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In India si discute del salario per il lavoro domestico delle donne

Nella periferia di Srinagar, Kashmir indiano, dicembre 2020. (Tauseef Mustafa, Afp)

Un reddito di base per il lavoro domestico delle donne: è ciò che promette Kamal Haasan, candidato del Makkal Needhi Maiam (Partito della giustizia del popolo), se vincerà le elezioni nel Tamil Nadu, uno degli stati dell’India meridionale. “Le casalinghe otterranno un meritato riconoscimento per un lavoro finora non apprezzato e non retribuito”, si legge in un comunicato stampa del partito.

Haasan, un ex attore, ha così acceso il dibattito nato dopo il verdetto emesso il 5 gennaio scorso con cui la corte suprema dell’India ha stabilito che le casalinghe contribuiscono significativamente alla produzione economica dell’intera famiglia, e che quindi, alla morte di una di loro, la sua famiglia avrebbe diritto a un risarcimento fino a novemila rupie (circa cento euro) da parte dello stato. Kamal Haasan vorrebbe che tale indennizzo fosse riconosciuto alle donne mentre sono ancora in vita.

Il dibattito si è scatenato su Twitter dopo che Shashi Tharoor, un esponente molto noto del partito del Congress, si è espresso a favore della misura con queste parole: “Ciò porterà a un maggiore riconoscimento del lavoro delle casalinghe nella società, gli darà forza e autonomia e creerà un reddito di base quasi incondizionato”. Dichiarazione aspramente criticata dalla formazione nazionalista indù al potere, il Bharatiya janata party (Bjp), e dai suoi aderenti, uomini e donne. Come l’attrice Kangana Raunat, che ha replicato su Twitter: “Il sesso che facciamo con i nostri partner non ha prezzo, non pagateci per crescere i nostri figli, non ci serve uno stipendio per essere regine delle nostre case, smettete di trattare tutto come un commercio”.

Ma le critiche arrivano anche da altre parti: U. Vasuki, originaria del Tamil Nadu e vicepresidente dell’All India democratic women’s association, un’associazione di sinistra, loda il riconoscimento generale del lavoro domestico attraverso il pagamento, ma poi osserva: “Se fosse retribuito il lavoro delle donne in casa, si consoliderebbe l’impressione che la famiglia sia il loro unico sbocco occupazionale”.

Lavoro senza limiti di tempo e di luogo
Pulire, prendersi cura dei bambini e cucinare: i lavori domestici dovrebbero essere trattati come gli altri lavori? E se sì, chi dovrebbe pagarlo?

Secondo la Banca mondiale, in India il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è pari al 20 per cento. Spesso, però, non è possibile tracciare un confine di tempo, e tanto meno di luogo, tra lavoro domestico e lavoro in casa, il che, specialmente in agricoltura, dà alle donne un notevole carico aggiuntivo.

Lo stesso vale anche per certe attività autonome: soprattutto nel settore tessile, molte lavorano in casa, alla macchina per cucire, per conto dei grandi fornitori globali. Questo fenomeno è particolarmente significativo proprio nel Tamil Nadu, uno stato relativamente prospero (ha il secondo prodotto interno lordo più alto della federazione indiana), soprattutto grazie a centri dell’industria tessile come le città di Coimbatore o Tirupur. Secondo i dati governativi, in questo settore i salari si aggirano sulle dieci-dodicimila rupie al mese, pari a circa 110-130 euro, ma probabilmente si parla di somme inferiori per le donne che da casa rifiniscono i semilavorati sfornati dalle fabbriche: cuciono bottoni, applicano decorazioni e ricami, tirano fili, riciclano scampoli di tessuto. Ovvio che, in condizioni del genere, l’organizzazione sindacale sia quasi impossibile; inoltre ci sono lavoratrici che, durante il confinamento, non sono state pagate per settimane.

Nel Tamil Nadu non è raro che, durante una campagna elettorale, i potenziali elettori ricevano doni generosi. Alle precedenti elezioni il partito di maggioranza, l’All India Anna Dravida Munnetra Kazhagam, aveva offerto ai più poveri tra i poveri cellulari, computer portatili e scooter a prezzi scontati. Per le elezioni del prossimo aprile non di regalie si tratta, ma di trasferimenti di denaro.

Quelli più saldamente radicati nel sud dell’India sono i partiti regionali, che si battono contro la supremazia politica del nord di lingua hindi. Ma non si può escludere che il Bjp guadagni terreno anche qui. Quanto al partito di Kamal Haasan, avendo scelto di non aderire a nessuno dei due schieramenti, può sperare, secondo le proiezioni attuali dell’agenzia di stampa Abp, solo nel 6-7 per cento dei voti.

