Restituire le opere del passato per costruire il futuro dell’Africa
Non tutte le dimostrazioni di sostegno sono gradite. A inizio giugno il British museum di Londra ha espresso su Twitter la sua solidarietà al movimento Black lives matter rilanciando alcune dichiarazioni del direttore Hartwig Fischer, accompagnate dall’immagine di un’opera dell’artista afroamericana Kara Walker. Ma i commenti caustici non si sono fatti attendere.
“Oh, guarda! È una di quelle navi che il British museum e il Victoria and Albert museum hanno usato per trasportare il loro bottino dall’Africa al Regno Unito?”, ha ironizzato la scrittrice d’origine etiope Maaza Mengiste. Nei commenti, altre decine di utenti hanno colto l’occasione per chiedere ancora una volta al museo di restituire alcune delle migliaia di opere d’arte che custodisce da decenni, ma che furono sottratte illegalmente ai tempi delle spedizioni coloniali in Africa e in altri continenti.
“È triste che ci sia voluta la morte di un uomo nero disarmato (George Floyd) perché lei decidesse di unirsi alla conversazione sul passato coloniale del British museum”, ha scritto il giovane artista Bayryam Mustafa Bayryamali in una lettera indirizzata a Fischer, lo storico dell’arte tedesco che dal 2016 dirige il più antico museo pubblico del mondo. “Dai bronzi del Benin allo scudo di Gweagal, il British museum tiene in ostaggio degli oggetti rubati e li separa dalle loro comunità con allarmi, vetrine, muri, guardie e confini. (…) Nel corso del tempo questo museo ha promosso attivamente la concezione orientalista che quegli oggetti originari di comunità ‘altre’ sarebbero stati accuditi meglio se fossero rimasti nelle mani dei colonizzatori. È arrivato il momento di riconoscere che il British museum ha promosso per decenni stereotipi razzisti e coloniali”.
Bayryamali è un attivista del gruppo BP or not BP?, che chiede sia la restituzione delle opere d’arte rubate sia la fine della sponsorizzazione dell’azienda petrolifera Bp alla prestigiosa istituzione londinese. Negli ultimi anni il gruppo si è fatto notare organizzando delle visite guidate al British museum sul tema Stolen goods (beni rubati), e invitando attivisti iracheni, palestinesi, greci e aborigeni australiani a raccontare la storia e il significato di quegli oggetti che vorrebbero veder tornare nei loro paesi.
Per l’avvocato britannico specializzato in diritti umani George Robertson il British museum è “il più grande ricettacolo di opere d’arte rubate al mondo” ma continua a raccontarsi una “serie di verità di comodo” per giustificare il possesso di tesori come i marmi del Partenone, rivendicati dalla Grecia; Hoa Hakananai’a, la grande scultura in pietra lavica che gli abitanti dell’Isola di Pasqua vorrebbero avere indietro; o i bronzi del Benin rubati dalle truppe britanniche nel 1897, una collezione di centinaia di sculture e altre decorazioni che abbellivano il palazzo reale dell’oba (re) di quella che è oggi Benin City, nel sud della Nigeria.
“Siete dei ladri”
In Francia un altro museo è finito nel mirino di un gruppo di attivisti. In cinque sono entrati il 12 giugno al museo del Quai Branly a Parigi, noto in tutto il mondo per le collezioni di arti cosiddette primitive di Africa, Asia, Oceania e Americhe, e hanno cercato di portare via un palo funerario del popolo bari risalente al diciannovesimo secolo. “Siete dei ladri”, urlava uno di loro mentre gli altri filmavano l’incursione. I cinque sono stati accusati di tentato furto, mentre il ministro della cultura francese Franck Riester ha condannato il gesto, aggiungendo che “il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte originarie del continente africano è legittimo”, ma “non giustifica azioni del genere”.
Le proteste antirazziste che dagli Stati Uniti si sono diffuse in altre parti del mondo e che hanno portato alla rimozione delle statue che celebrano i simboli della supremazia bianca, dallo schiavista Edward Colston a re Leopoldo II del Belgio, hanno riacceso una discussione che va avanti da decenni sulla necessità che alcuni degli artefatti conservati nei musei europei tornino nei paesi d’origine. O che, come minimo, siano esposti in un ambiente adatto, senza categorizzazioni razziste o riferimenti alla missione civilizzatrice del colonialismo, e che faccia risaltare la specificità delle opere esposte. È il tentativo fatto dal Museo reale dell’Africa centrale di Bruxelles, oggi Africa museum, che conserva 180mila oggetti originari del continente. Il palazzo, costruito a inizio novecento con i proventi dei saccheggi del Congo, è rimasto chiuso per restauri per cinque anni e ha riaperto alla fine del 2018 con un volto rinnovato. Tuttavia il tentativo di decolonizzare il museo è coraggioso solo fino a un certo punto ed è quasi impossibile far dimenticare al visitatore quella che era la funzione originaria, cioè esaltare l’impresa coloniale belga.
