcuni ex colleghi che si erano trasferiti a Pechino cosa ne sapessero. A febbraio, prima che in Iran scoppiasse la prima importante epidemia al di fuori della Cina, Eleazar aveva già fatto scorte di disinfettante, maschere, guanti e termometri frontali per il suo albergo.
All’inizio di marzo tutte le prenotazioni dall’estero erano state cancellate. L’Espinas, un albergo da quattrocento stanze, ha concentrato le sue attività in tre piani, rimanendo aperto per i circa trenta turisti rimasti intrappolati in Iran al momento della chiusura delle frontiere. La casella di posta elettronica di Elezear si è riempita di curriculum di ex colleghi, licenziati dagli alberghi delle grandi catene del Medio Oriente costretti alla chiusura e in cerca di lavoro.
La fanteria della globalizzazione
Eleazar si ritiene fortunato a poter mantenere il suo impiego, ma ha comunque motivi per non stare tranquillo. L’albergo è deserto. “In qualsiasi momento il proprietario potrebbe chiamarmi e dirmi ‘ti resta un mese’”, spiega. “In questo momento è tutto incerto. Non posso prevedere cosa accadrà domani”.
Eleazar è uno dei dieci milioni di filippini che vivono e lavorano all’estero e che, insieme a milioni di migranti di altre nazionalità che lavorano lontano da casa, sono la fanteria della globalizzazione. Uno studio del 2017 del McKinsey global institute ha stimato che i lavoratori migranti sono il 3,4 per cento della popolazione mondiale ma sono all’origine del 10 per cento del prodotto interno lordo. Essendo di madre lingua inglese, migliaia di filippini lavorano in alberghi e casinò di posti come Las Vegas, Macao e Phnom Penh. I filippini sono infermieri e medici a Milano, Jedda e Miami. Circa 400mila lavorano a bordo di navi da crociera o cargo, dove costituiscono la nazionalità più numerosa del settore.
Le rimesse rappresentano il 35 per cento dei flussi finanziari in entrata
e il 9 per cento del pil filippino
Sono ingegneri nelle raffinerie di petrolio e babysitter nelle abitazioni private. Negli aeroporti di Singapore o San Francisco spostano bagagli, si occupano della sicurezza e lavorano agli sportelli del servizio clienti. Quando dei viaggiatori affaticati transitano dall’aeroporto un tempo trafficato di Dubai, ci sono buone probabilità che la persona che gli serve un caffè venga dalle Filippine. Il loro lavoro ha contribuito alle economie di paesi stranieri, mentre il denaro guadagnato ha sostenuto le loro famiglie in patria. Le rimesse rappresentano il 35 per cento dei flussi finanziari in entrata nelle Filippine – più degli investimenti diretti dall’estero, del turismo e degli aiuti internazionali allo sviluppo – e il 9 per cento del pil del paese.
Via via che con la pandemia i paesi chiudevano le frontiere e imponevano il confinamento, i settori intorno a cui i filippini avevano gravitato – turismo, servizi aeroportuali, navi merci e da crociera – risultavano tra quelli più duramente colpiti. Con le frontiere chiuse e le economie in contrazione, molti si trovano oggi intrappolati in paesi stranieri che non sentono il dovere di prendersene cura. La pandemia ha evidenziato quanto l’economia globale dipenda dalla manodopera migrante, e come i paesi l’abbiano trattata come risorsa usa e getta. I migranti oggi devono fare i conti con sospensioni dal lavoro a tempo indeterminato o con la perdita dell’impiego.
Trascurati dalle istituzioni, spesso sono vittime di una crescente xenofobia. Nonostante il contributo dato ai paesi dove lavorano – al costo di grandi sacrifici – e anche se saranno fondamentali per la loro ripresa economica, pochi governi si sono dimostrati pronti ad aiutarli durante questa crisi. “La pandemia ha inasprito le disuguaglianze”, spiega Itayi Viriri, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), un’agenzia delle Nazioni Unite. Se i migranti sono trascurati, le “conseguenze sociali ed economiche sia per i paesi d’origine sia per quelli d’arrivo potrebbero essere più gravi e prolungate”.
