Nel Sahel i jihadisti hanno scoperto una miniera d’oro
Alla gente nei dintorni di Pama, una cittadina del Burkina Faso al limitare di una sconfinata foresta protetta, il governo ha a lungo proibito di cercare oro, per proteggere antilopi, bufali ed elefanti. Alla metà del 2018 alcuni uomini con indosso dei turbanti hanno cambiato le regole. A bordo di motociclette e camionette 4x4 e armati di fucili d’assalto, hanno costretto le truppe governative e le guardie forestali a fuggire dalla regione orientale del paese che confina con il Sahel, l’estremo meridionale del deserto del Sahara.
Gli uomini armati hanno detto agli abitanti del posto che potevano scavare nelle aree protette, ma a determinate condizioni. A volte pretendevano una parte dell’oro estratto, altre lo compravano e lo commerciavano. Gli uomini “ci dicevano di non preoccuparci. Ci dicevano di pregare”, ha raccontato un abitante che si è presentato come Traoré, aggiungendo di aver lavorato per diversi mesi nella miniera di Kabonga, a nordovest di Pama. Come altri minatori che hanno parlato con noi, ha chiesto di non essere identificato con il suo vero nome per paura di ritorsioni. Non era sicuro per i giornalisti visitare l’area, ma altri cinque minatori che erano stati a Kabonga hanno confermato il suo racconto. “Li chiamavamo ‘padroni’”, racconta Traoré.
Gli scavi nei dintorni di Pama non sono casi isolati. Dopo aver perso terreno in Medio Oriente, gruppi legati ad Al Qaeda e al gruppo Stato islamico si stanno espandendo in Africa e sfruttano le miniere d’oro in tutta la regione, come dimostrano i dati sugli attacchi e le interviste con una ventina di minatori e abitanti del posto, oltre che con funzionari governativi e addetti alla sicurezza. Oltre ad attaccare gli impianti industriali, due delle forze terroriste più temute al mondo stanno intercettando un traffico informale di oro del valore di due miliardi di dollari in Burkina Faso, Mali e Niger, un flusso che già adesso è quasi del tutto fuori dal controllo dello stato.
I ricercatori e le Nazioni Unite hanno avvertito dei rischi derivanti dalla possibilità che uomini armati raggiungano le miniere d’oro della regione: dall’analisi condotta da Reuters sui dati provenienti dal Burkina Faso e dalle testimonianze di persone fuggite dalle aree minerarie emerge che gli islamisti usano le miniere sia per nascondersi sia per ricavare fondi con cui reclutare nuovi combattenti e acquistare armi, esplosivi e detonatori per compiere gli attacchi necessari ad ampliare il loro potere.
Il Burkina Faso, un paese povero popolato soprattutto da agricoltori, è finito negli ultimi anni al centro di una campagna orchestrata da ribelli locali e gruppi jihadisti regionali. Centinaia di persone sono rimaste uccise in attacchi violenti, tra cui almeno 39 minatori che lavoravano nelle miniere d’oro finiti in un’imboscata all’inizio di novembre. Si hanno notizie di decine di furti e rapimenti che ruotano attorno alle attività estrattive.
Gli attacchi si estendono su centinaia di miniere di piccole dimensioni nel solo Burkina Faso. Un’indagine governativa condotta nel 2018 in base a immagini satellitari ha individuato circa 2.200 miniere d’oro informali. Dall’analisi degli incidenti documentati dall’Armed conflict location & event data project (Acled), un’azienda di consulenza che tiene traccia delle violenze di matrice politica, circa la metà di questi siti si trova nel raggio di 25 chilometri da località dove i miliziani hanno condotto i loro attacchi.
L’avanzata dei jihadisti ha seguito un percorso che da nord va verso il sud e l’est del paese, come emerge dall’analisi della mappatura dei loro spostamenti e delle aree minerarie realizzata con il supporto del Countering wildlife trafficking institute, un’azienda di consulenza statunitense specializzata nell’analisi dei dati geospaziali. Secondo questa analisi, i militanti si sono fatti strada in mezzo ad alcune delle più ricche miniere del Burkina Faso.
