Durante un dibattito del parlamento europeo nel novembre 2019, Robert Biedroń, il primo politico polacco apertamente gay, ha detto all’assemblea: “Oggi ci sono posti nel mio paese, nel cuore dell’Europa, dove io non posso andare. Ci sono negozi, ristoranti e hotel dove io non posso entrare”. Invitato da un connazionale ultraconservatore a indicare almeno uno di questi posti, Biedroń ha risposto con un esempio: un ristorante nel centro di Cracovia aveva esposto un adesivo con la scritta “zona senza lgbt”, e il quotidiano di Varsavia Gazeta Polska ne aveva recentemente parlato in un articolo.
Il dibattito parlamentare era intitolato “Discriminazione pubblica e discorsi di odio contro le persone lgbt+, incluse le ‘zone senza lgbt’” ed era la prima volta che un’istituzione pubblica parlava ufficialmente di questa espressione. Ma cosa sono queste zone della Polonia e che tipo di impatto legale e sociale hanno? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro.
Negli ultimi due anni la maggior parte delle province e dei comuni della Polonia sudorientale ha adottato una qualche forma di risoluzione ostile alle rivendicazioni della comunità lgbt+. Queste cosiddette “zone senza lgbt” rappresentano un terzo del territorio polacco e si trovano nella regione che è la roccaforte elettorale del partito Diritto e giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, Pis), una formazione di estrema destra di ispirazione clericale e illiberale che governa il paese dal 2015.
In effetti le prime risoluzioni adottate dalle autorità locali polacche hanno coinciso con la lunga campagna elettorale che tra il maggio 2019 e il giugno 2020 ha portato il partito a vincere le elezioni europee, legislative e presidenziali.
Il Pis, spalleggiato dall’influente chiesa cattolica polacca, usa la retorica anti lgbt+ per mobilitare la sua base elettorale ed è riuscito ad agganciare l’omofobia al sentimento antieuropeista che prevale nel sudest, l’area più arretrata della Polonia che non ha beneficiato quanto il resto del paese dell’integrazione europea. Si tratta di un fenomeno per certi versi analogo a quello che si è verificato in Russia, dove il governo ha adottato una tenace opposizione ai diritti civili in chiave nazionalista e antioccidentalista, ma con la grande differenza che la Polonia fa parte dell’Unione europea, la cui reazione infatti non si è fatta attendere.
La Polonia è rimasta l’unico paese dell’Unione in cui non esiste alcuna forma di riconoscimento legale per le coppie omosessuali
L’omofobia in Polonia non è una realtà recente. Nonostante sia stata uno dei primi paesi europei a depenalizzare l’omosessualità, nel 1932, oggi l’International gay and lesbian association (Ilga) la mette all’ultimo posto tra i paesi dell’Ue nella classifica dell’indice del rispetto dei diritti civili. Attualmente la Polonia è rimasta l’unico paese dell’Unione dove non esiste alcuna forma di riconoscimento legale per le coppie omosessuali. Quella delle “zone senza lgbt”, però, prima ancora di essere una battaglia sui diritti è una guerra di propaganda.
Nel febbraio 2019, Rafał Trzaskowski, il sindaco liberale di Varsavia e principale oppositore del Pis, ha firmato la Dichiarazione sulla lotta alle discriminazioni verso le persone lgbt+, un documento che fornisce le linee guida in ambiti come sicurezza, educazione, cultura, sport, amministrazione e lavoro. Poco tempo dopo la firma della dichiarazione, il leader di Diritto e giustizia Jarosław Kaczyński ha risposto definendo i diritti civili un principio importato dall’estero che va contro i valori della società polacca e ne mette a repentaglio l’esistenza stessa, ponendo così la questione al centro della campagna elettorale e trasformando l’opposizione ai diritti civili in uno dei caposaldi del suo partito.
È a questo punto, nella primavera 2019, che varie regioni e comuni nel sudest del paese hanno cominciato in modo spontaneo ad adottare risoluzioni antilgbt+. Si trattava di risoluzioni di principio di due tipi, accolte in ordine sparso dai vari consigli comunali e regionali: una, più specificamente omofobica, dichiarava l’opposizione all’ideologia lgbt; mentre la seconda, più generica nella formulazione rispetto alla prima ma di spirito molto simile, ribadiva la difesa della famiglia naturale e dei valori tradizionali. Entro la fine del 2019 almeno cento autorità locali hanno approvato una delle due versioni. In entrambi i casi, comunque, si trattava di misure simboliche, senza alcun valore giuridico, la cui unica funzione era fare eco alla retorica omofobica del Pis e mobilitarne la base durante le elezioni.