Sogno nazionale
I filippini sono diventati una forza lavoro globalizzata negli anni sessanta e settanta, quando alcuni professionisti – tra cui insegnanti, medici, infermieri e scienziati – furono assunti negli Stati Uniti come immigrati permanenti. In quanto cittadini di un’ex colonia statunitense, i filippini avevano confidenza con la lingua, la cultura e le istituzioni americane. Molti di quelli cresciuti durante il periodo coloniale americano parlavano inglese, avevano imparato a recitare il Pledge of allegiance (giuramento di fedeltà) e avevano combattuto nell’esercito degli Stati Uniti. Quasi tutti quelli che erano emigrati avevano inviato denaro e regali nelle Filippine, diffondendo la notizia delle opportunità disponibili all’estero. L’emigrazione diventò parte del sogno nazionale filippino.
Da allora il lavoro all’estero è entrato a far parte della cultura delle Filippine, oltre che della sua economia. I filippini che lavorano all’estero sono chiamati bagong bayani, o nuovi eroi nazionali, per i loro sacrifici per il bene comune, e sono celebrati da brani musicali, spettacoli televisivi e servizi dei telegiornali. La loro reputazione è spesso meritata. I lavoratori filippini all’estero hanno fatto uscire i genitori dalla povertà e permesso ai fratelli più giovani di studiare all’università, spianandogli la strada verso impieghi migliori e l’ingresso nella classe media. I sacrifici personali sono spesso pesanti, perché di solito devono lasciare a casa le famiglie.
Dall’inizio degli anni ottanta esistono tre agenzie del governo di Manila dedicate alla gestione delle migrazioni: l’Overseas workers welfare administration (Amministrazione per il benessere dei lavoratori all’estero), la Commission on filipinos overseas (Commissione per i filippini all’estero) e la Philippine overseas employment administration (Amministrazione per l’impiego dei filippini all’estero). Quando la domanda globale di manodopera si è spostata dagli Stati Uniti a zone come Europa, Hong Kong, Singapore e Medio Oriente e in settori come il lavoro domestico, il settore turistico e quello navale, una nuova e agguerrita leva di volenterosi filippini si è fatta avanti, la maggior parte in qualità di migranti con contratti temporanei.
Il 2019 è stato un anno da record, con i filippini che hanno inviato in patria più di trenta miliardi di dollari
I filippini hanno sempre potuto contare sui loro familiari all’estero come fonte di reddito e, per estensione, lo stesso è valso per l’economia del loro paese. Secondo uno studio della banca centrale filippina, l’80 per cento dei flussi di rimesse viene speso, e non risparmiato. Questo dimostra quanto cruciali siano questi soldi per il consumo nelle Filippine, su cui si fonda il 70 per cento dell’economia, e quanto facilmente le famiglie filippine potrebbero rimanere senza denaro se tali flussi dovessero fermarsi.
Le rimesse hanno inoltre dato all’economia un certo grado di resistenza agli shock, sostiene Nicholas Antonio Mapa, economista del gruppo bancario ING nelle Filippine. Le rimesse sono motivate dall’altruismo, secondo lui, e non dal profitto. Quando nelle Filippine ci sono disastri naturali o altri problemi gravi, i lavoratori all’estero tendono a inviare più denaro. La distribuzione globale dei lavoratori filippini fa sì che in caso di crisi in una regione, le perdite siano compensate da chi lavora in zone meno colpite. Questo ha significato che il flusso di rimesse è regolarmente cresciuto per decenni. Il 2019 è stato un anno da record, con i filippini che hanno inviato in patria più di trenta miliardi di dollari.
Quella del covid-19, tuttavia, è una crisi di tipo diverso e ha colpito l’economia globale più duramente e più profondamente di qualsiasi altra in questo secolo. Persone che in passato avrebbero potuto cavarsela e trovare lavoro altrove sono costrette a fare le valigie e tornare a casa. A oggi il ministero degli affari esteri ha rimpatriato più di 48mila persone. Altri hanno pagato di tasca propria il biglietto per tornare, e migliaia di altre persone stanno cercando di raggiungere le Filippine mentre la pandemia prosegue e le aziende non riescono a riaprire.
A maggio le strutture per fare i tamponi all’aeroporto internazionale di Manila sono state sommerse dal ritorno degli emigrati, costringendo lo scalo a chiudere per smaltire gli arretrati. Il governo ha srotolato del nastro giallo per delimitare le aree di pericolo e sequestrato alberghi per farne centri per la quarantena. Una decina di navi da crociera è rimasta ormeggiata nel golfo di Manila per settimane, e i loro lavoratori sono stati lasciati in quarantena a bordo.