Intervento militare inutile
È difficile determinare quanto oro producano le miniere o chi di preciso le controlli. Molte si trovano in luoghi dove le forze governative sono assenti e imperversano i banditi. Le somme di denaro coinvolte sono però molto alte. Nel 2018 i funzionari governativi hanno visitato appena 24 siti nei pressi di località in cui erano stati condotti degli attacchi e hanno stimato la loro produzione a circa 727 chili di oro all’anno, per un valore di circa 34 milioni di dollari secondo i prezzi attuali.
Oumarou Idani, il ministro delle miniere del Burkina Faso, ha dichiarato nel maggio scorso che gli islamisti avevano assunto il controllo di alcune miniere, soprattutto nelle aree protette, dove incoraggiavano i minatori accampati a scavare violando i divieti imposti dal governo. “Fornivano cibo nell’accampamento e compravano e vendevano l’oro”, ha dichiarato.
L’oro è da tempo una merce ideale per i ribelli: mantiene il suo valore, è accettato un po’ ovunque come sostituto del denaro
Gli incidenti legati ai gruppi islamisti sono crollati drasticamente proprio a maggio, dopo che un’azione militare ha contribuito a scacciare i ribelli dalle aree minerarie. A ottobre però, secondo i dati dell’Acled, il totale era tornato ai livelli più alti toccati prima dell’intervento militare.
Secondo fonti governative, la maggior parte dell’oro prodotto informalmente in Burkina Faso viene contrabbandato verso i paesi confinanti, in particolare il Togo, per evitare le tasse sulle esportazioni. Da qui finisce nelle raffinerie prima di essere esportato in paesi come l’Arabia Saudita, la Turchia, la Svizzera e l’India.
“Gli estremisti hanno esteso le aree sotto il loro controllo e hanno migliorato la loro capacità di generare reddito grazie all’oro, mentre gli attori statali sono in una posizione di svantaggio per contrastarli”, ha affermato William Linder, ex funzionario della Cia che ha prestato servizio in Africa e adesso gestisce un’azienda di analisi del rischio. “Adesso l’incapacità di risolvere il problema non farà che aumentare e contribuirà a diffondere la crisi nel Sahel”.
Il ministro burkinabé per la sicurezza, Ousseini Compaoré, ha ribattuto che il governo non è incapace, anzi è ben consapevoli dei rischi e sta lavorando insieme ai colleghi della regione per cercare di contrastarli. In Mali le Nazioni Unite hanno denunciato che i ribelli tassano gli scambi di oro nella città settentrionale di Kidal e in Niger funzionari governativi affermano che gli islamisti pretendono una parte dell’oro prodotto nell’ovest del paese. Un alto funzionario del ministero delle miniere maliano ha affermato di non poter escludere la possibilità che gli islamisti stiano intercettando la produzione di oro, soprattutto nel nord, ma il ministero è al lavoro per cercare di regolamentare le attività minerarie su scala ridotta. Il ministro delle miniere del Niger non ha risposto alla nostra richiesta di un commento.
Stati di emergenza
L’oro è da tempo una merce ideale per i ribelli: mantiene il suo valore, è accettato un po’ ovunque in Africa, Medio Oriente e Asia come sostituto del denaro e una volta lavorato può essere facilmente fuso e contrabbandato. Secondo le stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), le miniere informali in Burkina Faso, Mali e Niger producono in totale circa 50 tonnellate di oro all’anno, per un valore di due miliardi di dollari.
Nel 2018 il Burkina Faso ha registrato esportazioni ufficiali per un totale di soli 300 chili di oro estratto da miniere di piccole dimensioni, tra l’1,5 e il 2 per cento della produzione stimata del paese. Queste cifre evidenziano la portata delle attività di contrabbando. I minatori informali operano spesso lontano dagli sguardi delle autorità. A seguito dell’azione intrapresa dal Burkina Faso per individuare le sue miniere di piccole dimensioni si è scoperto che solo 25 hanno permessi validi in tutto il paese, come riferito alla Reuters da Salifou Traoré, direttore dell’organismo di garanzia del governo.
Gli ispettori governativi hanno controllato più di mille siti e ne hanno trovate circa 800 in attività, scoprendone anche altre non visibili dalle immagini satellitari, senza però raggiungerle tutte. Poiché ampie aree del nord e dell’est del paese sono al di fuori del controllo della capitale, è stato dichiarato lo stato di emergenza in 14 delle 45 province del paese.