Il lavoro riproduttivo
Ciò nonostante il dibattito è emerso con notevole tempismo, dato che il tema si è imposto all’attenzione dopo lo scoppio della pandemia, e non solo in India. Ha riaperto il dibattito globale sul lavoro riproduttivo in corso fin dagli anni settanta, epoca della cosiddetta seconda ondata del femminismo. A quel tempo, la militante Selma James aveva indetto a Manchester la prima campagna internazionale per la retribuzione del lavoro domestico. Nel 1972 aveva poi pubblicato, insieme alla femminista italiana Mariarosa Dalla Costa, il libro Potere femminile e sovversione sociale, in cui le autrici affermavano che “la produttività della schiavitù salariata si basa sulla schiavitù dei non salariati”. Rifacendosi a L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato di Friedrich Engels, James e Dalla Costa sostenevano che si potevano tenere bassi i salari proprio grazie allo sfruttamento tra le pareti domestiche.

Tre anni dopo, la marxista italiana Silvia Federici, curatrice del volume Salario contro il lavoro domestico, sosteneva l’importanza di retribuire il lavoro domestico per far sì che le donne restassero indipendenti dai partner: “Loro lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non retribuito”, si legge nell’incipit. Scritti del genere hanno contribuito, negli anni settanta, a dare slancio al movimento, specie in Italia e negli Stati Uniti. Dopodiché, negli anni novanta, molte e molti suoi militanti sono entrati nei movimenti di protesta contro le misure di austerità neoliberista nel sud del mondo, i quali a loro volta hanno messo radici non solo in India, ma anche a Haiti, in Perù, in Thailandia, in Malaysia e in Nigeria.

Tra il salario familiare e il reddito di base universale c’è una differenza cruciale, cioè che il primo non è universale né incondizionato

Da allora, tali concetti sono stati sollevati più volte, e non solo nei circoli di sinistra. L’idea è stata infatti ripresa dai conservatori, e la misura è stata, in un certo senso, trasformata nel suo opposto. In questi ultimi dieci anni modelli analoghi sono stati discussi in Europa: si pensi alla proposta avanzata in Germania dalla Csu e divenuta nota sotto il nome di Herdprämie, o “incentivo per il focolare” (simile allo stay-at-homeparenting credit, un programma di deduzioni e detrazioni fiscali per i genitori che accudiscono personalmente i figli), oppure a quella di retribuire le casalinghe avanzata dalla senatrice leghista Giulia Bongiorno.
In India, un’idea del genere era già stata avanzata nel 2012 da Krishna Tirath, allora ministra della famiglia, ma non era stata attuata, anche perché Tirath aveva suggerito che i soldi li distribuissero i mariti, mentre per evitare di perpetuare le disuguaglianze già esistenti, è decisiva la struttura di erogazione.

Più recentemente, come si diceva, Shashi Tharoor ha collegato l’idea del salario familiare al reddito di base universale. Ma tra i due c’è una differenza cruciale, cioè che il primo non è universale né incondizionato. E proprio questo potrebbe diventare un problema, secondo l’economista Guy Standing. Nel 2015, quando era presidente della Bien-Basic income earth network, Standing ha condotto uno studio pilota su vasta scala in India. Intervistato sui suoi risultati, Standing ha detto: “Il reddito di base ha effetti emancipatori che i programmi mirati non hanno. Io non sono un patito dei trasferimenti selettivi di denaro. Questo perché se si paga qualcuno per svolgere i lavori domestici e di cura, tutti gli altri componenti della famiglia saranno ancora meno propensi a impegnarcisi, e la gente dirà: le donne sono pagate per farlo, quindi facciano il favore di occuparsene loro”. Il reddito di base universale, invece, incentiverebbe tutti i membri della famiglia a dividersi l’onere del lavoro domestico, quindi la sua introduzione sarebbe una misura più sensata.

E poi, chi dice che le donne possono smettere di dedicarsi al lavoro domestico solo se accettano un lavoro retribuito fuori casa? U. Vasuki, dal Tamil Nadu, dichiara: “Le misure del governo dovrebbero ridurre il carico aggiuntivo che grava sulle donne, in modo che dispongano di più tempo libero per il lavoro politico e sociale, per riposare, per divertirsi”.

(Traduzione di Marina Astrologo)

L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Jungle World.

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