Su scala globale, la Banca mondiale prevede che le rimesse diminuiranno del 20 per cento
Jene Bartenilla, 45 anni, lavorava come cuoco sugli yacht di lusso e ha trascorso buona parte degli ultimi dieci anni navigando verso Monaco, Montecarlo e i porti d’Italia e Francia. Il giorno in cui è arrivato a Manila, a marzo, ha scoperto che il suo ultimo incarico – a bordo di uno yacht in Australia – era stato cancellato. E così è rimasto incastrato tra un contratto perso e il severo confinamento delle Filippine, che gli ha impedito di tornare nella sua città d’origine, sull’isola di Cebu.
Bartenilla ha trascorso il primo mese di confinamento in un malsano e sovraffollato dormitorio per marinai a Manila, dove circa un centinaio di uomini – alcuni che tornavano dopo mesi in mare, altri a cui era stato vietato di salpare – mettono in comune il denaro a disposizione per condividere pasti a base di riso e sardine in scatola. “Stiamo semplicemente sopravvivendo”, racconta Bartenilla dopo aver trascorso un mese e mezzo intrappolato in questo dormitorio. “È come se fossimo in prigione”.
Carlos B. Garcia Jr., della Magsaysay shipping lines maritime corp, la più grande agenzia di collocamento per lavoratori su navi commerciali e da crociera delle Filippine, sostiene che tra i 50mila e i centomila lavoratori marittimi del paese hanno perso il lavoro. Le navi hanno equipaggi ridotti all’osso e a volte mantengono a bordo solo il 10 per cento del personale, per lo più lavoratori che si occupano di sicurezza e manutenzione dei motori. È probabile che il settore non si riprenderà fino al 2022, dice Garcia, e la cosa dipenderà dal fatto che paesi come l’Australia o il Canada rimuovano le limitazioni sulle navi da crociera.
Economia in difficoltà
I lavoratori filippini che rientrano a casa trovano un’economia in difficoltà. La Banca asiatica per lo sviluppo ha ridotto le sue aspettative di crescita per le Filippine: dal modesto 2 per cento previsto ad aprile al -3,8 per cento previsto a giugno. Un calo considerevole rispetto alla crescita decisa precedente alla pandemia, che dal 2012 si era attestata intorno al 6 per cento.
Mapa di Ing ritiene che la fiducia dei consumatori e il ritorno dell’economia generale ai livelli precedenti dipenderà dal vaccino e dalla disponibilità di una cura accessibile e affidabile contro il virus. “Un sacco delle cose su cui facevamo affidamento nelle Filippine e che ne facevano un paese con una crescita così forte saranno gravemente colpite quest’anno”, dice. “Non credo che la crescita tornerà tanto presto al 6 per cento”.
A giugno la Banca centrale delle Filippine ha annunciato che, secondo le sue previsioni, quest’anno le rimesse caleranno del 5 per cento, rispetto a una previsione di crescita del 2 per cento: sarebbe la prima volta in decenni. Su scala globale, la Banca mondiale prevede che le rimesse diminuiranno del 20 per cento. Il passaggio dai lauti guadagni all’estero alle difficoltà in patria potrebbero spingere fuori dalla classe media e in condizioni più precarie molte famiglie che dipendevano dalle rimesse, avverte Aiko Kikkawa Takenaka, un’economista della Banca asiatica per lo sviluppo specializzata in migrazioni. “C’è il rischio che ritornino in una condizione molto vulnerabile, compreso il rischio di scendere sotto il livello di povertà”, dice Takenaka.
Le famiglie con pochi risparmi sono quelle più in difficoltà. Miriam Prado, che fa la collaboratrice domestica a Beirut, ha perso la sua fonte di reddito a febbraio, quando i datori di lavoro hanno lasciato il Libano prima che nel paese cominciasse il confinamento. Prima spediva a casa tra i cento e i duecento dollari al mese per sostenere i due figli maschi. Il minore, Keanu Prado, ha vent’anni e vive nel villaggio costiero di Dumangas, nella provincia di Bohol, e ha speso gli ultimi soldi spediti dalla madre a marzo per comprare riso, acqua, sale e olio. Adesso dipende dalla possibilità dei vicini di fargli avere o meno del pesce o della carne. I suoi progetti oggi sono avvolti nell’incertezza. Era al primo anno di università, dove studiava gestione dell’ospitalità, per poter essere in grado di lavorare in alberghi all’estero. “Le voglio restituire tutto quello che ha speso per me”, dice Prado a proposito della madre, “per ripagarla delle difficoltà e della fatica che ha dovuto affrontare”.