Gli analisti che si occupano di sicurezza attribuiscono molti degli attacchi all’affiliato locale di Al Qaeda, Jama’at nusrat al Islam wal-muslimin (Gruppo per il supporto dell’islam e dei musulmani) e al gruppo locale Ansarul islam (Difensori dell’islam). Nella regione orientale del paese il gruppo Stato islamico nel grande Sahara è attivo nelle foreste da tempo rifugio di banditi, contrabbandieri e cacciatori di frodo. Non è stato possibile raggiungere nessuno di questi gruppi.
Senza alternative
In Burkina Faso come altrove i gruppi jihadisti sono inclini a sfruttare il malcontento locale per conquistare le persone. In un paese con un reddito annuo medio di meno di 600 euro pro capite secondo le stime della Banca mondiale, gli sforzi del governo di impedire a singoli minatori l’accesso alle miniere, sia per ragioni legate alla salvaguardia dell’ambiente sia per lasciare spazio a più grandi giri di affari, è una pratica poco popolare. “Quante persone in Burkina Faso possono pagare le rette scolastiche senza le attività minerarie artigianali?”, si chiede Moamoudou Rabo, leader di un sindacato nazionale dei minatori d’oro. “La nostra economia è basata sulle miniere d’oro. Non c’è altro”.
Vicino a Ouargaye, un dipartimento nel sudest del paese, i minatori riferiscono come gli islamisti siano arrivati mentre i poliziotti locali stavano chiedendo tangenti ai minatori che non erano in possesso di una carta di identità. I nove poliziotti erano armati, racconta un minatore presente alla scena, eppure sono fuggiti a bordo delle loro motociclette. “In seguito”, ricorda il minatore, “la gente ha riconosciuto come unica autorità gli uomini armati”. Il ministro dell’interno Compaoré ha affermato di non poter verificare questi racconti.
A giugno centinaia di civili in fuga da un’ondata di attacchi contro le chiese nel nord del Burkina Faso sono arrivati nella periferia della capitale Ouagadougou. Avevano con sé solo quello che erano riusciti ad ammassare su camion o autobus, un sacco di riso, taniche per l’acqua, pentole e padelle, tappetini sui quali poter dormire. Donne e bambini hanno cercato riparo nei polverosi cortili di tre scuole. Tra loro un gruppo di giovani uomini che avevano scavato nei pressi della remota cittadina di Silgadji, vicino al confine con il Mali. Per mesi, hanno raccontato, estremisti armati che non provenivano della regione si erano nascosti tra i minatori. Avevano imposto le loro leggi e minacciato di uccidere chiunque parlasse della loro presenza. Zakaria Sawadogo, 43 anni, è fuggito con la sua famiglia nella capitale. “Un tempo c’erano dei commercianti che venivano a comprare il nostro oro per rivenderlo”, racconta. “I terroristi però li derubavano”. I commercianti hanno smesso di venire, ha aggiunto.
A sud, nella cittadina di Bartiebougou, un carpentiere che ha trascorso quattro mesi su un progetto edilizio in un’area mineraria non lontano da lì ha affermato che i pozzi sono pieni di combattenti. “Erano armati meglio dei soldati”, ha dichiarato. “Controllavano tutto” e ha aggiunto che gli uomini armati reclutavano alcuni minatori affinché scavassero per conto loro e da altri acquistavano l’oro. A volte gli intrusi islamisti davano cibo ai poveri, altre erano invece spietati. “Abbiamo visto due persone giustiziate perché vendevano alcolici”.
Dai pascoli alla Svizzera
L’oro fluisce fuori dal Burkina Faso attraverso i porosi confini a bordo di automobili o autobus. Viene fissato addosso al bestiame o nascosto in balle di fieno trasportate sulle biciclette. I minatori di Kabonga, un’area di pascolo nei pressi di Pama riservata agli allevatori, raccontano che tra i compratori ci sono abitanti del posto e commercianti provenienti dai paesi vicini, tra cui Ghana, Togo, Benin e Nigeria. Il vicino Togo, un paese che produce poco oro dalle sue miniere, è uno snodo del contrabbando.
