La farsa dei grandi eventi in Egitto e in Qatar
Queste settimane in Medio Oriente si svolgono due eventi di rilevanza mondiale che hanno alcuni elementi in comune.
Il 18 novembre si conclude a Sharm el Sheikh, in Egitto, la conferenza internazionale sul clima Cop27. Due giorni dopo cominciano in Qatar i mondiali di calcio maschile, i primi organizzati in un paese arabo. Pur essendo ovviamente due appuntamenti molto distanti tra loro per temi trattati, individui coinvolti, rilievo e conseguenze sulle vite delle persone, entrambi sono avvolti da una cappa di tensioni, nervosismi, violenze latenti e occultate che sfociano nell’assurdo. E illustrano come gli interessi economici e strategici hanno preso il sopravvento, spingendo i paesi occidentali a stringere alleanze con i regimi autoritari in nome del pragmatismo nazionale, mettendo da parte qualunque remora legata ai diritti umani e alla giustizia.
Mentre a Sharm el Sheikh sfilano i leader mondiali sotto lo sguardo compiaciuto del presidente Abdel Fattah al Sisi, che sperava di nascondere le violazioni dei diritti umani di cui si macchia il suo regime sotto la patina verde dell’ambientalismo di facciata, tra gli stand e i padiglioni rimbalza il nome di Alaa Abdel Fattah. Uno degli eventi più partecipati della Cop27 è stata la conferenza stampa tenuta da Sanaa Seif l’8 novembre, per chiedere la liberazione del fratello, protagonista della rivoluzione del 2011, in carcere dal 2019 e in sciopero della fame dal 2 aprile. Il giorno dell’apertura del summit Abdel Fattah ha avviato anche uno sciopero della sete, come misura estrema per fare pressioni su Al Sisi. Ne è seguita una settimana di braccio di ferro surreale: da un lato il corpo debole di Abdel Fattah, fiaccato da sette mesi in cui ha assunto solo cento calorie al giorno, ma rafforzato dalla solidarietà di tante persone in tutto il mondo; dall’altro un regime che si sostiene su un dispiegamento militare capillare e accuratamente predisposto per evitare qualunque incidente durante il grande evento.
Senza precedenti
Per giorni non si è saputo nulla di Abdel Fattah. È circolato il sospetto che sia stato nutrito a forza, mentre le autorità hanno fatto sapere che è stato sottoposto a un “intervento medico” non meglio specificato. La madre Leila Soueif, matematica e attivista per i diritti umani, l’ha visto l’ultima volta il 17 ottobre. Da quando è cominciata la Cop27 è andata ogni giorno davanti al carcere di Wadi el Natroun per chiedere una prova che il figlio fosse ancora vivo. Finalmente il 14 novembre le è stata consegnata una lettera scritta a mano da Abdel Fattah e datata due giorni prima, in cui lui dichiara di stare bene e di aver ripreso a bere. In un’altra lettera del 15 novembre Abdel Fattah dice di aver messo fine anche allo sciopero della fame. Afferma inoltre di voler festeggiare con la famiglia il suo compleanno durante la visita fissata per il 17 novembre (Abdel Fattah compie 41 anni il 18 novembre, il giorno in cui si conclude la Cop27). “Portate una torta”, c’è scritto nella lettera. Il suo avvocato Khaled Ali, che non lo vede dal marzo 2020, è andato tre volte al carcere per una visita di cui aveva ricevuto l’autorizzazione, ma è stato mandato indietro.
“Oggi per la prima volta in otto giorni riesco a respirare”, ha detto il 14 novembre Sanaa Seif, che è rimasta a Sharm el Sheikh per mantenere viva l’attenzione sul caso. E in effetti la risonanza che ha avuto è senza precedenti. Ma non è servita. Nemmeno le pressioni di alcuni dei capi di stato più importanti al mondo – come i presidenti di Francia e Stati Uniti, Emmanuel Macron e Joe Biden, il premier britannico Rishi Sunak e il cancelliere tedesco Olaf Scholz – sono riuscite a convincere Al Sisi a rilasciare l’attivista. E finora non è servita a niente neanche la cittadinanza britannica ottenuta da Abdel Fattah ad aprile, grazie al fatto che sua madre è nata a Londra. Probabilmente però nessun leader ha messo in dubbio gli affari che legano il suo paese al Cairo, compresa la compravendita di armi.
Restrizioni e misure di sicurezza
Le ambiguità che avvolgono il caso di Alaa Abdel Fattah riguardano in realtà tutto l’evento della Cop27. Nei giorni precedenti all’inizio della conferenza le autorità hanno arrestato decine di persone, tra cui vari giornalisti, e hanno vietato ogni manifestazione. Inoltre hanno imposto rigide misure di sicurezza a Sharm el Sheikh, compresa l’installazione di telecamere di sorveglianza su tutti i taxi, ha denunciato Human rights watch (Hrw). Il procedimento di registrazione per accedere alla cosiddetta zona verde dove si svolgono gli incontri è estremamente complicato, un’anomalia rispetto agli appuntamenti precedenti della Cop in cui il pubblico era invitato a partecipare. Ci sono state anche delle lamentele da parte di alcuni delegati, che hanno denunciato di essere stati spiati dalle forze di sicurezza.