Nel dibattito sulla restituzione delle opere ha messo un punto fermo il rapporto Savoy-Sarr, commissionato dal governo francese nel 2018: i due autori, la storica dell’arte francese Bénédicte Savoy e l’economista senegalese Felwine Sarr, raccomandano la restituzione pura e semplice, a tempo indeterminato, di migliaia di oggetti acquisiti come bottino di guerra. Nell’introduzione del documento, dove si cita tra l’altro il caso dell’obelisco di Axum reso all’Etiopia dall’Italia solo dopo “mezzo secolo di negoziati”, i due studiosi spiegano:
La questione delle restituzioni punta il dito al cuore di un sistema di appropriazione e di alienazione, il sistema coloniale, di cui alcuni musei europei oggi sono gli archivi pubblici (…). Per un continente dove quasi il 60 per cento degli abitanti ha meno di vent’anni restituire significa garantire ai giovani africani l’accesso alla loro cultura, alla creatività e alla spiritualità di epoche sì passate ma la cui conoscenza e il cui riconoscimento non dovrebbero essere riservati alle società occidentali o delle diaspore che vivono in Europa. I giovani africani, come quelli in Francia e in Europa, hanno un ‘diritto al patrimonio’.
Restituire è quindi un modo per riparare a un’ingiustizia, a un furto, ma anche un impulso alla creazione di un nuovo immaginario culturale e artistico in paesi che ancora oggi portano i segni del trauma della colonizzazione. L’artista nigeriano Viktor Ehikhamenor racconta in un articolo sul New York Times di una sua visita al British museum nel 2017 per vedere i famosi bronzi del Benin: “Niente mi aveva preparato al colpo emotivo nel vedere quelle placche in bronzo sospese a pali verticali come biancheria lasciata ad asciugare dal vento. Nei santuari e negli altari di casa, quelle opere avrebbero avuto un contesto e un significato. Nell’ambiente asettico del museo sembravano sminuite e fuori luogo. Quel giorno mi sono reso conto che molti nigeriani non hanno mai avuto l’occasione di osservare una parte così importante della loro storia”.
Un’altra forte emozione – “come incontrare un vecchio parente in un paese straniero” – è stata la vista della maschera della regina Idia, un manufatto in avorio del cinquecento, che nonostante la lunga assenza dal continente, è stato il simbolo di associazioni di artisti ed eventi culturali storici, come il Festac ‘77 a Lagos, il secondo festival mondiale delle arti e culture nere. In quell’occasione, racconta lo scrittore nigeriano Wole Soyinka nelle sue memorie, il ministro della cultura dell’epoca – che, tra l’altro, era un discendente della famiglia reale del regno del Benin – chiese la restituzione della maschera, ma il British museum si rifiutò e il governo di Londra se ne lavò le mani.
Non in prestito
Quanti oggetti d’arte sono stati restituiti ai paesi africani? Finora molto pochi. Alla fine dell’anno scorso ha fatto notizia la consegna in pompa magna della spada appartenuta al comandante El Hadj Omar Tall, che combatté contro i colonizzatori, dalla Francia al Senegal (dove si chiede la rimozione della statua di Saint-Louis del governatore francese Faidherbe, l’uomo che uccise El Hadj Omar). La spada e il suo fodero sono oggi esposti al Museo delle civiltà nere di Dakar, inaugurato nel 2018. Tuttavia l’oggetto è ancora solo in prestito per cinque anni, nell’attesa che i deputati francesi approvino una legge che consenta le restituzioni definitive. Questo è solo un esempio degli ostacoli giuridici e procedurali che complicano il processo, anche quando c’è la volontà politica di far tornare nei paesi d’origine gli oggetti d’arte.
E, mentre i musei temporeggiano, le grandi case d’aste stanno registrando un sempre maggiore interesse verso l’arte di continenti considerati “altri”, con opere che vengono battute per cifre considerevoli. A causa della pandemia, gran parte di questi intermediari ha spostato molte aste online, e ha visto che in questo modo poteva raggiungere un pubblico di potenziali acquirenti molto più vasto, con interessi più vari. Christie’s ha annunciato la vendita a Parigi a fine giugno di una selezione di “Arte dall’Africa, Oceania e Nordamerica” che include una testa in terracotta di provenienza akan (Ghana), una statuetta Urhobo (Nigeria) e due pezzi, una testa e una placca in bronzo, del regno del Benin. Il valore stimato di alcune opere sfiora i 900mila euro.
Alcune vendite sono problematiche, sottolinea Quartz. Christie’s, per esempio, può tracciare la proprietà della testa in bronzo solo fino al 1890, quando entrò nella collezione di Frederick Wolff-Knize, che fu esposta a Vienna e a New York. Allo stesso modo la placca somiglia molto a quelle in esposizione in altri musei, il che fa pensare che possa essere parte dello stesso bottino di guerra. Nel caso, non dovrebbero tornare in patria anche queste opere?
La speranza è che il rinnovato dibattito sui simboli del colonialismo abbia l’effetto di accelerare le restituzioni, e di costringere molte istituzioni culturali europee (non solo in Francia e nel Regno Unito, ma anche in Germania, Austria, Italia, Belgio…) a fare i conti con il passato.
“Generazioni di africani hanno già perso una parte incalcolabile della loro storia e dei punti di riferimento culturali perché nel continente mancano alcune delle migliori opere d’arte che abbiamo mai creato”, conclude Viktor Ehikhamenor. “Non dovremmo continuare a chiedere, ancora e ancora, per riavere indietro ciò che ci appartiene”.