Negli ultimi anni gli Emirati Arabi Uniti – un centro globale di lavorazione e commercio dell’oro – sono diventati la principale destinazione del metallo proveniente dal Togo, dichiarando secondo dati commerciali delle Nazioni Unite, importazioni per più di sette tonnellate nel 2018 (per un valore di 560 milioni di euro). Arabia Saudita, Turchia e Svizzera sono a loro volta i principali acquirenti dell’oro proveniente dagli Emirati Arabi Uniti.
Una persona con conoscenza diretta dell’iniziativa ha riferito alla Reuters che all’inizio del 2019 funzionari internazionali hanno fatto pressioni sul Togo affinché intervenisse per impedire il contrabbando di oro, nel timore che questo commercio stesse alimentando il conflitto nella regione. Nestor Adjehoun, direttore per lo sviluppo e il controllo del ministero delle miniere del Togo, ha dichiarato che nel paese il commercio di oro era stato sospeso dall’inizio dell’anno con l’obiettivo di rendere il settore più trasparente. I dati relativi alle esportazioni del Togo nel 2018 non sono tra quelli a disposizione delle Nazioni Unite.
Non sempre l’oro esce attraverso i paesi confinanti. Chi ha le giuste connessioni e mezzi sufficienti può contrabbandarlo dal Burkina Faso passando dall’aeroporto internazionale di Ouagadougou. È quanto ha svelato alla Reuters un ex contrabbandiere di oro con anni di esperienza in Africa occidentale.
Evariste Somda, alto funzionario burkinabé delle autorità doganali, ha risposto che sono le reti del traffico di oro, con l’aiuto di funzionari corrotti, a incanalare l’oro fuori dal paese per via aerea. Il flusso sta privando il paese di milioni di dollari di entrate e i funzionari doganali stanno cercando di arginarlo.
L’International crisis group, un centro studi con sede a Bruxelles, ha chiesto agli Emirati Arabi Uniti di rendere più severe le norme per impedire che il commercio di oro possa essere utilizzato per finanziare il terrorismo. Un alto funzionario emiratino ha risposto che il suo paese mette in campo una normativa solida in linea con gli standard internazionali.
Operazione tempesta di fuoco
I minatori hanno raccontato che a gennaio l’esercito ha lanciato con l’elicottero dei volantini in cui si chiedeva ai minatori di lasciare i siti nei dintorni di Kabonga. Il mese successivo l’esercito ha dichiarato di aver ucciso circa 30 combattenti nel corso di bombardamenti aerei e operazioni di terra nella zona.
Il governo ha proibito le attività minerarie di piccola entità in tutto l’est e in gran parte del nord del Burkina Faso e le truppe governative hanno avviato un’offensiva di sei settimane, denominata “tempesta di fuoco”, per ripristinare l’autorità dello stato nella regione orientale. Il 12 aprile il generale Moise Miningou, capo delle forze armate del Burkina Faso, ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa: “La nostra missione può dirsi compiuta”. Nel nord il governo ha lanciato a maggio un’operazione simile, denominata “estirpazione”, tuttora in corso.
Tuttavia da giugno ci sono stati più di 500 morti causati da violenze provocate dai gruppi jihadisti in entrambe le regioni. A settembre i combattenti islamisti occupavano almeno quindici miniere nell’est del paese, controllandone in modo diretto la produzione e le vendite. È quanto riferito da Mahamadou Savadogo, consulente per la sicurezza ed ex agente burkinabé che sta conducendo delle ricerche sulla ribellione. Nonostante i divieti imposti dal governo, le attività minerarie proseguono nelle aree dove sono attivi gli islamisti: una fonte interna ai servizi di sicurezza ha riferito che a ottobre 20 persone sono rimaste uccise in un attacco a una miniera d’oro informale nella provincia settentrionale di Soum attribuito ai jihadisti.
Oggi non è del tutto chiaro chi controlli Kabonga, la miniera nei pressi della riserva naturale che confina con il Sahel. “La foresta di Kabonga è immensa”, ha dichiarato a giugno il ministro della sicurezza Ousseini Compaoré alla Reuters. “Non possiamo escludere l’idea che alcuni vi si siano ritirati per nascondersi e tornare in seguito”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è stato pubblicato dall’agenzia britannica Reuters.