A rendere il tutto ancora più assurdo è il fatto che la repressione del governo negli anni passati ha colpito in particolare il movimento ambientalista egiziano. È ancora Hrw a sottolineare che le restrizioni che impediscono ai gruppi ambientali di svolgere ricerche e attività indipendenti “violano il diritto alla libertà di riunione e di associazione” e compromettono la capacità dell’Egitto di “rispettare gli impegni presi” su clima e ambiente. Come se non bastasse la stessa location della Cop27 è un esempio di distruzione ambientale realizzata per rincorrere il profitto. Nei decenni passati Sharm el Sheikh è stata snaturata per renderla una delle mete turistiche più famose al mondo. In un articolo pubblicato su The Intercept, Naomi Klein, giornalista, scrittrice e attivista canadese, e Mohammed Rafi Arefin, del Center for climate justice dell’university of British Columbia, denunciano che nel Sinai, dove si svolge la Cop27, nello scorso decennio le forze di sicurezza hanno distrutto i terreni delle comunità beduine locali. I danni si faranno sentire per decenni.
A rendere il tutto ancora più assurdo è il fatto che la repressione del governo ha colpito in particolare il movimento ambientalista egiziano
I timori per l’ambiente e per le violazioni dei diritti umani riguardano anche l’altro grande evento che sta per aprirsi in un paese mediorientale: i mondiali di calcio maschile in Qatar. Doha si è vantata di voler organizzare i primi mondiali che dovrebbero raggiungere la neutralità carbonica, ma gli esperti non sono convinti che sia possibile. Un articolo dell’Associated Press precisa che nei dodici anni precedenti alla competizione, il Qatar si è lanciato in un’attività edile senza pari. Ha costruito sette degli otto stadi destinati alle partite, una nuova rete di metropolitana, autostrade, grattacieli e Lusail, una città futuristica sulla costa orientale, dove fino a dieci anni fa non c’era altro che sabbia del deserto. Inoltre gli stadi saranno rinfrescati con un sistema di aria condizionata all’aperto, gli 1,2 milioni di tifosi attesi saranno dissetati grazie a impianti di desalinizzazione che renderanno potabile l’acqua dell’oceano e in migliaia saranno alloggiati nella vicina Dubai e in altre città del Golfo perché negli alberghi qatarioti non ci sono abbastanza posti. Saranno trasportati in aereo a vedere le partite.
Gli organizzatori sostengono però che l’evento può contare anche alcuni elementi “verdi”: ottocento nuovi autobus elettrici, seimila alberi, 700mila arbusti nei vivai e un nuovo impianto di energia solare da 800 megawatt. Inoltre promettono che le emissioni saranno compensate investendo in progetti di energia rinnovabile, che però secondo gli esperti potrebbero rivelarsi poco efficaci.
Un articolo di Republik mette anche in dubbio l’idea che gli stadi costruiti per i mondiali possano essere riciclati, riconvertiti e riutilizzati, come prevede il progetto iniziale. Le strutture hanno forme evocative: lo stadio Education city dovrebbe ricordare un tradizionale copricapo femminile, l’Al Thumama uno maschile, poi c’è una tenda dei nomadi, un’antica ciotola, che però potrebbe essere anche una lanterna, e una duna di sabbia, che è anche uno scudo. Il materiale di alcuni stadi dovrebbe essere usato per costruire nuovi edifici in paesi in via di sviluppo, altri invece dovrebbero essere trasformati in alberghi o centri commerciali. Ma i costi per realizzare questi progetti sono molto alti, commenta Republik, e molte decisioni non sono ancora state prese.
A essere incerto in realtà è il successo di tutta l’operazione. Il Qatar ha puntato molto su un evento che avrebbe dovuto suggellare la sua affermazione sulla scena internazionale, ma le oscure manovre e le palesi violazioni dei diritti dei lavoratori stranieri che l’hanno accompagnato hanno suscitato le condanne internazionali. Tanto che si parla sempre di più dell’opportunità di boicottare l’appuntamento sportivo.
Un confronto, pubblicato sul numero di Internazionale in edicola dal 18 novembre, riporta due opinioni opposte su questo tema: è giusto decidere di non vedere le partite in tv per dare un segnale affinché non sia più scelto un paese ospitante inadeguato dal punto di vista politico o ambientale? O ormai è troppo tardi ed è meglio che la stampa segua l’evento cercando di raccontarne i lati oscuri? Anche l’articolo pubblicato in copertina è sui mondiali. È ripreso dal giornale tedesco Die Zeit e ripercorre la storia del Qatar per capire come un paese che fino a qualche decennio fa aveva da offrire al mondo solo le perle nelle conchiglie sia riuscito a ottenere un peso così grande.
I grandi eventi potrebbero anche servire a inchiodare i regimi alle loro responsabilità, essere l’occasione per imporre ai governi autoritari il rispetto per i diritti dei loro cittadini o degli stranieri che lavorano nel loro paese. Ma se manca la volontà politica, schiacciata dal profitto e dai calcoli strategici, allora diventano solo delle vetrine vuote. Il riflesso di un mondo in cui gli affari valgono più della vita delle persone.
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