I lavoratori di ritorno si sono trovati in una situazione precaria, ma le cose spesso vanno peggio a chi ha deciso di rimanere all’estero. Dei 2,2 milioni di lavoratori filippini assunti con contratti a tempo determinato, più della metà si trova in Medio Oriente. In molti ricchi stati del Golfo i lavoratori migranti – provenienti da Filippine, India, Bangladesh e Nepal – sono più numerosi della popolazione locale: più del 70 per cento in Qatar e Kuwait, e più dell’80 per cento negli Emirati Arabi Uniti, secondo le statistiche della Banca mondiale. “Tutte queste economie hanno bisogno di lavoratori migranti”, dice Houtan Homayounpour, responsabile dell’ufficio progetti dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) in Qatar. “Senza di loro, l’economia si ferma”.
Nonostante il ruolo decisivo che svolgono nelle economie del Medio Oriente, il sostegno ai lavoratori migranti è stato diseguale nella regione, dove abusi dei diritti umani, xenofobia e limitazione dei diritti dei lavoratori sono comuni, e le protezioni sociali per lo più inesistenti. Il risultato sono state migliaia di persone lasciate con un accesso limitato al denaro, recintate in quartieri ghetto e messe in quarantena in dormitori affollatissimi, che per alcuni hanno aumentato il rischio d’infezione da covid-19.
Senza protezione
Una lavoratrice filippina a Dubai, che preferisce rimanere anonima per paura di ritorsioni, racconta di condizioni di quarantena vergognose. Nella sua stanza sei persone sono stipate in tre stretti letti a castello, con uno spazio aperto al centro non più grande di un metro quadrato, una modalità d’alloggio tipica dei quartieri per migranti di Dubai. La donna dice di non aver ricevuto aiuto né dal governo di Dubai né da quello di Manila (le Filippine hanno offerto duecento dollari di aiuti ai lavoratori all’estero ma molti di quelli che hanno fatto domanda, come lei, non li hanno ricevuti). Passa le giornate pensando a come procurarsi il prossimo pasto per sé e per gli altri con cui vive. “Mi sento umiliata e provo vergogna a mettermi in fila per avere del cibo”, dice, ma le associazioni di beneficienza che forniscono cibo sono un’ancora di salvezza. “Per me è una tortura essere la persona che procura da mangiare”, dice a proposito del gruppo, che ha finito per dipendere da lei durante il confinamento.
Il Qatar si è distinto rispetto agli altri paesi del golfo Persico agendo rapidamente, fornendo linee guida alle aziende affinché aiutassero i dipendenti stranieri durante la pandemia, concedendo prestiti d’emergenza ai proprietari di attività economiche perché continuassero a pagare i lavoratori migranti inattivi, e allentando le limitazioni dei contratti per permettere ai lavoratori di passare da un impiego a un altro quando si ritrovano disoccupati. Anche se l’applicazione di queste misure è stata imperfetta, spiega Homayounpour, “ci hanno provato. Ci sono state difficoltà. Mentirei se non dicessi che non ci sono state. E ho davvero paura che ce ne saranno molte altre”.
Vari paesi, tra cui Arabia Saudita, Kuwait e Bahrein, stanno curando gratuitamente i migranti malati per cercare di controllare la diffusione del virus, ma hanno fatto poco altro per assisterli. Resoconti di fame e maltrattamenti sono comuni. Un parlamentare del Kuwait ha invitato il governo a “depurare il paese dai lavoratori illegali”. Alla tv locale un’attrice ha suggerito che i migranti dovrebbero essere spostati nel deserto, mentre un giornalista ha definito i migranti egiziani “un peso per lo stato”, che andrebbe eliminato. In Arabia Saudita alcuni lavoratori domestici disoccupati hanno raccontato di essere stati chiusi a chiave in piccole stanze nelle loro agenzie di collocamento. In Libano, alcune donne etiopi sarebbero state lasciate davanti alla loro ambasciata dai datori di lavoro, ritrovandosi bloccate in strada senza il denaro necessario per tornare a casa.