Eppure nessuna istituzione ha mai definito il suo territorio “zona senza lgbt”. Questa etichetta è stata coniata dal giornale filogovernativo Gazeta Polska, che nel luglio 2019 ha allegato al suo supplemento settimanale un adesivo con una bandiera arcobaleno sbarrata e la scritta: “Zona senza lgbt”. Era proprio uno di questi adesivi che il ristoratore di Cracovia aveva attaccato all’entrata del suo locale. Nei giorni successivi, mentre alcune attività commerciali della regione hanno esposto l’adesivo sulla porta, il settimanale di sinistra Polityka ha pubblicato un editoriale in cui paragonava le “zone senza lgbt” alle zone senza ebrei istituite dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, creando un corto circuito che da allora il Pis ha avuto molte difficoltà a controllare.
La stampa, i partiti di opposizione e le associazioni per i diritti civili hanno cominciato a parlare della creazione di “zone senza lgbt”, portando questa definizione all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato che si trattava piuttosto di “zone senza umanità” e Joe Biden ha citato le sue parole durante la campagna presidenziale.
A complicare ulteriormente la posizione di Diritto e giustizia ci si è messo l’artista militante Bart Staszewski che nel gennaio del 2020 ha posizionato sotto ai cartelli d’ingresso di alcune città e regioni del sudest dei finti segnali gialli con scritto “zona senza lgbt” in varie lingue. Le immagini sono diventate virali suscitando scalpore anche a livello internazionale, visto che un grandissimo numero di persone ha preso i cartelli come ufficiali, non rendendosi conto che si trattava di una provocazione.
Retorica omofobica
Le amministrazioni locali e il governo sono corsi ai ripari accusando l’opposizione e le associazioni lgbt+ di manipolare i fatti attraverso notizie false, specificando in tv e sui giornali che le risoluzioni riguardavano solo l’ideologia lgbt+ e non le persone omosessuali e trans, le quali possono tranquillamente risiedere o visitare le regioni interessate. Alcuni comuni sono arrivati a fare causa a Bart Staszewski, che ha difeso i suoi falsi cartelli stradali in quanto “risposta simbolica alle risoluzioni simboliche”. Una battaglia a colpi di slogan, dunque, in cui lo scorso 11 marzo è sceso in campo anche il parlamento europeo, adottando una risoluzione – di nuovo solamente simbolica – che dichiara tutti i 27 paesi dell’Unione “zona di libertà lgbt+”.
In questo fuoco incrociato di slogan e misure senza valore legale, però, ci sono alcuni aspetti che influenzano in modo reale la vita dei cittadini polacchi. Il primo riguarda la discriminazione: anche se in Polonia non è possibile quantificare i crimini di omofobia per mancanza di una legge che li punisca in modo specifico, è facile presumere che la retorica così dichiaratamente omofobica della principale forza di governo favorisca un clima di intolleranza e discriminazione. Per esempio Cezary Nieradko, uno studente universitario gay che vive a Kraśnik, ha raccontato al New York Times che, subito dopo l’adozione della risoluzione anti lgbt+ nella sua città, un farmacista ha cominciato a rifiutarsi di servirlo. Oppure, episodio decisamente più grave, durante la sfilata del pride di Lublino del 2019 la polizia ha arrestato una coppia pronta a far esplodere un ordigno artigianale contro i manifestanti.
Ma le conseguenze negative ci sono anche per il governo e le amministrazioni polacche: l’Unione europea, l’Agenzia europea per l’ambiente e anche l’Islanda e la Norvegia hanno annunciato che taglieranno i fondi e gli investimenti verso qualunque regione che non rispetti i valori di tolleranza e pari opportunità. E questa volta non si tratta più di minacce simboliche, ma di misure che possono danneggiare davvero gli interessi economici delle regioni. A fine gennaio Nowa Deba è stata la prima città polacca a ritirare la sua risoluzione contro la fantomatica ideologia lgbt, spiegando che la misura è stata sfruttata e manipolata in modo da nuocere alla reputazione della città. “Siamo diventati lo zimbello d’Europa”, si è lamentato con il New York Times Wojciech Wilk, il sindaco di Kraśnik, un’altra cittadina finita nell’occhio del ciclone per le sue posizioni omofobiche. Dopo che la città francese con cui era gemellata ha deciso di interrompere la loro collaborazione, Kraśnik ora perderà un investimento norvegese da dieci milioni di euro.
Insomma, Diritto e giustizia combatte la sua guerra culturale sulla pelle dei cittadini comuni, che siano persone discriminate oppure abitanti di aree arretrate che rischiano di perdere importanti incentivi allo sviluppo, e non è chiaro quanto ancora potrà tirare la corda sulle questioni etiche in un paese dove comunque la popolazione urbana comincia a mostrare la sua insofferenza al riguardo. L’Unione europea, da parte sua, potrebbe disporre di uno strumento straordinario per combattere l’omofobia nei paesi membri, ma per ora la sua direttiva contro la discriminazione in base all’orientamento sessuale è ferma dal 2008 a causa dell’opposizione di otto paesi, tra cui anche la Germania. Resta da vedere se il caso delle “zone senza lgbt” della Polonia riuscirà a scuotere le coscienze a Bruxelles e a rendere finalmente più urgente questa misura.
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