Nei paesi ricchi che facevano affidamento sui lavoratori migranti c’era l’idea che ci sarebbe sempre stata manodopera a disposizione
Secondo Rima Kalush, direttrice di Migrant-Rights, un’associazione di tutela dei diritti, la pandemia ha inasprito problemi già esistenti nei paesi del golfo Persico e reso evidente la mancanza di protezione dei lavoratori. Alcuni di quelli coinvolti in cause aperte per mancata retribuzione sono stati rimpatriati senza ricevere lo stipendio dovuto, e alcuni datori di lavoro hanno violato o modificato unilateralmente i contratti, appellandosi a cause di forza maggiore determinate dalla pandemia. “Il sistema non è mai stato buono”, dice Kalush. “E la crisi l’ha ulteriormente peggiorato”. I paesi che hanno fornito sussidi ai lavoratori e alle aziende hanno raramente incluso i lavoratori migranti nei loro programmi di sostegno. “Quando credono di proteggere l’economia non pensano ai lavoratori migranti”, spiega Kalush. “Anche se sono necessari in tempi economici normali, è anche molto facile disfarsene”.
“Credo che tacitamente la politica nel golfo Persico sia: quando c’è una crisi la gente se ne torna a casa sua”, dice Ryszard Cholewinski, specialista delle migrazioni per l’Ilo in Medio Oriente. Secondo Cholewinski l’accesso alle protezioni sociali, come il sussidio di disoccupazione, permetterebbe ai lavoratori migranti di rimanere nel paese e di rientrare nel mercato del lavoro più velocemente alla fine della crisi. Nei paesi ricchi che facevano affidamento sui lavoratori migranti c’era l’idea che ci sarebbe sempre stata manodopera a disposizione. La pandemia ha rimesso in discussione questa convinzione.
A marzo, quando il ristorante di Doha, in Qatar, dove lavorava Cams Alejandro, 26 anni, ha chiuso dopo alcuni casi di covid-19 nei suoi locali, la proprietà ha offerto ai dipendenti due mesi di stipendio, una piena indennità di fine contratto – l’equivalente di una pensione per i lavoratori con contratto a tempo determinato – e un biglietto per tornare a casa. Si trattava di un pacchetto generoso, ma Alejandro l’ha rifiutato. Preferiva lavorare, e ha scommesso sul fatto che il ristorante avrebbe presto riaperto. È rimasta a Doha, vivendo grazie ai suoi risparmi e a un contributo per l’alloggio versato dai datori di lavoro.
A maggio i proprietari del ristorante hanno organizzato una riunione con i dipendenti, licenziandoli tutti. Anche se è rimasta nel paese, inseguendo il suo sogno di diventare un’assistente di volo per la Qatar Airways, Alejando sostiene che l’esperienza l’ha spinta a osservare le cose in maniera diversa. In attesa di un volo di rimpatrio, ha cominciato a pensare se vuole davvero continuare una vita così, lontana da casa e dalla sua famiglia. Ha seguito corsi online e ora prevede di rimanere nelle Filippine. “Invece che dedicarmi al lavoro, solo al lavoro, e nient’altro che al lavoro”, dice Alejandro, “adesso esploro altre opportunità”.
Alejandro, tuttavia, potrebbe essere un’eccezione. La pandemia ha rivelato ed esacerbato gli squilibri di potere tra lavoratori migranti e i datori di lavoro, mostrando quanta poca responsabilità molti paesi sentano nei confronti del personale di servizio importato. Ma proprio la stessa pressione economica che ha spinto milioni di persone a lasciare le proprie case potrebbe rivelarsi più acuta nel corso della recessione globale che ci aspetta.
Jonathan Ravelas, responsabile delle strategie di mercato e primo vicepresidente di Bdo Unibank, dice che nonostante oggi le circostanze siano diverse, già in passato i filippini hanno dovuto fare i conti con le difficoltà. “I lavoratori filippini all’estero, che sacrificano le loro vite e il loro tempo, lontani dalle famiglie, dimostreranno la stessa abnegazione anche oggi, nell’era del covid-19”, dice. “Credo che non gli manchi la determinazione. Il modello filippino e i filippini stessi hanno sempre dimostrato una grandissima resilienza”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale economico giapponese Nikkei Asian Review.